"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 31 ottobre 2013

tolleranza zero

Mi sono davvero rotto le scatole. Tolleranza zero. Non può esistere che un adolescente rifiuti di fare attività motoria. Nel bel mezzo del vigore fisico. La salute non è solo un diritto, é innanzitutto un dovere. Non è nemmeno un fatto di natura privata o personale: il sedentario danneggia la collettività. Due ore di educazione fisica alla settimana sono come una goccia d'acqua nel deserto: eppure, piuttosto di nulla, andrebbero spese nel migliore dei modi. Risultato? Il più delle volte, con la scusa di aver dimenticato l'equipaggiamento necessario, si rinuncia anche al minimo sindacale. Da giovane e invasato, sovente mi offendevo. Oggi, sono preoccupato. Generazioni molli, che crescono senza aver provato la fatica e che al primo ostacolo allentano la presa. Ci sono cose molto più importanti del benessere corporeo: telefonini, chat, video giochi, cuffiette. Divertimenti, oltre tutto, con costi energetici bassi. Non c'è partita tra una serie di flessioni a terra e l'ascolto di musica a tutto volume: che poi sia un problema per i timpani, é un dettaglio del tutto marginale. Attività pomeridiana? Forse due, tre su dieci. Abbandono precoce e non per colpa degli allenatori: eccessiva durezza fare tre, quattro sedute settimanali per poi fare un'apparizione fugace in campo. La tenacia non è più una virtù. Perciò resistono solo gli eletti, quelli che hanno un posto garantito in squadra. Per gli altri esiste solo l'agonismo virtuale, dove l'unico esercizio ginnico consiste nella coordinazione fine delle dita che si destreggiano fra un tasto e l'altro. Salvo poi, tra qualche anno, spendere una fortuna per rimettere a posto valori sballati o chili assunti. L'attività fisica, oggigiorno, é un'emergenza sociale e non è sufficiente pensare che ciascuno debba cavarsela in autonomia. Certo, purtroppo non esiste un'equazione esatta tra esercizio fisico e benessere: alcuni, malgrado si dedichino con cura e continuità, sono sopraffatti da malattie impreviste e indesiderate. Per quanto dipende dalla volontà, però, é compito di ciascuno tenersi in forma per evitare di dipendere dagli altri. Star bene significa far stare bene. Perciò non ho più intenzione di lasciar correre: da questo momento é lotta senza quartiere. Pensare al proprio corpo non é facoltativo, é obbligatorio. Non è un optional, semmai equipaggiamento di serie.

venerdì 25 ottobre 2013

l'amore non fa danni

La differenza la fa l'amore. Un tempo pensavo diversamente. Pensavo fosse la conoscenza, la lucidità, l'esperienza. Niente di più falso. I giocatori sanno se ci metti amore. Che, chiariamo subito, non significa benevolenza o compiacimento. Un giocatore non vuole essere compatito: vuole giustamente onestà, sapere se trova interesse nella testa e nel cuore dell'allenatore. Dico sempre agli atleti: non preoccupatevi quando venite rimproverati; preoccupatevi casomai del contrario. Come un padre che non ha mai da correggere un figlio: non può essere un buon padre. Correggere è un atto d'amore, perchè comporta sofferenza: soffre il corretto, ma anche il correttore. Non è mai nè facile nè bello entrare in collisione, ma è quasi sempre una procedura necessaria e inevitabile. Purtroppo attraversiamo tempi in cui il rimprovero viene scambiato per offesa e l'indifferenza per rispetto. Ecco perchè in palestra, nelle aule, nelle mure di casa, si sentono sempre meno parole di correzione. E' più comodo, costa meno, comporta meno guai. Così ci abituiamo pian pianino a disinteressarci degli altri, a convivere con l'errore, a vedere cose che non vorremmo vedere ma che accettiamo come ineluttabili. Ho fatto moltissimi errori nell'esercizio della mia professione, ma cerco incessantemente di non smettere di amare quello che faccio. Il giorno che dovesse succedere, sarebbe giusto smettere e darsi ad altro. Se Trapattoni e Ivkovic, settantenni, sono ancora innamorati del loro lavoro, qualcosa sotto ci deve essere. Non dimenticherò mai l'applauso del popolo serbo a Lubiana tributato all'anziano allenatore della nazionale - giovanissima, tra l'altro - : una risposta affettuosa ad un atto d'amore, ad un uomo che non ha dato solo vittorie e competenza, ma anche passione e vitalità ad un movimento che ha scritto la storia della pallacanestro. C'è un sistema infallibile per scoprire se un allenatore è innamorato del proprio mestiere: crede fermamente in tutto quello che fa. Non sono le vittorie, i giocatori bravi o meno, gli esercizi spettacolari a definirne la statura e la qualità. Anzi, proprio nella difficoltà del compito si misura il valore. Più il compito è improbo, più amore è necessario. Chi non vince una partita ma continua ad allenare la squadra come fosse la prima in classifica: ecco, questo è l'allenatore innamorato! La competenza è importante, ci mancherebbe. Competenza e amore fanno bingo. Ma se dovessi scegliere, oggi non avrei dubbi. La competenza può anche fare danni. Ciò che non può fare l'amore.

venerdì 18 ottobre 2013

piccoli analfabeti

Nessun stupore. Nessuna novità. Bocciato l'emendamento sull'insegnamento dell'attività motoria nella scuola elementare (primaria). Non c'è copertura finanziaria. Non ci sono trecento milioni. Siamo ormai avvezzi alle sconfitte su questo terreno: la dimensione formativa, in Italia, occupa l'ultimo posto. Se poi parliamo di formazione corporea, Dio ci salvi! Nella graduatoria degli oggetti in dotazione, il computer viaggia stabile nei piani alti; segue, a debita distanza, il vocabolario. Fanalino di coda, manco a dirlo, il pallone. Il gioco corporeo, attività negletta e non necessaria, diventerà nel tempo l'occupazione di qualche figlio privilegiato, erede degli impallinati e irriducibili amanti del movimento. Il messaggio è molto chiaro: la salute dei cittadini, ed in particolare quella dei bambini, non è una priorità sociale. Ci sono le associazioni sportive, i corsi per tutti i gusti, il tourbillon pomeridiano dove i piccoli utenti, come pacchi postali, vengono scaricati per regalare qualche minuto di tranquillità allo stress quotidiano. Per carità, proposte nobili e spesso all'avanguardia, ma che non possono soddisfare le esigenze di motricità di base di cui i bimbi hanno estremo bisogno. Prima ancora di giocare a calcio o a basket, prima ancora di nuotare, occorre saper correre, saltare, arrampicarsi, scivolare. Scontato? Per niente: fatevi un giretto per la città e provate ad osservare quanti bambini giocano in libertà. Chiedete agli istruttori quali difficoltà incontrano nell'attività quotidiana in palestra: mancano i requisiti, ossia i presupposti senza i quali non è possibile alcun apprendimento. Spesso devono smettere i panni e insegnare ciò che dovrebbe essere già di dominio comune. La mia generazione poteva fare a meno dell'insegnamento motorio: la nostra palestra erano i giardini, le strade, gli alberi; come i ragazzi della via Gluck, imparavamo le abilità naturali sul campo. Certo, eravamo tecnologicamente analfabeti - lo siamo ancora per molti di noi - ma quando abbiamo iniziato a giocare chi a pallacanestro, chi a calcio o pallavolo, non abbiamo dovuto fare gli esami di riparazione: il nostro kit motorio di base era all'altezza della situazione. Le scienze formative - non certo io - affermano che l'apprendimento in età infantile avviene attraverso esperienze concrete, soprattutto nel contatto del corpo con gli oggetti, l'ambiente naturale e gli altri corpi. Il problema non è nelle medaglie olimpiche che pian piano non vinceremo più ( a meno che non troveremo scappatoie di dubbia legalità ); il problema è che avremo, con tutta probabilità, una popolazione con maggiori problemi di salute. Faccio l'insegnante alle superiori e faccio queste affermazioni con cognizione, toccando con mano già i primi segnali di invecchiamento fisico precoce. I trecento milioni di oggi sono una bazzeccola rispetto a quello che si dovrà spendere in riparazione sanitaria. Ma, è risaputo, sarà un problema di altri. Così hanno ragionato anche i loro predecessori trascinandoci in questo burrone dove, risalire, sembra quasi impossibile.

martedì 15 ottobre 2013

allo sport il proprio

Stavolta Balotelli non ha tutti i torti. Cosa c'entra la nazionale con la lotta alla mafia? La sensibilizzazione non spetta certo ad una squadra di calcio e non sarà la maglia indossata da Buffon a scuotere le coscienze. Un giocatore deve fare quello che sa fare meglio: parare, difendere, segnare. Gli azzurri fanno politica dentro il campo: correndo anche quando il fiato manca, buttandosi per terra recuperando un pallone, rischiando la capoccia nei colpi di testa. E poi, parlandosi chiaro, quale atleta, se non vuole andare incontro ad un suicidio mediatico, si metterebbe a sostenere i progetti fraudolenti di cosa nostra in barba alla cultura che tutti desideriamo, fatta di legalità e rispetto. La strumentalizzazione delle nazionali é un aspetto che fatico a concepire: chissà per quale recondito motivo, se Prandelli dovesse dichiarare che la mafia é il demone da combattere, tutti gli italiani dovrebbero supinamente uniformarsi. Un bel teatrino dell'ipocrisia. Trovo poi sconveniente il comportamento di chi, eletto in rappresentanza del popolo, utilizza espressioni inopportune e populistiche ( se non fosse stato Balotelli avrebbe usato le stesse parole? ), e se mi è possibile aggiungere, persino offensive. Se c'è qualcuno che si possa definire viziato sopra tutti, é proprio il parlamentare, o senatore che dir si voglia. Anzi, forse privilegiato é il termine più appropriato in queste circostanze. Scaricare sui calciatori la responsabilità di un eventuale fallimento della politica in materia di contrasto alla delinquenza, mi appare oggi come un ulteriore conferma dell'inefficacia dei governanti. Da un professionista dello sport mi aspetto che sia leale, ossia che sappia accettare la sconfitta con dignità e che utilizzi strumenti legali per ottenere la vittoria. Di un atleta che indossa casualmente la maglietta in pubblico ma che in privato si inietta sostanze proibite per aumentare la prestazione, non ce ne facciamo niente. Ho sempre avuto ammirazione per gli sportivi poco loquaci, ma che in campo, nel loro ambito, attraverso il loro comportamento, avevano sempre molte cose da dire e da insegnare. In questo, forse, il nostro caro Mario può e deve migliorare.

venerdì 4 ottobre 2013

quel tesoro prezioso

Il millenovecentottantotto (1988) é passato alla storia per tre fatti realmente accaduti: nasce Danilo Gallinari, si sposa lo scrivente, il Friuli Venezia Giulia vince il Decio Scuri femminile (l'attuale trofeo delle regioni) per la prima e, se la memoria non mi gioca brutti scherzi, unica volta. Non avrei dovuto sedere su quella panchina: all'ultimo momento l'allenatore designato, Maurizio Zuppi, fu costretto a declinare per motivi di lavoro. Patrizia Galli era l'assistente perciò ci trovammo, improvvisamente, due pordenonesi al comando del timone. Giocammo a Loano, incantevole cittadina della riviera ligure di Ponente: gli onori di casa spettavano a Settimio Pagnini, mitico tecnico dell'universo cestistico rosa, al quale dovetti volentieri prestare la giacca per le premiazioni finali. Un uomo straordinario, che ha dedicato la vita alla pallacanestro e che non ha avuto esitazioni ad abbracciarmi alla sirena finale: in fondo, le regioni piccole vivono intese istintive. La squadra era forte, un fantastico mix di esuberanza ed imprevedibilità triestina unite a solidità e personalitá concordiese: queste ultime passate al nemico confinante seguendo le tracce del bravo e compianto Luciano Valerio, allenatore della serie A2 in città. Qualche nome: fra tutte, Renata Zocco, che farà una carriera splendida nella massima serie, ma anche Brezigar, Rossi, Varesano, Gobbato, Falcomer, Bianco...oggi tutte quarantenni, con altri pensieri per la testa. Vincemmo tutte le partite, in successione Piemonte, Calabria, Liguria. Poi ai quarti Toscana, in semifinale con il Lazio ( ai supplementari ) e in finale con la Lombardia che prevalse sul favorito Veneto. In realtà, trionfammo non solo perché eravamo bravi, ma per altri segreti motivi. Primo, perché era scritto. Secondo, e lo scoprii solo alla fine, perché il nostro fedele accompagnatore, di cui non ricordo il nome ma faceva il tabacchino a Grado, si infiló per sbaglio il gilet color bordeaux a rovescio durante la prima partita e non lo tolse fino al fischio finale - la leggenda narra che perfino a letto l'uomo non si sbarazzò della scaramanzia - appropriandosi pubblicamente di meriti non sportivi ma indiscutibilmente reali. Tornammo a casa orgogliosi e speranzosi di ricevere ufficiali e pubblici riconoscimenti che, ahimè, non ci furono. Solo una medaglietta commemorativa, di cui ho perso noncurante le tracce. Pensavamo erroneamente che l'inabitudine alla vittoria potesse una volta tanto smuovere l'apparato. Tutto quel che resta é una fotografia sbiadita ed una zona nascosta nel cervello dove, qualche volta, fare ricorso per illuminare il buio. Le vittorie sono rare e vanno conservate come un tesoro prezioso.