"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 28 giugno 2014

né vincitori né vinti

Né vincitori né vinti. Ha ragione Marco Crespi. Scudetto legittimamente di Milano; moralmente, da assegnare ex aequo. Una bella pagina di sport, una straordinaria storia di pallacanestro. Da scriverci un libro, da farne un film. Da una parte, un gruppo solido e unito di eroi, con l'orgoglio ferito, il cuore grande e le ore contate, che non vuole saperne, insieme alla propria gente, di abbandonare la scena da vittima predestinata. Dall'altra, la necessità di tornare in cima alla vetta per una città e un club che da troppo tempo hanno assaporato illusioni trasformate in cocenti amarezze, tanto da far pensare a una vera maledizione, ad un incantesimo senza via d'uscita. Non é stato facile per Milano togliersi di dosso la paura, la brutta sensazione che la cattiva sorte potesse prevalere nuovamente sulla logica delle forze in campo. Siamo sinceri: non é stata una bella Olimpia. Anzi, in molti casi ci ha fatto vedere un gioco approssimativo, frutto di forzature spesso incomprensibili e dove il gioco corale é stato sacrificato sull'altare del talento individuale. Va dato però merito a questo gruppo, sotto 2-3 e con la necessità di vincere in trasferta, di essersi ricompattato nel momento più importante della stagione, ossia quando il baratro appariva come una realtà palpabile e non più derogabile. Siena ha giocato la pallacanestro migliore, ha usufruito della leggerezza da sfavorita e si é spenta improvvisamente e incolpevolmente nell'ultimo quarto di gara 7: non c'é una spia accesa, non c'é nessun avviso quando il motore umano va in riserva. In una serie lunghissima, la profondità di Milano avrebbe potuto fare la differenza, e così é stato. Ma il fascino vero di questa sfida é stato il profondo rispetto che giocatori, allenatori e anche pubblico - nel limite del lecito - si sono rivolti reciprocamente: tanti ex, da entrambe le parti, eppure nessuna polemica o strascico, nessuna ricerca di tradimenti e vendette. Un' invasione pacifica e sportiva ha decretato la fine dell'incontro. In realtà, chi ha vinto davvero, é la pallacanestro. In uno sport che non ammette il pareggio e nemmeno i rigori, per una volta, potremmo anche fare un'eccezione. A questo punto non può non venire in mente e in soccorso la scena iniziale di Match Point di Woody Allen dove la pallina da tennis colpisce la retina e rimane sospesa in aria con queste parole " chi disse preferisco avere fortuna che talento, percepì l'essenza della vita ". É quello che deve aver pensato Jerrels prima di lasciare la palla all'ultimo secondo. Un tiro, un destino.

mercoledì 25 giugno 2014

scendere a patti



Non voglio addentrarmi nel già abusato ed intricato reticolo di valutazioni tecnico-tattiche. Ci capisco poco di pallacanestro, figurarsi di calcio. C'è però un aspetto della vicenda che intriga e che ha delle implicazioni non solo sportive. Lo sfogo di Buffon, condivisibile o meno, traccia un'inequivocabile frattura intergenerazionale all'interno del gruppo. Può sembrare un atteggiamento bacchettone e scaricabarile: infatti non a tutti é piaciuto, soprattutto al pubblico giovanile che vede in Balotelli l'emblema del giocatore che riesce a conciliare successo e divertimento. Fatto sta che la spedizione é stata fallimentare e che all'origine, oltre ai mille motivi già enunciati dai media nazionali, esiste una vera e propria incomunicabilità fra vecchi e nuovi. Sarebbe stato interessante partecipare, in veste di uditori naturalmente, alla riunione in spogliatoio durante l'intervallo: probabilmente non sarei rimasto sorpreso nello scorgere i senatori, al colmo ormai della pazienza, attorniare il povero commissario tecnico nel tentativo di convincerlo a lasciar fuori la stella - nascente, cadente, mai esplosa? - nel rischio reale di espulsione ( ironia vuole che qualcuno abbia preso in seguito il suo posto ). La morale di questa triste favola, se ci fosse davvero, va ricercata nel tentativo mal riuscito di mettere insieme esperienza ed entusiasmo, genio e sregolatezza, pazienza e freschezza. Ingredienti in apparenza inconciliabili ma che in passato hanno determinato il successo, non solo sportivo, di squadre e gruppi con precisi obiettivi da raggiungere. La ricetta é semplice, almeno a parole: i giovani dovrebbero guardare i vecchi - o meno giovani, così nessuno si offende - come l'esempio da seguire e fidarsi dei consigli di chi ha già percorso un certo tratto di strada. I vecchi dovrebbero guardare i giovani non come una minaccia, ma una risorsa per il cambiamento e il miglioramento della prestazione. Non é solo una sfida calcistica o sportiva, é una sfida planetaria. Se vogliamo la vittoria, a tutti i livelli, dobbiamo scendere a patti: non é un compromesso, é condivisione di differenze.

sabato 14 giugno 2014

non mi piace


Non mi piace. Posso dirlo? Non mi piace questa nuova tendenza all'omologazione. Come se, in nome dei consensi o del potere ricevuto, esista un diritto che legittimi la soppressione del diverso, dell'eccezione, del distinguo. Non mi piace in politica: di quale democrazia parliamo se non possono esistere idee e posizioni fuori dal coro, quale ricorso alla sacralità della coscienza se poi la sintesi non é la faticosa ricerca dell'unione delle differenze, ma l'adeguamento passivo alle volontà della cerchia dominante? Qui non si parla di colori o schieramenti, ma di metodo: l'impressione è che tutti, nessuno escluso, stiano adottando il cosiddetto dentro o fuori, come se la ribellione fosse un virus da eliminare e non una risorsa. Non mi piace nel mondo professionale: questi nuovi dirigenti pubblici, costretti da un'amministrazione in piena crisi a fare terra bruciata intorno. Dove si glorificano i vincitori di premi come i veri e nuovi eroi del lavoro e si abbandonano sulla strada quelli che hanno faticosamente, nascostamente e quotidianamente fatto il proprio dovere rinunciando alla ribalta o a compensi. Non mi piace nemmeno nello sport: come se tutti, come cani segugi, dovessimo dipendere totalmente dalle idee o dalle intuizioni del tecnico emergente o che va per la maggiore. Vedere qualcosa di originale, di creativo, sui campi di calcio, di pallacanestro o altro, oggi é diventata un'impresa titanica. Tutti, o quasi, che giocano nello stesso modo: alla fine, gioco forza, la differenza la fanno i singoli e le giocate fuori spartito. Perché, per quanto si tenti di neutralizzare, comunque e per fortuna la differenza trova sempre il modo di uscire. Tutto questo non mi piace. Posso dirlo?

domenica 8 giugno 2014

vizi d' italia

Udite, udite: la nazionale di calcio, la stessa che ha pareggiato con il Lussemburgo - nazione equivalente per territorio e popolazione alla provincia di Pordenone - alloggia in Brasile in un resort da 350 euro giornaliere per camera. Che non siano soldi nostri, ma della Fifa, frega fino ad un certo punto. Considero la nazionale un bene pubblico, perciò mi aspetterei scelte improntate alla sobrietà, soprattutto in un momento come questo. Ecco perché ritengo il villaggio olimpico, almeno concettualmente, la casa ideale degli atleti: per due settimane ogni quattro anni tutti sono trattati in egual maniera, dai lottatori georgiani ai giocatori di basket americani. Eccezion fatta per i calciatori italiani che, chissà perché ( Vasco ), alloggiano sempre altrove ( cosa ci faccia poi il calcio alle olimpiadi é un mistero a noi comuni mortali non ancora svelato ). Mi chiedo se lusso e comfort possano condizionare l'esito di una competizione e, sinceramente, per quanto mi sforzi, non trovo risposte esaurienti. Leggo di gettoni presenza e di premi e i pochi capelli rimasti mi si drizzano: giocare in nazionale dovrebbe essere un onore, un privilegio unico più che raro, al punto da rigettare qualsiasi idea di monetizzazione. Soprattutto per chi é già avvezzo ai grandi guadagni. Se é vero che i club hanno libertà di manovra sui compensi - anche se andrebbe affrontato seriamente il tema del salary cup - per quanto riguarda la nazionale il concetto andrebbe ribaltato: vuoi venire in azzurro? Bene, ci sarà gloria, cinquanta milioni di persone ad idolatrarti, la possibilità di entrare nella storia, probabilmente un contratto da opinionista, ma al momento nemmeno una lira. Forse un buon albergo a tre stelle con camere triple. Da idealista quale sono, da chi rappresenta la nazione - politico, artista, atleta - mi aspetterei prima di tutto il buon esempio. Non voglio abituarmi all'idea che tutti siano corrotti, viziati, maleducati. Ce ne sarà uno, da qualche parte, al quale potremo guardare con ammirazione e gratitudine, magari prima che venga sotterrato. Detto questo, forza azzurri, sempre e comunque. La nazionale, di qualunque sport e a qualsiasi livello, rappresenta l'essenza di un popolo. L'inno non ci lascia indifferenti: a questo paese, malgrado tutto, apparteniamo indissolubilmente.