"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 25 dicembre 2014

nonostante tutto Natale


Abbiamo estremo bisogno di segni. Dal cielo, sulla terra, sottoterra. Quelli che portavano i doni, figure comprimarie del presepio, avevano stelle comete, presagi, sogni. Hanno trovato la capanna, hanno evitato di tornare dal sovrano sanguinario, sapevano con certezza che il vero re si trovava in un posto sperduto del medio oriente. Oggi abbiamo gli occhi accecati, le orecchie sorde, il naso chiuso. Avanziamo a tentoni, sbattiamo ovunque, senza direzione e senza equilibrio. Qua e lá si percepiscono vari canti delle sirene, proposte illusorie ed evanescenti, seducenti per anime fragili e in pena. Dobbiamo assolutamente ritrovare la via, e dobbiamo farlo insieme, mano nella mano, senza perderci più di vista. Da soli non possiamo farcela: la tentazione di fare a meno del prossimo ci ha portato nel baratro. Abbiamo bisogno di momenti particolarmente gravi per ricompattarci: dal dolore, dalla sofferenza, dalle tragedie abbiamo sempre riscoperto ciò che ci unisce, l'anima pulsante del popolo. Oggi che vediamo in modo confuso, come in uno specchio rotto, dobbiamo cercare legami più forti facendo leva su ciò che ci distingue, ossia il senso di umanità. Se c'è un augurio da fare, in giorni natalizi di fatica e smarrimento, che siamo capaci di tornare a misurarci come persone, dove il dolore e la gioia di uno diventano quelli di tutti. Non ci rimane molto tempo: o ci comportiamo come fratelli universali o siamo destinati inesorabilmente all'umana estinzione.

mercoledì 24 dicembre 2014

signora del tempo


Non si fa annunciare. Viene quando meno te l'aspetti. Non bussa alla porta e nemmeno si presenta. La sua non è mai la nostra ora. Non dá il tempo nemmeno di salutare, di sbrigare le ultime cose, di preparare le valigie. Non chiede il permesso, se lo prende. Non prende ordini da nessuno, nemmeno da colui che possiede il libro della vita. Non fa distinzioni tra meritevoli e indegni, tra bambini e vecchi, tra ricchi e derelitti. Prende e se ne va, senza parole, senza spiegazioni. Lascia il vuoto, il dolore, il silenzio, lo sgomento. Lascia domande senza risposta, lascia figli senza madri, madri senza figli. Lascia case vuote, cuori infranti, vite spezzate. Non se ne cura: passa e fugge altrove. É imbattibile, non esiste sfida ad armi pari. Insegue tutti: é impossibile sfuggirle. Si avverte in lontananza, ma spesso e volentieri si fa vedere anche da queste parti. Ci conosce tutti, uno per uno, ma a noi non é concesso guardarla in faccia. Abbiamo paura, perché siamo nati per compiere un viaggio e non per lasciarlo a metà. É signora e padrona del tempo, mentre noi siamo umili servitori: non abbiamo scampo, possiamo solo ubbidire.

venerdì 19 dicembre 2014

scandalo a cinque cerchi

Le ultime olimpiadi in Italia risalgono al 1960 e all'immagine simbolo dell'omonimo Berruti con le braccia levate al cielo dopo una grande gara sui 200. Non c'ero - per ovvie ragioni anagrafiche - e non sono così sicuro di esserci alle prossime - almeno ventilate - del 2024. C'è la vita di una persona in mezzo alle due edizioni: non è poi così irragionevole o scandalistico richiederne l'organizzazione dopo molti lustri trascorsi in giro per i continenti. Il pensiero fatalpopulista - mi sia permesso il neologismo - ha già emesso un verdetto di condanna: ci sono altre priorità, non ci sono soldi, non devono farne le spese i contribuenti, i politici e le ditte costruttrici si stanno già leccando i baffi e via così fino all'audiosfinimento - altro neologismo, oggi siamo in vena -. Onestamente é ininfluente, nella logica della discussione, sapere da quale sponda politica sia fuoriuscita la proposta: per quel poco che conosco dell'ambiente partitico italiano, se fosse stata la destra, avremmo sentito le stesse reazioni a parti invertite. Ogni argomento é motivo di scontro, persino le olimpiadi che, per stessa natura storica, dovrebbero essere simbolo di pace e di unità. A dirla tutta, non mi convince, anzi non mi piace per niente, questa sorta di mentalità qualunquistica che giudica lo sport qualcosa di secondario rispetto ai grandi problemi quotidiani. Magari, a lanciare sassi, sono le stesse persone che frequentano gli stadi o le varie trasmissioni da cui siamo assediati da anni e dove, realmente, si discute di tante cose inutili. Lo sport, l'attività motoria, dovrebbero essere al centro della vita umana: se non altro nella ricerca di uno stato di benessere che da individuale diventa collettivo. Se io sto bene, stanno bene anche le persone che mi stanno attorno, e viceversa. Alle olimpiadi non partecipano tutti, ne siamo coscienti, ma un evento di questa portata potrebbe mettere in moto molte iniziative benefiche per la salute dei cittadini, come potrebbe aumentare i praticanti per ciascuna disciplina sportiva coinvolta. C'è la questione appalti truccati? Bene, allora non costruiamo più niente, concentriamo la nostra energia sulla demolizione, però non lamentiamoci delle infrastrutture vigenti. Sarebbe come dire, per usare un'analogia in tema: visto che l'allenatore non mi fa giocare, perché dovrei allenarmi? Per capirsi, siamo contrari alle olimpiadi perché non ci sono soldi - motivazione plausibile - o perché qualcuno potrebbe sguazzarci - motivazione inaccettabile? Se ci sono stati casi in passato di malaffare non significa, a priori, che si possano ripetere. Si costituisca un comitato garante della trasparenza e si agisca nella legalità. Quante volte ho sentito ripetere che mancano le strutture: questa potrebbe essere l'occasione per rimettere a posto l'esistente e per coprire gli spazi ancora vuoti. Non sono ingenuo, sono il primo ad ammettere che non sono tutte rose e fiori: uccidere sul nascere questa proposta, però, con argomenti non sempre pertinenti, ci rende ancora meno credibili verso la comunità internazionale. Non dico buttiamoci, ma nemmeno gridare allo scandalo. Siamo ancora in grado come comunità nazionale di riconoscerci in qualcosa che ci unisce?

sabato 13 dicembre 2014

spazzaneve

Quella dei genitori spazzaneve è una definizione originale e realistica. Coniata in Inghilterra ma facilmente traducibile e verificabile anche in patria. Probabilmente aggirare l'ostacolo é diventato più conveniente e meno stressante che superarlo. Gli adulti non sono più in grado di accettare sconfitte e frustrazioni, in qualsiasi ambito, dallo scolastico al professionale passando per lo sportivo. Facciamo qualche esempio. Non vado bene a scuola, posso sceglierne un'altra, anche in corsa: sono sempre più frequenti e numerosi i passaggi da un istituto ad un altro. Certo, ci possono essere anche casi estremi, ma nella maggioranza dei casi si tratta di spostamenti tattici, nell'intento di non perdere l'anno scolastico. Che sarà mai una bocciatura? Eppure, oggigiorno una bocciatura, anche per alcuni scellerati media, può essere la causa per un suicidio: certo, se un fallimento non può essere concepito! Andiamo avanti. L'allenatore non mi fa giocare o mi urla troppo? Posso sempre cambiare squadra, ce ne sono talmente tante a disposizione che c'è solo l'imbarazzo della scelta: dietro a queste manovre possono anche esserci ragazzi in difficoltà, ma in genere genitori che faticano ad accettare che un ragazzo debba faticare a conquistarsi con merito considerazione e minutaggio. Di fronte ad un problema abbiamo una duplice possibilità: affrontarlo per risolverlo, oppure rimuoverlo e cercare altrove la soluzione. Nel primo caso, il processo é faticoso ma comporta una decisa maturazione nella costruzione della personalità. Il secondo caso, la via più breve, produce sollievo immediato ma anche una sorta di falsa illusione che la questione sia risolta una volta per tutte. La verità é che, assuefacendosi a dribblare le rogne, diventerà sempre più difficile e improbabile, se non con intervento di terzi, risolvere i vari enigmi che la vita reale sbatte inesorabilmente in faccia a ciascun abitante della terra, privilegiati compresi. L'alleato nel compito formativo dei figli non é più colui che aiuta a crescere anche attraverso prove e ostacoli e che si appella alla dura verità,  ma chi dá la sufficienza gratuita, chi fa giocare meritevoli e non, chi inganna disegnando un quadro di perfezione per tener lontani i mugugni dei felici interlocutori. Attenzione, in questo quadro fosco tutti sono colpevoli, scrivente compreso. La tentazione ad abdicare, intenzionalmente o meno, é sempre molto forte.

sabato 6 dicembre 2014

un passo avanti e uno indietro

Dico la mia sulle nuove annate previste dalla prossima stagione. Al femminile non è andata così male: tre annate consecutive - 13 14 e 15 - non erano facilmente sostenibili, valutando che molte giocatrici fanno già doppi campionati per scarsità numerica. In più le ragazze, maturando prima sia fisicamente che mentalmente, sono sufficientemente pronte a saltare alcuni gradini anche in età precoce. L'eliminazione dell'under 19 é una buona cosa: un campionato poco significativo con poche squadre di qualità e già definito in partenza. Passare un anno intero a giocare partite inutili e dall'esito scontato non é certo di sprone al movimento: in più, le giocatrici di maggiore impatto sono in genere occupate con le prime squadre perciò il più delle volte le partite sono di scarsa rilevanza. Capisco si debba fare un certo sforzo per evitare una selezione dannosa nei primi anni giovanili, ma arrivati alla maggiore età le scelte dovrebbero essere già chiare e definite. Vedere squadre che si presentano con il contingente ridotto ai minimi termini e che affrontano le gare con basso impegno e poca motivazione, non fa bene alla pallacanestro in rosa. E qui mi allaccio al settore maschile, al quale, a parer mio, é andata peggio. Abbiamo vissuto i malaugurati anni dell'under 21 e non avendo imparato la lezione viene riproposta l'under 20, che é un'annata sensata per quanto riguarda rappresentative nazionali, ma che a livello di campionato diventa una scelta insostenibile e controproducente. Insostenibile perché a livello organizzativo sarà pressoché impossibile allestire un gruppo di ragazzi, quasi tutti alle prese con una nuova avventura universitaria o di lavoro: solo chi avrà fatto una scelta professionistica sarà in grado di partecipare, cosa che esclude a priori le società dilettantistiche, quelle che costituiscono il polmone vero del movimento cestistico italiano. Controproducente in quanto, come già espresso in altre circostanze, trovo anacronistico prolungare la fase giovanile quando gli atleti dovrebbero trovare spazio nelle squadre senior: anzi, si utilizza un palliativo per nascondere il vero problema, ossia il fatto che molti dei ragazzi che escono dai nostri settori giovanili non sono in grado di giocare in prima squadra. Togliere l'ostacolo - ossia allungare i tempi di maturazione - non è a parer mio la strategia giusta per formare i giovani giocatori: l'impatto con il basket reale potrebbe essere impegnativo, ma é l'unica strada per affermarsi e migliorare. Negli altri paesi europei, non si fanno molti problemi a mettere in campo giovani di qualità - vedi Barcellona in Eurolega ad esempio. Noi invece continuiamo a tenere i giocatori nel nido, illudendoli che un giorno, prima o poi, sarà il loro turno. Se invece l'idea é quella di avere più tesserati possibili, allora mi arrendo ma non ha niente a che fare con il bene della pallacanestro italiana: l'attenzione alla quantità andrebbe data nelle categorie basse e dovrebbe lasciare progressivamente il passo ad un'enfatizzazione sulla qualità. Questa scelta mi sembra che vada nella direzione opposta. Certo, nessuno ha la verità in tasca, nemmeno su queste scelte delicate, e ci si muove spesso a tentoni. Non imparare dagli errori, però, é poco incoraggiante.

giovedì 4 dicembre 2014

la pagliuzza e la trave

La squalifica di quattro anni a Carolina Kostner é l'ennesimo capitolo paradossale della vicenda doping. Per assurdo una sanzione più grave di quella del compagno - o ex? - Alex Schwazer. Alzi la mano chi avrebbe fatto diversamente, chi, in un impeto di legalità anafettiva, avrebbe invitato gli ispettori ad entrare e accomodarsi per dare una bella lezione al fidanzato imbroglione. Per carità, niente da dire, la legge é stata infranta, ma che debba pagare più duramente l'esecutore dell' ingenuo complice puzza molto di depistaggio e di sanatoria programmata. Si guarda alla pagliuzza e ci si dimentica della trave. Dove sono i dirigenti CONI che in nome della celebrità olimpica e di qualche medaglia in più hanno permesso, nascosto, sviato, collaborato? Per anni un sistema corrotto, interno ai vertici sportivi, abbagliato dall'ambizione, ha consentito che molti atleti potessero avere discutibili frequentazioni pur di non sfigurare in ambito internazionale. Come ha detto recentemente Alessandro Donati, combattente vero del doping e da sempre perseguitato, l'Italia sportiva deve avere il coraggio di ricominciare da capo e accettare di vincere un po' di meno per guadagnare in credibilità e valore morale. Pazienza se altri dovessero perpetuare strategie illegali e nocive alla salute degli atleti: un paese che dá l'esempio sarebbe il primo fondamentale passo verso l'estinzione del male. Perciò mi indigno nel vedere tanto accanimento verso chi, in realtà, ha avuto un ruolo marginale. Cominciamo a fare i nomi dei colpevoli veri, a cacciarli dai posti di rilevanza che ancora ricoprono e a dare punizioni esemplari: cominciamo davvero a ripulire i piani alti del palazzo. Non ci sarebbero atleti dopati se non ci fossero medici, dirigenti, funzionari collusi. Da chi arriva la squalifica? Guarda caso, dalla procura del CONI, lo stesso ente che ha coperto per anni gli atleti che facevano uso di sostanze dopanti. Evidentemente, lo dico da ingenuo e profano, c'è qualcosa che in tutto questo non funziona. Signor Malagò, tutti sappiamo che il suo compito non é semplice, ma adesso vogliamo vedere segnali evidenti.

martedì 25 novembre 2014

coerenza lor signori

Gli stessi che lo hanno accompagnato all'altare adesso lo ripudiano. Coerenza, signori, sapete come é fatta? Avete voluto voi che Poz fosse il personaggio pirandelliano che é sotto i nostri occhi, diverso dagli altri, eccentrico e imprevedibile, non scontato e scioccante. Vi sono piaciute le sue esternazioni non banali e compassate in sala stampa, vi é piaciuto il suo modo di parlare senza giacca e cravatta, vi piace la sua squadra libera di giocare in attacco, adesso che si é strappato la camicia avrebbe superato il limite? Il limite che voi stessi avete desiderato che superasse, portando un che di novità all'ambiente stantio e ripetitivo. Poz é questo: lo era quando giocava, lo é da allenatore. Sanguigno, vero, istintivo, irrefrenabile: non c'è storia né motivo che cambi. Lo si prende così o lo si scarta. Non ci sono vie di mezzo. Perciò toglietevi quella falsa aria di moralisti bacchettoni e lasciate che il nostro paghi per gli errori che ha commesso. Chiedere che sia diverso sarebbe come proibire ad un bambino di correre all'ingresso del parco o ad un affamato di attendere con le pietanze già pronte in tavola. Non è riuscito a frenarsi? Bene, che venga punito. Ma gettarlo in strada dopo averne fatto un eroe é un atto di disonestà intellettuale. L'avete usato per lanciare un nuovo prodotto, ora che può diventare scomodo lo state togliendo dal mercato. Io l'ho criticato fin dal primo giorno per la sua esuberanza, ora posso permettermi di difenderlo. Si, ora sto con il Poz. Cosa sarà un'espulsione?

martedì 18 novembre 2014

sos infortuni

Aumentano gli infortuni in palestra. Così dice un trafiletto di un giornale locale con tanto di statistiche. Ma che sorpresa! Sorpresa per chi? Per chi le palestre scolastiche non le frequenta da tempo. Per chi ci vive quotidianamente, é solo la conferma contabile di ciò che é risaputo ormai da un bel pezzo. Non è frutto di casualità, nemmeno colpa delle palestre o delle persone che ci lavorano. Purtroppo é l'utenza che é drasticamente cambiata. Una buona fetta di ragazzi italiani non ha i presupposti motori per sopportare carichi superiori alla media: ad esempio, fare una partita di calcetto - forse il divertimento massimo per la gioventù attuale - comporta un'intensità a livello muscolare, articolare e tendineo che pochi riescono a sopportare agevolmente e senza danni. A meno che si giochi a ritmi antalgici, ossia camminando per il campo. Le caviglie e le ginocchia dei ragazzi del duemila sono matematicamente più fragili di quelli che li hanno preceduti: non é difficile coglierne i motivi, ogni giorno che passa nel paese si fa meno attività fisica, soprattutto libera e spontanea. Oggi per pomparsi ed apparire i giovanotti vanno nelle palestre di pesi, un tempo bastavano le occupazioni o i divertimenti quotidiani a forgiare il corpo. In sostanza, madre natura ha lasciato il posto ai laboratori artificiali della costruzione fisica. I cosiddetti movimenti naturali, tipo correre saltare arrampicarsi strisciare rotolare ecc, giochi spontanei d'infanzia, stanno pian pianino scomparendo: é sufficiente mettere solo per un attimo il naso in qualsiasi palestra per cogliere le enormi difficoltà coordinative dei ragazzi associate a movimenti maldestri e incontrollati. Anche quei pochi che praticano sport, sembrano addestrati: osservare un calciatore fare pallavolo equivale a chiedere ad un romano di parlare dialetto triestino. C'è un altro fattore, forse più decisivo dei precedenti: i ragazzi sono sempre più incapaci di pensare mentre svolgono un compito. Non é questione di materia grigia: ne hanno anche troppa, ma sono disabituati ad usarla in corso d'opera. É come se fossero perennemente distratti. La consapevolezza, che é l'arte della presenza a se stessi in ogni istante, é una virtù sconosciuta. Logico che, mentre si svolge un esercizio gravoso ed intenso, in assenza di concentrazione, le probabilità di infortunio si moltiplichino alla potenza. La mia battaglia feriale si basa proprio su questi concetti: aiutare a tenere il più a lungo possibile la giusta soglia di attenzione. Non mi arrenderò facilmente: non saranno gli sbuffi o i rimbrotti a farmi recedere. Mission impossible? Può darsi, ma se molliamo non lamentiamoci di vedere le nostre nazionali sprofondare sempre più verso il basso: per farne uno come Danilo Gallinari ce ne vogliono diecimila. 

giovedì 13 novembre 2014

giovani bambini

Mi butto nella mischia rischiando l'osso del collo: nel polverone che si è alzato sulla possibile riforma dei campionati giovanili mi permetto umilmente di offrire un'angolazione diversa. Non credo si tratti di numeri e nemmeno, per quanto logico e comprensibile, di parallelo scolastico. In un contesto, non solo e non tanto sportivo, dove i nostri giovani faticano a crescere é necessario che come adulti ed istituzioni evitiamo di farci complici di un colpevole ritardo di maturità delle generazioni a seguire. Ad esempio - anche se la cosa potrebbe penalizzare me e tanti altri professionalmente - sarei favorevole ad anticipare il termine del percorso scolastico. Non solo per equiparazione all'Europa, ma soprattutto per scongiurare il rischio che i ragazzi utilizzino gli anni di studio per parcheggiare piuttosto che fare leva sulle proprie capacità creative. D'accordo l'obbligo scolastico, che é un diritto prima ancora che un dovere, ma vedere gente di venti e passa anni alle scuole superiori non dá dignità al nostro paese e nemmeno a chi ci lavora. Nella pallacanestro, con le debite differenze, succede la stessa cosa: ragazzi intrappolati nelle giovanili perché ritenuti non ancora pronti oppure per soddisfare le ultime discutibili aspettative di adulti che faticano a rompere il cordone ombelicale. Giovani che si comportano da bambini. Uno dei tanti motivi per cui la produzione di giocatori in Italia é rallentata fortemente sta proprio in questo tentativo, certamente in buona fede, di allontanare sempre più il raggiungimento dell' età adulta sportiva. Non è solo colpa degli allenatori che non fanno giocare i giovani: finché ci saranno "riserve" per la salvaguardia della specie, i ragazzi non avranno fuoco dentro per farsi largo nel difficile mondo dello sport per adulti. Tanti si perdono perché non allenati alle insidie e difficoltà di un ingresso troppo scioccante in un ambiente con regole e abitudini totalmente diverse. Negli ultimi tempi, considerati di crisi, vedo con piacere alcuni giovani affacciarsi con prepotenza nei piani alti, segno che, abbandonati alibi e lamentele, arrivare é possibile. E chissenefrega se il livello di gioco si è abbassato: fosse per me manderei a casa il settanta per cento degli stranieri e ne terrei solo due, davvero buoni, come si faceva nella preistoria. Ho sentito troppo in questi anni parlare di politiche per i giovani: se questo significa tenerli ancora nel nido ed imboccarli anche quando sono in grado di cavarsela da soli, non mi trovano d'accordo. Come molti che ci lavorano a fianco, ho a cuore il destino delle nuove generazioni: il modo migliore per aiutarli, però, non sta né  nell'illusione né nell'inganno, tantomeno nella semplificazione delle difficoltà. Sbattere il muso, a volte, può essere doloroso, ma spesso é l'unica chiave per aprire, a furia di tentativi, la porta giusta.

martedì 4 novembre 2014

Se avessi un buon carattere

Se avessi un buon carattere non sarei quello che sono. Eviterei di arrabbiarmi e di ingrossarmi la bile per questioni che, tutto sommato, non meritano grande attenzione, soprattutto da parte del mio corpo. Imparerei a diventare insensibile alle preoccupazioni di cui, purtroppo, sono grande maestro. Fuggirei dalle ansie di prestazione che attanagliano le debolezze umane e mi scrollerei di dosso le manie di perfezionismo che sono una pia illusione per menti instabili e perennemente insoddisfatte. Riuscirei finalmente a relazionare con gli altri esseri terreni rinunciando alle prevaricazioni e alla frivola necessità di affermare le proprie ragioni. Sarei capace di passare sopra ai torti subiti e, in un impeto di trascendenza, forse anche a perdonare i nemici e coloro che ci fanno del male. Cercherei, prima di giudicare, di scoprire quali sono le ragioni che portano alcuni ad agire in modo sconsiderato e inqualificabile: forse i miei alunni mi sopporterebbero di più e compilerebbero una pagella con voti migliori. Ma questo, purtroppo o per fortuna, é il mio carattere.
Se avessi un buon carattere non sarei dove sono. Probabilmente frequenterei piani più alti e palazzi più pregiati. Non mi troverei in una scuola qualsiasi di una provincia sperduta ad insegnare una materia inutile. Forse sarei in qualche partito a farmi largo a bracciate e a difendere con accanimento la sedia prima tanto agognata poi conquistata. Oppure in qualche panchina prestigiosa in giro per l'Italia e fare il mestiere più bello del mondo. Ma questo, purtroppo o per fortuna, é il mio carattere.
Ognuno é padrone del proprio destino. Siamo quello che meritiamo. Meglio ancora, siamo quello che abbiamo voluto essere.

martedì 14 ottobre 2014

sappiamo dove sei

Ora sappiamo dove sei. Sappiamo dove trovarti. Sei ancora in mezzo al campo. Lo stesso campo che ti ha visto prima giocare e poi allenare. Ti vediamo mentre tiri in sospensione o fai un passaggio smarcante: le cose che sapevi fare in modo sublime. Quel campo non è più lo stesso. Non solo perché porta un nome diverso. Perché chi lo calca, d'ora in poi, dovrà raccoglierne l'eredità. Chi lo calpesta, dovrà una volta di più meritarselo. Eravamo in tanti a ricordarti: non puoi immaginare quanta scia di bene hai lasciato sulla terra. La tua modestia, la tua purezza, la tua discrezione: doti che ti hanno fatto apprezzare e che nessuno ha dimenticato. Sono passati quasi tre anni, ma il tuo ricordo non si è sbiadito. Ci manchi ancora, eccome, ma da questo momento un po' di meno. Ora sappiamo dove sei. Sappiamo dove trovarti.

martedì 7 ottobre 2014

piano B

Vedere giocatori o allenatori fermi al palo fa tristezza. Il concetto di precariato si è allargato a macchia d'olio anche nel mondo fin qui immacolato dello sport. Sebbene non siano molti coloro che hanno il privilegio di fare del gioco il proprio mestiere, nessuno si sente più garantito e al sicuro da spiacevoli sorprese. La pallacanestro in Italia sta vivendo momenti drammatici: società che spariscono o che rinascono come arabe fenici dalle categorie più basse, giocatori ed allenatori senza stipendi ed altri a spasso in attesa di uscire dall'incubo. Quello che un tempo poteva sembrare l'impiego più ambito e desiderato, oggi non è altro che una scommessa nel buio o una puntata d'azzardo nel gran tavolo delle incertezze. A mali estremi, estremi rimedi: alcuni hanno corso ai ripari decidendo, spesso a malincuore, di rinunciare al professionismo per dedicarsi ad altre attività lavorative. Ecco spiegato, ad esempio, come mai i campionati dilettantistici siano zeppi di ottimi giocatori, scesi di categoria per necessità più che per volontà. Giocatori che hanno un certo numero di anni di gioco alle spalle e che in alcuni casi tengono famiglia non possono certo permettersi di allenarsi mattina e sera senza vedere rimborsi o dovendo aspettare oltre ogni logica.
Fin qui la cronaca nuda e cruda: la cosa più importante da fare é quella di non illudere i giovani con falsi discorsi o scelte scriteriate. Procuratori senza scrupoli stanno in prima fila in questa corsa al massacro, ma anche dirigenti, allenatori e perfino genitori hanno spesso delle responsabilità gravi. Non si tratta di spegnere i sogni sul nascere: in verità, é proprio il desiderio di diventare campioni che spinge migliaia di ragazzi a sudare e sputare sangue sui campi. Ma deve esistere necessariamente e sempre un piano B: giocare per il gusto, che poi é il segreto di chi pratica sport, a qualsiasi livello. Un altro aspetto fondamentale che può fare la differenza in tempo di crisi é la professionalità nello svolgere il proprio compito: tra due atleti di uguali capacità, la scelta ricadrà su chi darà maggiori garanzie di affidabilità. Se un tempo si poteva passar sopra a bizzarrie e atteggiamenti sconvenienti, oggi le doti umane possono davvero diventare il salvagente in tempi di mare in tempesta.

mercoledì 1 ottobre 2014

un posto alla volta


Della vicenda, o duello che dir si voglia, Malagó-Barelli, mi interessa soprattutto la questione del doppio incarico. Reputo Malagó, come già detto in altre occasioni, la persona adatta ai vertici del CONI ma, in tutta onestà, mi sfugge la sua rigida persistenza nel ruolo di Presidente del Circolo Aniene, una delle società più prestigiose in Italia. Non é il primo e, purtroppo, non sarà l'ultimo caso di accumulo di responsabilità. Doppi e tripli incarichi in politica sono all'ordine del giorno: infatti rappresentano la causa maggiore di cattiva amministrazione, nel peggiore dei casi di malaffare e corruzione. Dovrebbe esistere un impedimento legale ad assumere più ruoli di responsabilità nello stesso ambito durante lo stesso periodo di tempo - la cosiddetta e beneamata incompatibilità -: in assenza di un quadro legislativo, il buon senso dovrebbe consigliare le dimissioni dall'una o dall'altra parte. Le conseguenze si avvertono ad alti livelli, sotto gli occhi di tutti e con forte esposizione mediatica, ma anche nei bassifondi, all'oscuro dell'opinione pubblica, spesso con conseguenze molto più pesanti che nel primo caso. Il protagonista si difende dicendo " parlavo come Presidente del CONI non come rappresentante di società ": mi chiedo come sia possibile fare questa distinzione, visto che la persona é unica e sempre la stessa. Tenere separati i piani é praticamente impossibile: agli occhi altrui qualsiasi scelta, anche la più logica e sensata, apparirà come inquinata e destinata a fare gli interessi del promotore. Rinunciare ad un incarico potrebbe essere doloroso sotto l'aspetto retributivo - se fosse previsto un rimborso - oppure per un minore esercizio del potere pubblico: ma c'é un indubbio guadagno in libertà e pulizia di manovra, non essendoci conflitti di interesse e non dovendo giustificare a nessuno le proprie scelte, se non per la bontà o meno delle stesse. C'é poi un problema reale legato alla possibilità concreta di svolgere adeguatamente più mansioni: la logica ricorrente é affidare, in nome del contenimento della spesa, più incarichi alla stessa persona. Basti vedere cosa sta succedendo nella scuola, con presidi che devono saltare da un plesso all'altro con il risultato di far poco e male. Se la buona politica si vede dal risparmio indiscriminato, allora va bene così. Credo invece che la parsimonia, esercitata già da secoli in ogni nucleo famigliare, vada applicata ad alcune priorità.

lunedì 15 settembre 2014

invincibili


Gli americani avrebbero potuto fare dieci nazionali, ma coach K ne ha scelti 12, quelli giusti. Ecco perché, in questo come in altri casi, l'allenatore ha fatto la differenza. Ha portato giocatori giovani, affamati, allenabili, cercatori di gloria lontano dai propri confini. Non ci sono controprove, perciò non sapremo mai se con le cosiddette stelle le cose sarebbero andate diversamente. Forse, ma questa é licenza personale, sarebbero andate peggio. Questa squadra a stelle e strisce é piaciuta molto: nessun divismo, rifiuto dello spettacolo gratuito e irriverente, massimo rispetto per ogni avversario. Ma il vero genio dell'elegante tecnico dal cognome impronunciabile sta nell'aver trovato e proposto un efficace compromesso tra un'idea di gioco comune e la necessaria autodeterminazione di ciascuno. La fantasia e l'imprevedibilità - caratteristiche insite nei giocatori d'oltreoceano ma spesso vissute al limite dell'egocentrismo - organizzate armonicamente e messe a disposizione del bene della squadra. In sostanza, non una semplice somma, ma il prodotto di più fattori. Non è un caso se da quando coach K ha preso in mano la nazionale gli Stati Uniti hanno vinto tutte le gare ufficiali: é riuscito ad infondere la necessaria umiltà che allontana definitivamente l'arroganza con cui spesso gli yankees si sono in passato suicidati. Se queste sono le premesse, non si vedono all'orizzonte sfidanti in grado di strappare il titolo. Infatti, i veri avversari degli americani erano, sono e saranno gli americani stessi: da quando, però, hanno imparato il rispetto che si deve agli altri, sono diventati invincibili. In tutto questo coach Krzyzewsky ha avuto un ruolo decisivo: trovare un erede non sarà un compito facile.

giovedì 11 settembre 2014

presunciòn d'equipo



Sono sincero, non é una bella notizia per domenica. Soprattutto per gli esteti di questo sport. Spagna-USA ( per chi ricorda la finale olimpica ) é la sfida tra le due squadre, o scuole, che principalmente scelgono di giocare a pallacanestro. Ciò nonostante, se é vero che nello sport il merito non è discutibile, allora vive la France, che ha vinto con le armi dell'umiltà, del sacrificio, della lotta. Per l'ennesima volta - Dio solo sa quante volte é stato ripetuto - gli spagnoli sono stati puniti sul piano dell'approccio e della sufficienza: basti pensare alla partenza, sono rimasti sui blocchi pensando, con vana ma non insolita superbia, che prima o poi avrebbero raggiunto i fuggitivi. Chissà che il nostro indomito Scariolo venga finalmente riabilitato dopo due fiaschi clamorosi e consecutivi dei giallorossi tra europeo e mondiale (giocato in casa): in verità, solo lui é riuscito, anche se parzialmente, a cementare tatticamente un gruppo di grande talento mettendo il singolo a servizio della collettività. Collet, da par suo, é stato bravo: ha caricato i suoi dopo la batosta rimediata nelle qualifiche e ha cambiato pelle ad una squadra orfana del giocatore migliore d'Europa trasformandola in una banda brutta, sporca e cattiva. Siamo onesti, se fosse stata una bella partita i francesi sarebbero usciti con le ossa spezzate: ma, onore ai blues, hanno portato lo scontro a livelli fisici terminali e per gli sbruffoni non c'è stato scampo. Che la strada ora sia libera per gli americani, é presto per dirlo. Certamente é una grande occasione per i serbi, che possono tornare, dopo qualche anno, nell'Olimpo del basket mondiale. Sasha Diordevic (scritto all'italiana), da vecchio volpone ed ex grande giocatore, sa usare bene sia la carota che il bastone e i risultati si sono visti: la sua squadra é decisamente la più migliorata durante la manifestazione. I lituani non saranno comunque una formalità per gli yankees: hanno orgoglio, patriottismo e qualità indiscusse. Con o senza spagnoli, ce ne faremo una ragione. Chi ha perso davvero é la Fiba, che dovrà pensare a riempire la Madrid Arena di domenica: si potrebbe dare un'ulteriore wild card alla Finlandia, loro hanno un pacchetto di seimila e più tifosi e anche a noi, da casa, sulle inquadrature in tribuna, non ci andrebbe così male.

mercoledì 3 settembre 2014

passione a fette?

Rimango perplesso, oggi più di ieri, sulla fantomatica riforma della scuola. Le parole di Renzi, che hanno un forte ed indubbio impatto popolare, in realtà sono poco tranquillizzanti. Cosa significa che non va premiata l'anzianità, bensì il merito? L'anzianità non è forse un merito? Non esiste un criterio più scientifico ed obiettivo degli anni di servizio. Fortemente discrezionale é invece la categoria del merito: chi sarà l'arbitro imparziale? Verrà dato maggior potere ai presidi che già stanno dominando la scena rosicchiando giorno dopo giorno l'auto determinazione dei docenti? ( unico e residuo avamposto di vita democratica ) E ancora, come si calcola il merito? A slinguazzate, progetti, formazione personale, gradimento popolare, compiacenza acritica, cos'altro? C'è un altra considerazione, più fastidiosa delle precedenti. Mi chiedo spesso, forse con supponenza, che cosa mi debba meritare più di quello che sto faticosamente realizzando all'interno delle mie possibilità operative. Fare bene il proprio dovere, probabilmente, non è sufficiente. E non mi consola il fatto che la presunzione di chi sta al governo sugli insegnanti sia suggerita da una minoranza che dá il cattivo esempio: se c'è zizzania da estirpare, lo si faccia senza tirare in ballo genericamente e indiscriminatamente la categoria. C'è un contratto bloccato da anni e di cui non si vedono spiragli all'orizzonte: penso che prima di parlare di supplementi, si debba partire dal riconoscimento del lavoro di base, fatto di aula, lezioni, verifiche, colloqui e quant'altro costituisce il carico quotidiano degli insegnanti. É francamente offensivo pensare che ciò che già stanno facendo gli insegnanti non sia meritevole di riconoscimento economico: vedere colleghi che si sbranano a vicenda per aggiudicarsi progetti il più delle volte inventati per interessi personali rende molto squallido lo scenario e, per quanto mi riguarda, poco respirabile. Siamo sicuri che rendere un ambiente formativo più competitivo di quanto lo sia già, faccia bene alla scuola? Nel frattempo, io che pensavo che l'anzianità fosse un valore, mi devo ricredere. Non ho la stessa energia e forza propositiva di trent'anni fa quando per la prima volta entrai in palestra con il registro ( cartaceo per forza ) sotto braccio, ma la passione forse non si é ancora arrugginita. Ma, si sa, la passione é come l'amore, non si può misurare, non si può affettare. E l'amore é gratuito, non ha prezzario. 

martedì 26 agosto 2014

a muso duro


I segnali di decomposizione, non solo fisica, avanzano implacabilmente. L'intolleranza é la prima comparsa: la non accettazione indiscriminata di ciò che vediamo e sentiamo marca l'inevitabile e spiacevole passaggio dall'età della spensieratezza a quella del muso duro e del confronto spesso conflittuale con la vita vera. Ci sono cose, abitudini e comportamenti, non necessariamente fondamentali, che non si è più disposti ad approvare: ad esempio, il rumore in montagna, la suoneria dei cellulari ( perfino in chiesa ), la maleducazione in strada ( nessuno escluso anche pedoni ), la spettacolarizzazione della solidarietà, le riunioni infinite e intrise di parole vuote, la morbosità nel dare e ricevere le notizie ( particolarmente tragiche ), lo spreco vissuto con estrema normalità, il fatto che altri possano decidere o meno sulla preziosità del nostro tempo. E molto altro ancora. Il passo verso l'isolamento é breve: ciò che fino a un po' di tempo fa sembrava indispensabile, ora diventa inutile se non irritante. Ciò che abbiamo combattuto diventa improvvisamente famigliare. Abbiamo indossato gli stessi panni che ci eravamo ripromessi di togliere. Siamo diventati gli stessi padri e madri che avevamo giurato di rinnegare. Come insegna Pavese, vivere é il mestiere più difficile e non esistono né formatori, né regole, né corsi speciali. Vivere si impara da sé. Anzi, non si impara mai.

giovedì 14 agosto 2014

conte e conti

Sarà che Antonio Conte non rientra nella lista dei preferiti. Sarà che stiamo attraversando tempi magri. Sarà che non mi convince questa rincorsa al salvatore della patria. Sarà, ma la vicenda del nuovo CT mi lascia alquanto perplesso. Sorvolando sui meriti tecnici - non ho svariati elementi a disposizione, sebbene la cronaca parli di trionfi nazionali e altrettanti tonfi internazionali - ho l'impressione, che per quanto riguardi gli ingaggi, si sia persa completamente la bussola. Poco importa da dove provenga il denaro: che siano pubblici o privati, che siano nostri o di altri, stiamo parlando di cifre spropositate e fuori da ogni logica comprensibile. In molti paesi l'allenatore della nazionale non ha un contratto a tempo pieno: ciò significa minore tempo a disposizione, ma anche meno oneri per le federazioni. Come é possibile paragonare un contratto con un club di prestigio - ad esempio la Juventus - con quello di Commissario Tecnico? Come si può pretendere di guadagnare le stesse cifre? A parte le pressioni, terrificanti e quotidiane, a cui é sottoposto un mister qualsiasi di serie A, ma l'impegno effettivo sul campo é di una disparità notevole ed evidente. Quanti raduni deve - o meglio può visti gli impegni di campionato e coppe - fare il trainer della nazionale durante una stagione? Quante partite e amichevoli in un anno? Passare la vita visionando giocatori non è la stessa cosa che rischiare la pelle tutti i giorni sul campo. E questo Conte dovrebbe saperlo, forse meglio di qualunque altro. É vero che soprattutto in Italia il rischio di bruciarsi facendo il mestiere più difficile in patria é alquanto alto, ma non da giustificare pretese eccessive e impopolari. Siamo proprio sicuri che valga la pena inseguire un uomo ad ogni costo? Non credo che per un ruolo del genere valga il criterio dell'indispensabilità: qualcuno forse conosceva il mister della Germania prima che vincesse il titolo mondiale? In Italia abbiamo il culto dell'eroe: diversi Savonarola che si alternano al comando di istituzioni, aziende, squadre nazionali e che hanno il compito di trascinarci fuori dalle secche e regalarci soddisfazioni indimenticabili. Ma per i mali del calcio, come per altri, non é sufficiente Antonio Conte, nemmeno a tempo pieno e con pieni poteri. Se non ci sono più talenti nello stivale, non sarà certo un uomo focoso e irruento, bravo quanto si vuole, a risolverli. Forse si dovrebbe distribuire la ricchezza un po' più in periferia, dove i giocatori si formano. Meglio che mi fermi, sto iniziando a farfugliare.

domenica 10 agosto 2014

questo e quello

É uscita una bufala colossale su faccia libro: non si farà più educazione fisica alle superiori. Non é tanto la notizia in sé ad avermi scosso - sono abbastanza navigato, a tal punto che se qualcuno mi mettesse anzitempo in quiescenza mi farebbe solo una cortesia - quanto il fatto che a molti apparisse come una possibilità reale. Preoccupante davvero: ci stiamo così facilmente abituando alle scemenze da doverci credere per forza. Mezze verità, o mezze bugie a seconda di dove le si guardi, stanno diventando pane quotidiano costringendo i nostri stanchi neuroni dell'intelletto a sforzi di comprensione e traduzione continui. Mi sono chiesto: come mai questa balla appare così credibile? Risposta: probabilmente molti pensano che l'attività fisica a scuola in età adolescenziale non serva a un bel niente. E qui casca l'asino perché questa affermazione poteva valere qualche anno fa. Oggi la gran parte degli adolescenti non fa attività motoria: molti hanno smesso anzi tempo con l'agonismo, altri si sono buttati anima e collo sullo studio, altri ancora si sono talmente rincitrulliti con video giochi, play station e social network da aver affinato e velocizzato solamente il movimento delle dita. Ci sono ragazzi che non sono in grado di correre cinque minuti senza fermarsi: una lezione di due ore continuate può diventare un vero problema per alcuni se non si fanno pause di abbeveraggio o recupero cardio-respiratorio. Molti paesi si stanno attrezzando per inculcare nella popolazione una mentalità di prevenzione alla salute: hanno capito che se la gente non ricorre alle cure mediche ci saranno minori costi per la collettività e una maggiore produttività. Due ore alla settimana - soprattutto unite - sono una goccia nel mare, ma, per giunta, sono sempre meglio di zero. La stucchevole discussione sulla maggiore importanza di fare attività motoria scolastica in età precoce - scuole elementari per capirsi - mi rattrista e, malgrado mi sforzi, stento a comprenderla. É come se dicessi ad un bambino di scegliere tra un gelato o una fetta di dolce: perché non entrambi? Non ci sono abbastanza soldi? Ma come, se ogni giorno ci sentiamo ripetere che la scuola é una priorità! Lo si dimostri davvero, allora, con i fatti. Non togliendo da una parte per dare all'altra, ma facendo progetti di lungo respiro, dove anche il bambino, poi ragazzo, infine adolescente, anche se non amante delle discipline sportive, possa maturare una consapevolezza di cura del corpo e della salute. Mi dispiace, signori, di guerre tra poveri a scuola ne ho già viste abbastanza: che spettacolo indecente vedere insegnanti che si rubano un tozzo di pane per qualche ora in più. Non deve essere così: non ci sto alla logica questo o quello. Mi piace di più questo e quello. Tutto é importante anche se nulla indispensabile. Gli insegnanti sono troppo vecchi per stare in palestra? Sono d'accordo, se qualcuno riesce a convincere i nostri legislatori che é venuta per noi l'ora di andarsene, gliene saremmo grati eternamente.

sabato 26 luglio 2014

dei o ciarlatani?

Vincenzo Nibali mi piace. Mi piace il suo istinto di attaccante. Mi piace il suo sguardo, sicuro e rassicurante. Mi piace la sua modestia. Mi piace il suo cuore, aperto e solidale. Mi piacciono le sue parole, semplici e inoffensive. Mi piace che abbia messo in imbarazzo i francesi. Di lui mi piace quasi tutto. Come mi piaceva ed esaltava Marco Pantani, quando partiva in salita e lasciava tutti sul posto. Come mi è piaciuto Lance Amstrong, fuoriuscito da una malattia grave e capace di stendere tutti e dominare per anni come di rovinare tutto per brama di successo e avidità. Combatto faticosamente nell'animo per scongiurare l'ennesimo sbaglio: l'innamoramento. Gli atleti, i campioni, fanno questo effetto: sono come eroi di leggende epiche e costringono ingenuamente l'anima a schierarsi, ad amare questi uomini come esseri immortali. Non é certo colpa sua se la diffidenza ha raggiunto livelli di saturazione: dicono che il ciclismo di oggi sia pulito, diverso da quello precedente, ma le scottature sono troppe e ancora vive per considerare la vicenda chiusa una volta per tutte. Nemmeno io, sono sincero, mi fido ciecamente: chissà se quelle accelerazioni in salita sono frutto esclusivo di allenamenti al limite della sopportabilità o se hanno derivazioni di altro genere e natura. La forma smagliante dimostrata al Tour é figlia di una programmazione impeccabile e di una metodologia di allenamento senza sbavature? Al momento la verità sembra essere questa. Spesso, però, i nodi al pettine escono in tarda differita e con un effetto ancor più deflagrante: le penose immagini di contrasto tra leggenda prima e tradimento poi sono ancora nitide nei nostri occhi. La caduta degli dei é uno spettacolo a cui non vorremmo più assistere. Facciamo così, Vincenzo: se l'ipotesi di reato - che ad oggi non sussiste ma che le eccessive disillusioni portano ad avanzare - cadrà in prescrizione, sarò il primo a chiedere venia per aver dubitato. Pagherò il mio debito inserendoti nella galleria degli indimenticabili. Per il momento mi limito a considerare la fredda realtà: sei il legittimo vincitore del Tour de France. Per il mito, lasciami ancora un po' di tempo. La storia, si sa, dá torto e dá ragione e se é vero che non hai nulla da nascondere, basta solo aspettare.

sabato 19 luglio 2014

in fila per amore

Il rischio di ripetersi é fatalmente alto, però i tempi suggeriscono ulteriori riflessioni. In nazionale non si stipula un contratto di lavoro: in nazionale si va per gioia, orgoglio, amore (parola grossa, ma necessaria). Se non esistono queste condizioni, l'insistenza si trasforma in pena reciproca. Ci sono giocatori in giro che darebbero un rene per vestire la maglia azzurra ( compreso lo scrivente, anche se ormai fuori dai giochi): forse con minore qualità, ma con maggiore attaccamento. Purtroppo l' ossessione per un risultato di prestigio in una fase storica di vacche magre ( abituati troppo bene forse? ) conduce spesso alla cecità o, peggio, alla volontà di non vedere. Tutti vorremmo ammirare il tricolore alzarsi, ma se ciò non fosse possibile - come purtroppo accaduto negli ultimi anni -, ci accontenteremmo di vedere gente che si sbatte in campo, che gioca rifuggendo da pensieri ricorrenti ad infortuni o alla sacrosanta ( per carità ) necessità di riposo. Non é certo un tiro sbagliato o un passaggio finito male che fa infuriare il popolo nazional-cestista: semmai una corsa lenta, una difesa molle, un rimbalzo facile concesso. In azzurro, più che nei club, visto che esiste libertà di scelta - non imposta da padri padroni padrini, procuratori e affini - il criterio dovrebbe essere chiaro: si mira al giocatore completo, fatto possibilmente di talento, ma anche di cuore, solidità, leadership, esemplarità. I ragazzi/e che vanno al palazzo a tifare, vogliono vedere una sporca dozzina di leoni che si buttano per terra: certo, anche le schiacciate e le bombe, ma in particolare la fierezza di vestire una maglia che solo a pochi eletti é permesso fare. Non sarei nemmeno spietato verso la diserzione: punire non farebbe altro che aumentare attenzioni non meritate e spostare l'accento sulla minaccia a fronte della volontà di scelta. In nazionale, come in qualsiasi rappresentativa a qualsiasi livello, ci si deve andare contenti, e lo si deve vedere dalle facce e dai comportamenti. Perché contenti? Perché c'è una fila fuori ad aspettare e perché c'è un popolo, piccolo o grande che sia, da rispettare e onorare.

sabato 5 luglio 2014

senza illusioni

Una grande piaga si sta abbattendo sullo sport giovanile. Ha dei connotati precisi: senza tanti giri di parole, si chiama illusione. O, meglio, disillusione, che altro non é se non la logica prosecuzione temporale della prima. Non é certo una malattia sconosciuta, ma diffusione e invasivitá negli ultimi tempi sono salite alle stelle e se non si provvede immediatamente a tamponare il fenomeno sono previsti tempi bui per l'agonismo con calo vertiginoso dei praticanti e, conseguentemente, risultati scadenti a livello di vertice. Molte le cause all'origine, in ogni caso ricondotte al comportamento sconsiderato degli adulti, che vedono nelle giovani leve lo strumento ideale per le proprie ambizioni. Tra i primi, procuratori senza scrupoli e poco avveduti, che preferiscono firmare contratti piuttosto che preoccuparsi della formazione tecnica dei giocatori: risultato? molti giovani restano a piedi perché sprovvisti delle abilità necessarie per giocare ad alti livelli. Genitori disposti a tutto - perfino in casi estremi a chiudere un occhio su pratiche illecite - pur di vedere i propri figli entrare nell'Olimpo dello sport italiano, con la conseguenza, quasi certa, che gli esiti non siano mai corrispondenti alle aspettative. Lo squallido panorama mediatico che pur di fare ascolti e lettori ha il grande potere di deformare la realtà scambiando per campioni giocatori di normale levatura. Ma anche tecnici - e mi ci metto anch'io nel grande calderone - pronti a scommettere su futuri talenti con dati troppo approssimativi e provvisori. Società che fanno investimenti su ragazzi ancora teneri strappandoli troppo presto dalle proprie radici trascurando aspetti fondamentali della formazione umana. Tutti quanti, per il bene dello sport e soprattutto dei giovani, dobbiamo fare un grande passo indietro. Estirpare tutte le pressioni innaturali e artificiali e mantenere in vita esclusivamente quelle insite ad una sana competizione che bastano e avanzano da se stesse. Proteggere - qui si che il termine ha un senso, non quello fazioso e controproducente quando i figli hanno torto - in maniera vigorosa i ragazzi da qualsiasi malsana esposizione, da quel mondo sportivo malato e costruito forzosamente che carica di richieste eccessive una mente incapace di rielaborare tensioni e conflitti. I ragazzi non vanno pompati, - soprattutto nella fragilità dei tempi odierni - prima o poi scoppieranno e ci troveremo di fronte ad un abbandono di massa. É sbagliato dire che se ne vanno perché non si divertono: se ne vanno perché sbattono contro un muro. Ma quel muro, volenti o nolenti, siamo stati noi adulti ad innalzarlo.      

sabato 28 giugno 2014

né vincitori né vinti

Né vincitori né vinti. Ha ragione Marco Crespi. Scudetto legittimamente di Milano; moralmente, da assegnare ex aequo. Una bella pagina di sport, una straordinaria storia di pallacanestro. Da scriverci un libro, da farne un film. Da una parte, un gruppo solido e unito di eroi, con l'orgoglio ferito, il cuore grande e le ore contate, che non vuole saperne, insieme alla propria gente, di abbandonare la scena da vittima predestinata. Dall'altra, la necessità di tornare in cima alla vetta per una città e un club che da troppo tempo hanno assaporato illusioni trasformate in cocenti amarezze, tanto da far pensare a una vera maledizione, ad un incantesimo senza via d'uscita. Non é stato facile per Milano togliersi di dosso la paura, la brutta sensazione che la cattiva sorte potesse prevalere nuovamente sulla logica delle forze in campo. Siamo sinceri: non é stata una bella Olimpia. Anzi, in molti casi ci ha fatto vedere un gioco approssimativo, frutto di forzature spesso incomprensibili e dove il gioco corale é stato sacrificato sull'altare del talento individuale. Va dato però merito a questo gruppo, sotto 2-3 e con la necessità di vincere in trasferta, di essersi ricompattato nel momento più importante della stagione, ossia quando il baratro appariva come una realtà palpabile e non più derogabile. Siena ha giocato la pallacanestro migliore, ha usufruito della leggerezza da sfavorita e si é spenta improvvisamente e incolpevolmente nell'ultimo quarto di gara 7: non c'é una spia accesa, non c'é nessun avviso quando il motore umano va in riserva. In una serie lunghissima, la profondità di Milano avrebbe potuto fare la differenza, e così é stato. Ma il fascino vero di questa sfida é stato il profondo rispetto che giocatori, allenatori e anche pubblico - nel limite del lecito - si sono rivolti reciprocamente: tanti ex, da entrambe le parti, eppure nessuna polemica o strascico, nessuna ricerca di tradimenti e vendette. Un' invasione pacifica e sportiva ha decretato la fine dell'incontro. In realtà, chi ha vinto davvero, é la pallacanestro. In uno sport che non ammette il pareggio e nemmeno i rigori, per una volta, potremmo anche fare un'eccezione. A questo punto non può non venire in mente e in soccorso la scena iniziale di Match Point di Woody Allen dove la pallina da tennis colpisce la retina e rimane sospesa in aria con queste parole " chi disse preferisco avere fortuna che talento, percepì l'essenza della vita ". É quello che deve aver pensato Jerrels prima di lasciare la palla all'ultimo secondo. Un tiro, un destino.

mercoledì 25 giugno 2014

scendere a patti



Non voglio addentrarmi nel già abusato ed intricato reticolo di valutazioni tecnico-tattiche. Ci capisco poco di pallacanestro, figurarsi di calcio. C'è però un aspetto della vicenda che intriga e che ha delle implicazioni non solo sportive. Lo sfogo di Buffon, condivisibile o meno, traccia un'inequivocabile frattura intergenerazionale all'interno del gruppo. Può sembrare un atteggiamento bacchettone e scaricabarile: infatti non a tutti é piaciuto, soprattutto al pubblico giovanile che vede in Balotelli l'emblema del giocatore che riesce a conciliare successo e divertimento. Fatto sta che la spedizione é stata fallimentare e che all'origine, oltre ai mille motivi già enunciati dai media nazionali, esiste una vera e propria incomunicabilità fra vecchi e nuovi. Sarebbe stato interessante partecipare, in veste di uditori naturalmente, alla riunione in spogliatoio durante l'intervallo: probabilmente non sarei rimasto sorpreso nello scorgere i senatori, al colmo ormai della pazienza, attorniare il povero commissario tecnico nel tentativo di convincerlo a lasciar fuori la stella - nascente, cadente, mai esplosa? - nel rischio reale di espulsione ( ironia vuole che qualcuno abbia preso in seguito il suo posto ). La morale di questa triste favola, se ci fosse davvero, va ricercata nel tentativo mal riuscito di mettere insieme esperienza ed entusiasmo, genio e sregolatezza, pazienza e freschezza. Ingredienti in apparenza inconciliabili ma che in passato hanno determinato il successo, non solo sportivo, di squadre e gruppi con precisi obiettivi da raggiungere. La ricetta é semplice, almeno a parole: i giovani dovrebbero guardare i vecchi - o meno giovani, così nessuno si offende - come l'esempio da seguire e fidarsi dei consigli di chi ha già percorso un certo tratto di strada. I vecchi dovrebbero guardare i giovani non come una minaccia, ma una risorsa per il cambiamento e il miglioramento della prestazione. Non é solo una sfida calcistica o sportiva, é una sfida planetaria. Se vogliamo la vittoria, a tutti i livelli, dobbiamo scendere a patti: non é un compromesso, é condivisione di differenze.

sabato 14 giugno 2014

non mi piace


Non mi piace. Posso dirlo? Non mi piace questa nuova tendenza all'omologazione. Come se, in nome dei consensi o del potere ricevuto, esista un diritto che legittimi la soppressione del diverso, dell'eccezione, del distinguo. Non mi piace in politica: di quale democrazia parliamo se non possono esistere idee e posizioni fuori dal coro, quale ricorso alla sacralità della coscienza se poi la sintesi non é la faticosa ricerca dell'unione delle differenze, ma l'adeguamento passivo alle volontà della cerchia dominante? Qui non si parla di colori o schieramenti, ma di metodo: l'impressione è che tutti, nessuno escluso, stiano adottando il cosiddetto dentro o fuori, come se la ribellione fosse un virus da eliminare e non una risorsa. Non mi piace nel mondo professionale: questi nuovi dirigenti pubblici, costretti da un'amministrazione in piena crisi a fare terra bruciata intorno. Dove si glorificano i vincitori di premi come i veri e nuovi eroi del lavoro e si abbandonano sulla strada quelli che hanno faticosamente, nascostamente e quotidianamente fatto il proprio dovere rinunciando alla ribalta o a compensi. Non mi piace nemmeno nello sport: come se tutti, come cani segugi, dovessimo dipendere totalmente dalle idee o dalle intuizioni del tecnico emergente o che va per la maggiore. Vedere qualcosa di originale, di creativo, sui campi di calcio, di pallacanestro o altro, oggi é diventata un'impresa titanica. Tutti, o quasi, che giocano nello stesso modo: alla fine, gioco forza, la differenza la fanno i singoli e le giocate fuori spartito. Perché, per quanto si tenti di neutralizzare, comunque e per fortuna la differenza trova sempre il modo di uscire. Tutto questo non mi piace. Posso dirlo?

domenica 8 giugno 2014

vizi d' italia

Udite, udite: la nazionale di calcio, la stessa che ha pareggiato con il Lussemburgo - nazione equivalente per territorio e popolazione alla provincia di Pordenone - alloggia in Brasile in un resort da 350 euro giornaliere per camera. Che non siano soldi nostri, ma della Fifa, frega fino ad un certo punto. Considero la nazionale un bene pubblico, perciò mi aspetterei scelte improntate alla sobrietà, soprattutto in un momento come questo. Ecco perché ritengo il villaggio olimpico, almeno concettualmente, la casa ideale degli atleti: per due settimane ogni quattro anni tutti sono trattati in egual maniera, dai lottatori georgiani ai giocatori di basket americani. Eccezion fatta per i calciatori italiani che, chissà perché ( Vasco ), alloggiano sempre altrove ( cosa ci faccia poi il calcio alle olimpiadi é un mistero a noi comuni mortali non ancora svelato ). Mi chiedo se lusso e comfort possano condizionare l'esito di una competizione e, sinceramente, per quanto mi sforzi, non trovo risposte esaurienti. Leggo di gettoni presenza e di premi e i pochi capelli rimasti mi si drizzano: giocare in nazionale dovrebbe essere un onore, un privilegio unico più che raro, al punto da rigettare qualsiasi idea di monetizzazione. Soprattutto per chi é già avvezzo ai grandi guadagni. Se é vero che i club hanno libertà di manovra sui compensi - anche se andrebbe affrontato seriamente il tema del salary cup - per quanto riguarda la nazionale il concetto andrebbe ribaltato: vuoi venire in azzurro? Bene, ci sarà gloria, cinquanta milioni di persone ad idolatrarti, la possibilità di entrare nella storia, probabilmente un contratto da opinionista, ma al momento nemmeno una lira. Forse un buon albergo a tre stelle con camere triple. Da idealista quale sono, da chi rappresenta la nazione - politico, artista, atleta - mi aspetterei prima di tutto il buon esempio. Non voglio abituarmi all'idea che tutti siano corrotti, viziati, maleducati. Ce ne sarà uno, da qualche parte, al quale potremo guardare con ammirazione e gratitudine, magari prima che venga sotterrato. Detto questo, forza azzurri, sempre e comunque. La nazionale, di qualunque sport e a qualsiasi livello, rappresenta l'essenza di un popolo. L'inno non ci lascia indifferenti: a questo paese, malgrado tutto, apparteniamo indissolubilmente.

giovedì 29 maggio 2014

palamaurizio


Il Forum ha finalmente un nome. Quello giusto. Quello da tutti sperato e voluto. Ora si chiama PalaMaurizio Crisafulli. L'unico modo per avere ancora in mezzo a noi un uomo che in troppo poco tempo é riuscito comunque a scrivere la storia della pallacanestro cittadina. Non si é mai fregiato del suo glorioso passato da giocatore: non era facile sentirlo parlare dei trascorsi a Milano e Bologna oppure della medaglia vinta con la nazionale italiana. Era fatto così: forse questa modestia, figlia della timidezza, non gli ha permesso di vivere una carriera più lunga e proporzionata al suo sconfinato talento. Arrivare al Simmenthal delle scarpette rosse, a quei tempi, era un'impresa per pochi eletti: posso garantire di non aver mai visto nei dintorni un giocatore con una tecnica così sopraffina, soprattutto del passaggio. Nella sua breve apparizione come assistente tecnico con le giovanili in città, lo ricordo come un dimostratore eccezionale: quello che un allenatore sapeva dire, lui sapeva fare. Aveva un rapporto straordinario con i ragazzi, spesso compensativo e di tacita complicità: per questo motivo non volle mai prendersi una responsabilità diretta, non sarebbe mai riuscito ad alzare la voce o a sbattere i pugni. Lo vidi con le lacrime agli occhi dopo l'eliminazione dolorosa ai supplementari nel concentramento interzona per l'accesso alle finali nazionali: mi disse, non piango per me, mi dispiace per loro. Come se il dolore degli altri avesse un peso specifico superiore al suo. Come la volta che andò a trovare, malgrado già sofferente, il fratello, anch'egli ex giocatore, dopo un grave incidente in moto. Come si é congedato da questo mondo: in punta di piedi, senza far rumore, senza disturbare, senza pesare su alcuno. Ora, quando entreremo all'ex forum, potremo finalmente onorarne la memoria: mi piace pensare la sua contentezza nel darci appuntamento in quella che ormai é diventata la sua dimora eterna ideale. Ora, anche quel campo di basket é diventato, per sempre e per tutti, sacro. 

venerdì 23 maggio 2014

anto e giovi

Ora che stai per spiccare il volo mi viene in mente il nido dove hai mosso le ali. Chiuse all'angolo di uno spogliatoio qualsiasi, tu e Giovanna, inseparabili in campo e fuori, ancora signorine e impaurite da un gruppo non certo galante di maschi feroci e impertinenti. Per fortuna c'era il campo a riportare ordine e giustizia: in quella squadra non esistevano quote rosa, non si giocava per gentile concessione. Di meriti ne avevate tanti: personalità, passione, intelligenza di gioco, a tal punto da essere inamovibili nelle valutazioni dell'allenatore. Certamente complementari: Giovi, soldato esemplare, così timida e gentile nelle relazioni, ma implacabile e ferrea in difesa sui giocatori avversari più temibili. Tu, invece, malgrado possa sembrare blasfemo verso i puristi della pallacanestro, un attaccante di razza, il classico centravanti: fare canestro é sempre stato il tuo mestiere. Una squadra di piccoli squali, perfino troppo precoce. Una banda mista di preadolescenti, forse cresciuti cestisticamente troppo in fretta, che aveva in testa un solo pensiero: la vittoria. Un bella favola durata poco: voi ben presto a portare onore e gloria al club cittadino rosa, altri migranti in lidi ritenuti più attraenti. Resta però il ricordo di un gruppo incredibile, capace di vincere quasi tutto in due, brevissimi ma intensissimi, anni. Attraversando l'oceano - impresa tra l'altro a me proibita in piú di cinquanta anni - ricordati un paio di cosette: la prima, non dimenticarti di invitare il tuo vecchio e primo allenatore. La seconda, certamente più rilevante, non aver riverenza di questa nuova sfida: non sarà facile, dovrai sgomitare, e come negli spogliatoi qualsiasi di un tempo, nessuno ti regalerà nulla. Ma hai un back ground invidiabile, sia di formazione tecnica che mentale. Dall'ex fiera a Georgia Tech, passando per Venezia, Roma e chissà quante altre città: ne hai fatta di strada, cara Anto! La pallacanestro, il gioco che amiamo, é sempre lo stesso: che sia la finale di un torneo pasquale cittadino o il titolo universitario americano, l'impegno non cambia. É sempre e comunque al massimo. Ed ogni storia che si scrive, ha sempre, alle spalle, un'altra storia che si può solo raccontare. 

lunedì 19 maggio 2014

dovuto rispetto


Non c'è niente da fare: gli spagnoli - che a livello di talento sono i migliori in Europa e secondi solo agli americani nel mondo - non imparano mai dai loro errori. Il punto debole sta nella presunzione, nella credenza aprioristica che la sorte dipenda solo da se stessi. Essendo i più forti, non c'è motivo di temere i più deboli. Non che gli iberici non abbiano vinto: si contano decine di titoli, sia di club che di nazionale, nello sfogliare l'almanacco. La mia opinione é che avrebbero potuto vincere molto di più se solo avessero considerato il rispetto che si deve all'avversario. Rispetto che il Maccabi ha avuto per il Real. La nazionale spagnola ha vinto molto con un allenatore italiano in panchina e il Real del calcio, per tornare a giocarsi una finale, ha avuto bisogno di Ancelotti. Ci vuole qualcuno con una mentalità diversa - non narcisistica - per aiutare questi fenomeni a non specchiarsi troppo e dare il giusto valore all'avversario. Non vincono i giocatori più forti: vince la squadra più forte. Il Real ha commesso il più banale dei peccati: fidarsi eccessivamente della propria bravura. David Blatt ha fatto un capolavoro: non che i suoi giocatori siano scarsi, anzi, ma sarebbe stato interessante vedere quanti allenatori avrebbero voluto i vari Rice, Hickman, Blue, Smith, Tyus e compagnia cantante durante la conta, prima di iniziare l'eurolega. Una squadra vera, costruita con sapienza maniacale, dove l'individualità é sottomessa all'insieme. Dove la somma dei giocatori diventa comune multiplo. L'allenatore ha avuto il grande merito di infondere a questi giocatori fiducia e convinzione, lavorando nella testa di ciascuno in maniera straordinaria. E poi la tattica, che non é debolezza, ma giusta considerazione dell'avversario. Mettere in atto strategie non significa mancare di fiducia, casomai dare strumenti per credere nel successo. Una squadra capace di cambiare pelle a seconda dei giocatori in campo: spettacolare e veloce con Rice e Tyus, potente e solida con Schortsianitis vicino al ferro. Capace di soffrire e rimontare ogni volta, non finendo mai al tappeto. Onore al Maccabi e ai quasi diecimila tifosi: una questione di popolo, non solo di pallacanestro. Quando gli spagnoli capiranno che esiste un rispetto dovuto, non ce ne sarà più per nessuno. Nel frattempo, godiamo tutti di questa bella favola sportiva.

sabato 10 maggio 2014

Gas

Ai più eri conosciuto come giocatore di pallacanestro: non eri male, con più convinzione avresti  sicuramente giocato più in alto. Discorsi fatui, a questo punto. Per me eri soprattutto un alunno: studente dell'Ipsia Zanussi, per la precisione. Strano: mi é successo raramente di insegnare a giocatori di basket. Al professionale si iscrivono quasi tutti calciatori: questa é la legge del contrappasso spettatami in dote per i molti peccati commessi in vita. Una mosca bianca: così sembravi in mezzo ad un esercito di amanti della pedata. Un'impresa ardua trovare dei compagni di gioco con gli stessi interessi: per fortuna, una tacita e sacra alleanza con il professore permetteva, a volte, un reclutamento sufficiente almeno su metà campo. Una piccola oasi di relax in mezzo a tanta sopportazione: questa era per te l'ora di ginnastica. Infatti non ce l'hai fatta a terminare gli studi: tua madre, con ovvia ragione, avrebbe voluto che continuassi, ma ha dovuto soccombere di fronte all'ennesima dimostrazione di insofferenza. Un ritiro é sempre un fallimento, per tutti: ora, a notizia ricevuta, sembra addirittura l'inizio di una tragedia. Eri un colpo inesploso, una miccia ancora spenta: una vita davanti per accendersi e divampare. Morire a vent'anni é assurdo. Non é giusto. E non ha nessun senso sapere cos'é successo. Non é giusto e basta. Tutti quanti abbiamo fatto le nostre sciocchezze, spesso utilizzate come racconti di sano eroismo. E non c'è sempre spiegazione a tutto. Qualche volta lasciamo che non ci sia risposta. C'é solo un'ora - un minuto, un secondo - che scocca. La tua, caro Gas, troppo presto. E in cielo, purtroppo, ci sono troppi angeli.

venerdì 9 maggio 2014

immagini sfuocate

Quel che ha fatto Minucci é inqualificabile e imperdonabile. A me, che frequento palestre sconosciute e di confine, interessa relativamente il danno subito dai club concorrenti. Mi interessa l'immagine dello sport che amo e al quale ho dedicato gran parte del mio tempo e del mio cuore. Mi interessano i bambini e le bambine che si appassionano alla pallacanestro: a loro devo poter dire che l'ambiente è pulito, che i sogni dipendono dagli sforzi, che il risultato finale di qualsiasi gara é quello giusto, che nello sport vince chi merita e non chi fa il furbo. Non voglio e non accetto di far parte di questo mondo malato: il solo fatto che Minucci fosse il candidato ideale della lega basket é in sé aberrante e incomprensibile. E non possiamo sbrigatamente dire che il problema non ci tocca, che la pallacanestro di base non ha niente a che fare con il marciume di questi giorni.
Ci ha fatto comodo, per molti anni, indicare nel calcio e nel padrino di tutti i dirigenti, Luciano Moggi, il male che attanaglia lo sport. Abbiamo pensato, ingenuamente, che la nostra disciplina sportiva, per attitudine e concetto, potesse rimanere immune da certi comportamenti criminosi. Non é così: se non ci sarà un innesto di legalità e responsabilità la pallacanestro italiana é destinata inesorabilmente alla deriva e nessuno potrà tirarsene fuori. La cultura della vittoria a tutti i costi ci ha portato a drogare i bilanci e a fare passi più lunghi della gamba: se non c'è disponibilità, si fa con quel che si ha, magari ripartendo dai giovani, come tante società coraggiosamente hanno fatto. Concorrenza sleale - sebbene in forma legalmente riconosciuta - é un concetto che tocca non solo i vertici del movimento: basti pensare a chi fa reclutamento giovanile in tutta Italia o anche all'estero, grazie a forza politica ed economica, spopolando realtà che faticano a crescere. Nessuno dubita sulle qualità di questi club che hanno organizzazione, tecnici preparati e progetto ad ampio respiro: dico solo che dovrebbero essere premiate e riconosciute quelle società, che con pochi mezzi, ottengono grandi risultati esclusivamente con atleti del proprio territorio. Sono giornate tristi per la pallacanestro: tutti quanti abbiamo ammirato le imprese di Siena, lo spirito di gruppo, la coesione, la forza vincente. Quelle immagini ora sono sfuocate, per sempre.

venerdì 2 maggio 2014

senza sale

La cultura della vittoria rischia di sterminare le nuove generazioni che si avvicinano allo sport. Detto da uno che darebbe qualsiasi organo del corpo per vincere può sembrare una clamorosa presa per i fondelli. Non é così: sono serviti più di trent'anni per capire che un giocatore vale più di cento trofei alzati e che un titolo, a qualsiasi livello, non merita sacrifici sull'altare. Fin dai primi anni si impara nostro malgrado che ciò che conta é il successo ed arrivare primi: tutto il resto - il gusto della competizione con se stessi e con gli altri, la ricerca del proprio limite, il piacere di mettersi alla prova, la verifica dei progressi fatti - passa inesorabilmente in secondo piano. Si fa gran rumore sui rischi della selezione precoce, poi giriamo qualsiasi canale e troviamo provetti cantanti, cuochi, modelle o ballerini che si sgozzano a vicenda pur di salire in cima: noi, morbosi spettatori, seduti comodi di fronte alla crudele arena televisiva, per dissetare la voglia di sensazioni forti, ci dimentichiamo del pudore, del limite, della dignità. Qualcuno deve cominciare. Qualcuno deve avere il coraggio di dire no a tutto questo e ribellarsi. Deve dire e convincere i ragazzi, soprattutto gli adulti, ( impresa più ardua ), che vincere e perdere sono componenti essenziali e complementari per una sana crescita attraverso lo sport: due facce della stessa medaglia. Perdere non é qualcosa di cui aver paura: perdere é qualcosa che succede. L'alternanza tra vittoria e sconfitta, almeno fino  ad una certa età, dovrebbe costituire la normalità delle cose. Se un ragazzo cresce con l'idea che la sconfitta é un evento possibile, avrà un rapporto con lo sport sereno e passionale. Anche i campioni perdono e non esistono invincibili: figurarsi durante i primi passi, quando il piacere dovrebbe essere l'unica componente in gioco. Risse sugli spalti, insulti gratuiti, aspettative eccessive, illusioni e delusioni: non dobbiamo trasformare ciò che é naturalmente competitivo in un campo di battaglia. I ragazzi vogliono vincere, come é giusto che sia: ma una sconfitta, gestita bene, può diventare più importante di mille vittorie. Se lo sport, che é in se felicità e godimento, deve diventare fonte d'ansia e di preoccupazione, c'è qualcosa nel meccanismo che non funziona. Soprattutto se a pagarne le conseguenze sono giovani atleti. Lo sport é vita, con annessi e connessi: basta a se stesso, non serve aggiungere sale.

domenica 27 aprile 2014

il settimo giorno


In sei giorni, almeno nei racconti sacri, é stato creato il mondo e tutto ciò che contiene. Anche noi, in meno di una settimana, abbiamo provato tutto, trascorso una vita intera in miniatura. Disperazione e sollievo, lacrime di dolore e di gioia, inferno e paradiso, trambusto e liberazione. Come se avessimo fatto un corso accelerato sull'esistenza. Siamo passati dal baratro alla resurrezione del terzo giorno. Dalla ricaduta al riscatto finale. Davvero lo sport é la metafora della vita. Non si finisce mai di imparare: abbiamo capito che per raggiungere un obiettivo non si può lasciare nessuno indietro e che la fiducia reciproca é la chiave della vittoria. Non c'é solo pallacanestro: ci sono sorrisi, incomprensioni a volte, sguardi che chiedono attenzione, parole che  spezzano il cuore ma che possono anche chiudere le ferite. Ci siamo fatti male ma ci siamo fatti anche del bene. Abbiamo vissuto tutto questo. E non ci sono dubbi: siamo tornati migliori di quando siamo partiti. E più uniti. Per tutto questo, grazie a tutti. E vide che era cosa buona. Così il settimo giorno si riposó. 


sabato 19 aprile 2014

accorciare le distanze


Se penso a quell'uomo - non solo uomo, almeno per chi crede - abbandonato dai suoi amici più cari, offeso, bastonato, appeso, non posso evitare di considerare quanto sia ridicolo al confronto il dolore che dobbiamo provare quotidianamente. Perché di dolore, malgrado tutto, si tratta: quando non siamo riconosciuti, gratificati, compresi, rispettati. Quando l'armonia é sopraffatta dalla malvagità. Di quella malvagità di cui siamo vittime, ma purtroppo spesso anche complici, magari più o meno inconsapevolmente. Ma la sofferenza sul calvario é un'altra cosa, é paragonabile solo al martirio: ci vogliono uomini e donne speciali, di grande umanità, dono di cui, al momento, pochi di noi - non certo chi scrive - ne sono in possesso. C'é chi ha dato la vita per gli altri e noi ci offendiamo per un saluto non dato, un grazie non ricevuto, delle scuse mancate. Pasqua é anche questo: riconoscere la distanza enorme che ci separa dai giganti della storia. In fondo, la lotta contro la barbarie é solamente dentro di noi. Ciò che vediamo non é altro di ciò che siamo. Altri, questa battaglia, l'hanno vinta: dobbiamo solo seguirne l'esempio. Dobbiamo solo accorciare le distanze.

venerdì 11 aprile 2014

scegliere


Scegliere é soffrire. Sai cosa prendi, ma anche cosa lasci. Ti riempi e ti svuoti allo stesso tempo. Scegliere é rischiare. Fai la cosa giusta e quella sbagliata. Scegliere non va di moda: meglio rimandare, far decidere altri, meglio aspettare. Gli animali agiscono, per questo stanno spesso, maltrattamenti a parte, meglio di noi. Scegliere é ruminare, ripensare alle cose perse: non bisognerebbe voltarsi indietro, ma ne siamo fatalmente attratti. Guardando a ciò che non abbiamo, dimentichiamo ciò che abbiamo. Per questo scegliere ci rende infelici. Dovremmo accontentarci, ma non ne siamo capaci. Scegliere può far male: le nostre azioni hanno sempre una conseguenza. Chi ha responsabilità, deve scegliere. E non può accontentare tutti. Per questo ogni scelta, anche volta al bene, inevitabilmente crea dolore. Scegliere é necessario: sarebbe più comodo farne a meno, ma ogni maledetto secondo siamo costretti ad aprire una porta e chiuderne un'altra. Scegliere é umano, per questo capita molto spesso di sbagliare. Non é un peccato sbagliare, semmai non saperci perdonare. Vivremmo tutti meglio se fossimo consapevoli dei nostri errori e se imparassimo a sopportarli a vicenda. Come una squadra vincente, dove la stravaganza di ognuno da debolezza si trasforma in forza. Scegliere: non dobbiamo aver paura.

giovedì 3 aprile 2014

rispetto, grazie

I burocrati hanno colpito ancora. Pensavo ingenuamente ad un pesce d'aprile, invece si é dimostrata assurda verità. Nella complessa ed insaziabile mania di protagonismo, hanno inventato una nuova arma letale: il certificato penale. In soldoni, chiunque ha a che fare con minori, in ambito sportivo, deve avere la fedina pulita e deve soprattutto dimostrarlo. Invenzione geniale. Naturalmente, in allegato, marche da bollo salate. Faccio alcune considerazioni a caldo: chi è stato pulito fino adesso sarà per sempre pulito? E chi si è sporcato, sta girando minacciosamente per le società sportive di tutta la penisola? Che mi risulti, esistono casi isolati e identificabili: dobbiamo per forza mettere in subbuglio decine di migliaia di associazioni sportive? Ciò che muove la legislazione in Italia é da sempre il principio di presunzione: presumo che tu possa essere un evasore, un ladro, un bugiardo, un pedofilo. Mai che si possa pensare all'opera benemerita di tanti sodalizi che in mezzo a migliaia di ostacoli costituiscono una goccia preziosa e insostituibile nel mare, spesso ambiguo, delle proposte formative per bambini e ragazzi. Anche questa sembra una bella operazione per raccattare denaro facile: é necessario muovere tutti gli operatori educativi in Italia quando sono riconoscibili quei pochi - per fortuna - che hanno commesso abusi nei confronti di minori? É altamente offensivo e indegno che una persona per bene debba dimostrare la propria estraneità a fatti ignobili. Il mondo dello sport, già pesantemente minacciato, rischia di trovarsi un'altra tegola sulla testa: invece di aiutare e semplificare le procedure, si perpetua in atteggiamenti vessatori e penalizzanti. Del resto, in Italia, lo sport é da sempre considerato, malgrado le parole di circostanza, la ruota di scorta del processo formativo. Non ci siamo ancora sbarazzati del tutto delle scorie intellettualistiche di crociana memoria che vogliono l'attenzione per il corpo una pericolosa tendenza da fermare. Mi dispiace, signori dello sport, qua non si tratta solamente di deroghe o di interpretazioni: qua si tratta di principi che devono essere difesi. Non mi metterò a 53 anni dopo 35 di onorata e, a volte, un po' meno, carriera, a difendere la mia innocenza. Di errori ne ho commessi molti, come molti dei miei colleghi, ma ciò non ci rende colpevoli. Molti di noi hanno speso una vita tra i minori: non chiediamo molto, forse un po' di rispetto. Riconoscenza é troppo.  

venerdì 7 marzo 2014

lecito illecito

" Due mesi di ritardo non sono una tragedia ed é una situazione generalizzata anche nel calcio ". Parole pronunciate dal Presidente Federale Petrucci in margine alla situazione di Montegranaro, insolvente verso giocatori e tecnici. Se le avessi dette io o qualsiasi altro servo della gleba, sarebbero scivolate via senza lasciare traccia. Dette però dal massimo esponente politico della pallacanestro italiana, hanno un effetto dirompente e, francamente, discutibile. É come se Napolitano dicesse agli operai che non percepiscono lo stipendio: suvvia, signori, non è la fine del mondo aspettare qualche mese, gli italiani hanno sempre mille risorse! Trovo inopportuno giustificare un atto illecito da parte dei vertici istituzionali, soprattutto far sembrare normale una situazione che non ha nulla di tutto ciò. Che sia generalizzata a tutti i livelli, é purtroppo cosa conosciuta a tutti: non c'è da stare allegri, lo sport sta lentamente morendo. Più precisamente, lo sport professionistico: troppi costi, troppe incombenze, troppi rischi. Chiunque oggi investe nello sport di alto livello é in sostanza un benefattore: resistono ancora le società di base dilettantistiche, che si reggono sul rassicurante equilibrio entrate uscite, dove per entrate si intendono le quote degli associati e per uscite i rimborsi degli operatori. Non é un mistero che oggi sia più conveniente e sicuro lavorare nelle piccole società: gestione oculata, pochi soldi ma puntuali. Quando il signor Armani, encomiabile nella persistenza, troverà altri motivi ed interessi per investire - investire? - anche Milano tornerà nell'ombra, come é già successo per molti altri. C' é del vero nel considerare ricco di privilegi chi vive di pallacanestro: non è da tutti, me compreso, campare di ciò che piace. Spesso però ci si dimentica dell'altra faccia della medaglia: per giocar a certi livelli ci si deve allenare duramente e chi regge il timone é sottoposto a pressioni non indifferenti. I professionisti sono lavoratori a tutti gli effetti: non si capisce perché in questo caso aspettare sia lecito, mentre in altri viene considerato reato. La congiuntura economica ha seminato morte, sport compreso. Tutti si rendono conto delle difficoltà in cui ci si trova ad operare. Ma mai e poi mai ci si dovrebbe rassegnare al corso degli eventi, né tantomeno giustificare le società che non agiscono correttamente. Se non si è in grado di assolvere agli impegni presi, meglio chiudere. Non esiste peggior reato di una promessa non mantenuta. Come dice giustamente Recalcati, non è solo e tanto questione di denaro. C'è chi ne ha già guadagnato abbastanza. É questione di dignità. Non c'è nulla di più umiliante che vedere la propria dedizione non riconosciuta.

lunedì 3 marzo 2014

per niente Conte

Non mi è piaciuto per niente lo sfogo di Conte rivolto al collega Prandelli, reo di aver convocato in nazionale Chiellini, appena ripresosi da un infortunio. Confesso di non aver simpatia per l'allenatore bianconero:  si dice che é normale trovare antipatico chi ha facilità con la vittoria. Io dico, invece, che é antipatico a prescindere. Bravo, per carità, forse. Un po' sopravvalutato visto che, a parte gli scudetti in Italia che oggi sono paragonabili al palio dei rioni, non mi sembra che la sua bacheca, al momento, annoveri numerosi trofei. Tra lui e Mourinho non saprei chi scegliere: forse mi terrei Allegri, il perdente, che almeno ogni tanto sorride alle telecamere. Accusa il collega di sgarbatezza: senti da che pulpito! Mi piacerebbe seguire la scena a parti invertite: il giorno che Conte diventerà CT, perché lo diventerà, sarà importante fare memoria delle sue parole da allenatore di club. In sostanza, perché é di questo che si parla, la nazionale dovrebbe cortesemente chiedere la disponibilità delle società a mandare i giocatori. Da sempre, a tutti i livelli e in tutte le discipline,  esiste un conflitto di interessi tra chi gestisce le società e chi si occupa delle rappresentative, che siano nazionali, regionali, provinciali e via scendendo. I club sono detentori del tesseramento del giocatore e devono vincere i campionati; le rappresentative convocano i migliori, perciò é inevitabile la collisione. Di Prandelli so poco, come in genere del calcio, ma mi sembra tutto fuorché sgarbato. La sua delicatezza é proverbiale, come la rara qualità di avere parole buone per tutti e di rimanere equidistante in ogni circostanza. Dobbiamo capirci: gli interessi della nazionale vengono successivamente a quelli dei club? Perfetto, allora ha ragione Conte. Ma allora, a questo punto, mi chiedo a cosa serva una nazionale e, di conseguenza, qualsiasi rappresentativa di qualsiasi disciplina a qualsiasi livello. Se invece, le rappresentative hanno un senso, allora devono operare in libertà. Non ci possono essere club privilegiati rispetto ad altri: Conte, sapendo di avere i migliori, non può lamentarsi che vengano chiamati. É chiaro che non ci saranno mai proteste e polemiche da Chievo, Atalanta e Palermo. Cosa dovrebbe fare Prandelli? Chiamare gli scarsi? Quelli sono rimasti alle società che non possono permettersi un certo mercato e certi ingaggi. La nazionale quante volte si raduna? Cinque, sei in un anno? E dovrebbe rinunciare, in così poco tempo, ai giocatori più bravi? Non credo che Prandelli debba una telefonata a Conte: non ci sono società che devono godere di favori rispetto ad altre. Perciò, che si accontenti di vincere l'ennesimo scudetto e che sia fiero che molti dei suoi faranno brillare l'Italia ai prossimi mondiali. Non é vero che bisogna sempre dire quello che si pensa: a volte sarebbe meglio frenarsi.

venerdì 28 febbraio 2014

risi e sorrisi

C'è una bella differenza tra ridere e sorridere. La stessa differenza che c'è tra sbagliare e fare un canestro. Nutro una particolare predilezione per i giocatori con il sorriso. Un linguaggio del corpo inconfondibile: significa che tutto ciò che si sta facendo, dallo scivolamento sfinente alla schiacciata, produce contentezza, soddisfazione. Quando alleni giocatori sorridenti, hai la sensazione che la presenza in palestra abbia un senso e che tante ore di programmazione e sudore sul campo trovino naturale e logico compimento. I giocatori - e gli alunni - che ridono, al contrario, urtano il mio fragile sistema nervoso. Ridere in palestra é tutt'altro che essere contenti: mi fa pensare alla gazzarra di gruppo, alle serate scacciapensieri del branco, alla necessità di coprire con il rumore il grande silenzio che ci si porta dentro. Riesco ancora a concepire la risata animalesca e liberatoria davanti ad un bicchiere di vino: l'esercizio fisico, qualunque esso sia, necessita di presenza mentale e di ascolto delle sensazioni corporee. Non è un caso che la maggior parte degli infortuni avvenga in un clima di svaccamento generale dove le funzioni cerebrali lasciano il passo alla svogliatezza e goliardia. Quando si dice che i giocatori devono divertirsi, é fondamentale capirsi sui termini. Divertimento é godimento interiore, gusto nel fare fatica, piacere di condividere con altri gioie e dolori. Non è egocentrismo sfrenato, distrazione, necessità di far riposare la mente, soddisfazione dei bisogni elementari. Durante i ricevimenti collettivi, la famosa macelleria dei colloqui con i genitori, sento spesso ripetere che i ragazzi devono sfogarsi: mi umilia e mi offende pensare di avere il compito di riparare alle fatiche quotidiane. Pensavo di avere una piccola, seppur indispensabile, parte nella costruzione della personalità delle nuove generazioni. Sciocche illusioni. Ho allenato molti giocatori/trici con il sorriso e la mia carriera, malgrado non sia eclatante, non è ancora giunta al termine grazie alla presenza costante e nutriente di questi volti impressi nella mente. Non sono facce qualunque. Hanno nomi e cognomi. Un allenatore non vive di vittorie. Qualche anno fa, giovane e rampante, pensavo fosse così. Non servono parole. Un allenatore vive di sorrisi. 

martedì 25 febbraio 2014

avanti indietro



Lo sfogo di Arrigo Sacchi di questi giorni merita almeno una riflessione. L'uomo in questione non è mai stato il mio tipo: troppo pieno di sé per essere vero. È stato un innovativo ed ha vinto tanto, ma chi porta i capelli bianchi come me sa benissimo che il successo é stato in gran parte dovuto ai super uomini che scendevano in campo ai suoi ordini. Uomini che quel club non ha più conosciuto nemmeno con il binocolo, ma questo é un altro discorso. Il suo merito é stato quello di esplorare mondi nuovi e di contaminare le vecchie e tradizionali idee del calcio con la ricca letteratura presente in alcuni sport di squadra, in primis la pallacanestro. Quello che dice oggi però é buono e giusto e che la critica provenga all'interno del mondo granitico e fondamentalista del calcio é un segnale incoraggiante. Il tatticismo e l'esasperazione della fisicità stanno rovinando il gioco stesso: rischio che corrono tutte le discipline di squadra, pallacanestro compresa. Guardare una partita di soccer oggi é pressoché impossibile: una noia mortale, un vicendevole annullamento agonistico, soprattutto in Italia. Creatività assente, poco utilizzo della tecnica, forza atletica portata all'estremo, utilizzo sfrenato della tattica. Questi difetti diventano addirittura atti criminosi se applicati a livello giovanile. Ha ragione quando dice che bisogna ripartire dai fondamentali e dall'insegnamento dell'abc: l'ossessione per il risultato ha provocato, per ironia della sorte, l'eutanasia del gioco stesso. Per inseguire a tutti costi la vittoria, si finisce per perdere. Mi sono piaciute le parole di Seedorf: i discorsi sui moduli mi annoiano, preferisco che si attacchi in libertà, importante é la fluidità del gioco. Speriamo che seguano i fatti. Essere moderni significa tornare alle origini. Gli allenatori hanno il compito di fornire gli strumenti, non di indirizzare le scelte. Chi conosce la grammatica, sarà sempre in grado di scrivere. Ma chi vuole scrivere senza sapere la grammatica, commetterà sempre un sacco di errori. Come dice il buon Arrigo, un allenatore deve essere giudicato non per i titoli vinti, ma per la bravura e la capacità di insegnamento. Per andare avanti, dobbiamo tornare indietro: sembra un gioco di parole, in realtà é l'unica possibilità di salvezza per lo sport. 

venerdì 14 febbraio 2014

maturo a puntino

Una disputa stucchevole. Forse del tutto inutile. Come, del resto, la gran parte delle nostre conversazioni. Tra uno scrutinio e l'altro, per fronteggiare malinconia e frustrazione, é inevitabile l'utilizzo di manovre di alleggerimento per scoraggiare lo sprofondamento nella cosiddetta  depressione professionale. Intelligenza e maturità sono sinonimi? La mia collega di scienze - bravissima tra l'altro, modello per gli insegnanti - sostiene questa tesi. Secondo lei, un ragazzo intelligente non può non essere maturo. In pratica, non può essere intelligente un alunno che ha comportamenti devianti in ambito sociale e scolastico. La mia versione é la seguente: l'intelligenza é combinazione chimica di cellule - ironia della sorte mi trovo a duellare con chi insegna queste teorie - mentre la maturità é frutto di esperienze, trasmissione di cultura e tradizione, consapevolezza dell'importanza centrale delle abilità sociali. Per sostenere l'assioma, faccio spesso ricorso ad alcune terrificanti figure della storia passata e recente, delle quali si può dire ogni cosa fuorché non fossero intelligenti. Dittatori, criminali, speculatori, hanno potuto perseguire i propri nobili fini grazie alle capacità intellettive in possesso: convinzione mia che se queste persone avessero avuto un vissuto diverso il destino del mondo avrebbe preso un altro corso. Prova ne sia che le abilità di questi signori, in molti casi, siano state utilizzate a fini " benefici " - virgolettato perché non sempre i mezzi per perseguire il bene sono chiari e limpidi  - non appena si sono aperte le porte del carcere. Maturità significa possedere quelle doti di completezza umana che, inevitabilmente, possiamo ottenere nel corso degli anni grazie alle persone che frequentiamo, le esperienze che facciamo, le elaborazioni che faticosamente immagazziniamo. Semplificando di molto, l'intelligenza ci é data, la maturità ce la dobbiamo pian piano guadagnare. Attenzione, non c'è legame con l'età: ci sono bambini più maturi dei vecchi, a giustificazione del fatto che il cammino verso la saggezza non si ottiene per scatto d'anzianità, ma per scelta volontaria e quotidiana. Se mi è permesso l'aggiunta di una postilla, di intelligenza in giro oggi ne vedo molta, perfino troppa. Quello che preoccupa é l'assenza di maturità: é spaventosa l'idea che l'eccellenza cerebrale venga utilizzata male. Perciò saltano subito in mente due quesiti: é forse compito dell'educazione trasformare l' intelligenza in maturità? E lo sport, in questa impresa, ha un ruolo rilevante o secondario? Avessi risposte, non mi farei domande.