"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

mercoledì 26 agosto 2015

auf wiedersehen


I figli se ne vanno, come i nostri bisnonni. Altri moventi, ma i sorrisi e i pianti sono quelli, gli stessi. Se ne vanno in cerca di qualcosa, che qui non hanno, non trovano. Fanno quello che noi, con un misto di viltà e pigrizia, non abbiamo avuto il coraggio di fare. Con la presunzione di avere l'america in casa, ci siamo costruiti l'illusione di bastare a noi stessi. Siamo rimasti e vediamo loro partire. Siamo contenti perché li vediamo contenti, ma siamo trepidanti perché qualcosa ci verrà a mancare. Ci mancherà la lotta corpo a corpo quotidiana, la fatica del comprendersi, la voglia di perdonarsi dopo essersi feriti. Avranno forza e resistenza? C'è la tecnologia, ma non la percezione. Potremo parlare e vederci, forse più di quanto si faccia normalmente, ma non ci si potrà toccare, abbracciare, salutare come si deve. Qualcuno lo chiama destino: io, malato di incoerenza, ribelle di vocazione, con i capelli lunghi e incolti non vedevo l'ora di andarmene ed ora non vorrei che se ne andassero. Si è compiuto il mio destino? Ma è giusto ciò che è giusto: scegliere una strada, incamminarsi, togliere le pietre d'inciampo, insistere e sudare fino ad arrivare a destinazione. Forse è per questo che, inconsapevolmente, malgrado tutto, continuiamo a spingerli: perché la nostra meta ci sta un po' stretta o forse perché abbiamo sensazione che quella raggiunta non sia giusta. Come i nostri predecessori, avranno valigie, speranze, timori. Per quanto può contare la vicinanza,  seppur virtuale, nessuno potrà sostituirsi nell'agire e prendere decisioni. ' Ognuno è solo nel cuor della terra '. Ma il destino è altrove e al destino non si comanda. Il distacco é ciò che ci fa diventare adulti. Auf wiedersehen, meine tochter. Gute fahrt und viel glück. 

lunedì 24 agosto 2015

rosa azzurro

Non sono indiziato a tracciare bilanci, ma occupandomi di pallacanestro femminile é impossibile non segnalare un'estate ricca di soddisfazioni per le nazionali giovanili. In una fantomatica e virtuale classifica a punti - quinto posto under 20, quarto under 18 e bronzo under 16 - l'Italia si posiziona al terzo posto assoluto dietro solo a Spagna e Francia, vere dominatrici della pallacanestro rosa nel continente. É un risultato di grande portata, che premia il nobile lavoro nei club - svolto spesso in condizioni limite - , lo sforzo formativo dei Centri Tecnici Regionali e l'ottima rifinitura a cura di sapienti tecnici del Settore Squadre Nazionali. Sono abbastanza navigato da sapere che questo debba essere un punto di partenza e non di arrivo: non ci si può permettere di abbassare la guardia, tantomeno di accontentarsi. Abbiamo precedenti illustri in merito, basti pensare all'argento di Atene del 2004 della maschile dove alle celebrazioni e fasti iniziali fecero seguito anni di vacche magre e cocenti delusioni. Non va perso di vista l'obiettivo primario: formare giocatrici di alto livello in grado di giocare in campo internazionale. I titoli giovanili sono importanti, ma ancor di più creare le premesse per un indolore ricambio generazionale, tale da mantenere una certa costanza di rendimento con la nazionale A. Le nevralgie non vanno trascurate: reclutamento basso, numeri ridotti, competizioni poco probanti, moria di giocatrici e dispersione di allenatori. Non guardare in faccia la realtà porterebbe in dote conseguenze inevitabili: la consapevolezza che il corpo non sia guarito e che abbisogni di continue cure ed attenzioni é la premessa indispensabile per un futuro libero da brutte sorprese. Ciò nonostante, questa estate meravigliosa - non certo meteorologicamente - ci consegna due belle certezze: che la strada intrapresa, sebbene all'inizio, é forse quella giusta e che alle nostre ragazze non manca certo l'orgoglio di essere italiane. Mi sembra di averlo già detto: dove non c'è fisico e talento, saltano fuori altre virtù. Cose che stanno dentro. Cose che non si insegnano.

venerdì 14 agosto 2015

problemi di vista


Abbiamo bisogno di altri occhi per gustare fino in fondo la bellezza che ovunque ci circonda. I nostri sono stanchi ed assuefatti, troppo distratti, impiegati in faccende inutili se non dannose. Accompagnare diventa un esercizio catartico: ciò che da soli non riusciamo più a vedere riprende vita attraverso le espressioni e le emozioni di chi fa l'esperienza per la prima volta. Nel linguaggio fisico ci troviamo di fronte ad un riflesso: nel mondo reale a nuove e affascinanti riscoperte. Siamo troppo accecati dal risentimento - giustificato a volte, ben inteso - per apprezzare ciò che abbiamo attorno e che ci è stato consegnato - spesso colpevolmente immemori - a titolo gratuito. Forse che ci siamo meritati piazza dei Miracoli o la Basilica di San Marco? Il Ponte Vecchio o il Cupolone? Abbiamo un patrimonio infinito ma cerchiamo ricchezze altrove. Siamo troppo accecati da vitelli d'oro per cogliere il privilegio che ci è toccato in sorte. Siamo un popolo di lamentosi e insoddisfatti ( molte rivendicazioni, per carità, sono persino plausibili ) ma abbiamo un po'  perso l'equilibrio giudiziale e, in certi contesti, invertito la scala di valori. Arrabbiarsi fa male alla vista: rende miopi, nel senso che si perde di vista l'orizzonte; e pure presbiti, non mettendo a fuoco le cose che ci stanno attorno. Non saranno gli abitanti a salvare il paese: chi verrà con occhi nuovi, puliti, incantati, ci rimetterà in carreggiata. Forse.

sabato 8 agosto 2015

italianitá

Quando penso all'italianità nello sport non può non venirmi in mente El Alamein: non mi si fraintenda, non è mia intenzione né interesse inneggiare all'eroismo bellico, ma ciò che fecero gli italiani in quel frangente assomiglia molto a quello che devono fare le nostre squadre nazionali per meritare rispetto internazionale. Qualcuno disse coraggio contro acciaio: bottiglie incendiarie contro carrarmati di ultima generazione. Un'impresa disperata: infatti, morirono migliaia di compatrioti mentre i tedeschi, vista la malaparata, si dettero alla fuga. Gesta che strapparono addirittura l'ammissione di Churchill: " se gli italiani avessero avuto i nostri mezzi, avrebbero vinto ". Non sorprendano queste parole e immagini, richiamate da un pacifista e dilettante scribano: lo sport, come insegna l'antica Grecia, non è altro che la sublimazione della guerra. L'obiettivo, per quanto ci si sforzi ad alleggerire i termini, é più o meno lo stesso: prevalere sull'avversario e costringerlo alla resa. Con mezzi legali, naturalmente, ma senza risparmio di colpi. L'Italia sportiva é identica a quella in battaglia: mezzi leggeri e tanta arguzia che, nel tempo, si è trasformata, nel gergo agonistico, in bravura tattica. Nel confronto corpo a corpo non abbiamo scampo: a parte i paesi mediterranei come il nostro, gli altri ci sovrastano per altezza e massa. Ne sanno qualcosa i pallanotisti che, affrontata la Serbia nel suo terreno preferito, ossia i muscoli, sono usciti dalla vasca con le ossa rotte. Possiamo avere la meglio solo se manteniamo la nostra identità: scaltrezza, rapidità, generosità, compattezza, fantasia. Ogni volta che l'Italia ha vinto qualcosa di importante, dai mondiali di calcio agli europei di basket, lo ha fatto mettendo in mostra non tanto un gioco dominante - a parte la scherma dove siamo marziani - quanto particolare, dove imprevedibilità e organizzazione hanno messo alle corde solidità e potenza altrui. Il valore aggiunto sono i comandanti - ops - volevo dire gli allenatori, che tutti ci invidiano nel mondo. Costretti a fare nozze con i fichi secchi, cresciuti nei laboratori dove le alchimie sono d'obbligo per la sopravvivenza, sono i più bravi nel leggere le situazioni e a trovare in tempi rapidi rimedi miracolosi. Solo i supponenti non hanno coraggio di cambiare e l'italiano vero é tutto fuorché presuntuoso. Le parole di Tania Di Mario, che se ne intende di nazionale, sono le migliori che si possano dire in questi casi: " a volte non vincono i più forti, ma quelli che ci credono ". Proprio così: Italia, se vuoi vincere, non smettere di crederci.

venerdì 7 agosto 2015

centrifughe d'agosto


Presunzione o necessità? Ogni ora che passa mi allontano dal mondo e il mondo si allontana da me. Non é solo questione etica, di bene o di male, ma anche fisiologica, di allergia epidermica. Ci sono gesti, un tempo forse tollerabili, che superano la soglia di sopportazione: faccende di natura privata date in pasto al pubblico e altre di natura pubblica risolte comodamente in privato. É certamente presunzione: credere all'isolamento come forma di realizzazione é un imperdonabile atto di sfrontatezza. Ma è anche necessità: se non mettiamo freno all'invasione saremo condannati a quello che Pasolini definiva il male d'epoca, oggi ancora più attuale, ossia l'omologazione. Clausura e ascetismo sembravano scelte di comodo, comunque estreme e impraticabili. Estrarsi  dal mondo oggi diventa indispensabile: prendere le distanze e guardare da un punto più alto dove le persone e le situazioni appaiono, per assurdo, contestualmente più nitide. Un conto é vedere, un altro osservare. Vedere é un fatto biologico, osservare significa comprendere e, ad un livello più alto, compatire e, per chi ne è capace, perdonare. Non voglio entrare nella centrifuga: subirò gravi perdite, ma è un prezzo che sono disposto a pagare. Alla mia età posso permettermi di rallentare. Quando ero giovane, convinto dalla potenza del dio del fare, pensavo che il moto perpetuo fosse l'unica ragione di vita e che il cambiamento avvenisse grazie alla frenetica successione di azioni. Ora ho imparato anche a stare fermo: forse il mondo non cambierà comunque, ma io non sarò certamente peggiore di quanto sia già.  

domenica 2 agosto 2015

pala o piccone

Qualsiasi costruzione costa lacrime e sangue. Ad esempio, " la costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un'altare di sabbia in riva al mare ". Vale indistintamente per beni materiali e immateriali. Così è per un grattacielo o per un ponte, come per un progetto formativo o per la programmazione di un settore giovanile. Ci vuole tempo, pazienza, fiducia. Il tempo é un valore variabile, può essere più o meno lungo, ma la fretta in genere é nemica del consolidamento. Pazienza e fiducia, invece, sono elementi indispensabili: bisogna credere in ciò che si fa anche quando non si vede luce ed evitare accuratamente i dispensatori di morte, coloro che non fanno mai mancare scoraggiamento e incitamento alla rinuncia. Demolire, invece, costa molto meno. In termini di tempo, ma anche di investimento morale ed emotivo. Si sta presto ad abbattere, basta chiedere consiglio ai bambini che della distruzione ne fanno un gioco. I bambini li capisco, le emozioni fanno parte dell'immaginario creativo. Devo ancora capire invece, alla mia quasi veneranda età, per quale motivo gli adulti ricorrano spesso a questa sorta di sadismo autoflagellante. Necessità di affermazione? Volontà di distacco dalla storia? Così ci inventiamo nuovi termini o nuove mode, crogiolandoci nella pia illusione di possedere qualità generative: in realtà nulla si crea, siamo solo inconsapevoli ripetitori di chi ci ha preceduto. In nome della modernità, abbiamo fatto sparire oggetti dalle case, palestre o uffici pensando che questo ci avrebbe aperto a nuovi orizzonti: in verità, sento molta nostalgia per le panche e i quadri svedesi che oggi servirebbero come allora. Sull'altare di una falsa idea di progresso, abbiamo sacrificato  e buttato a mare una miniera di conoscenze, persone e cose che ci avrebbero aiutato ad orientarci meglio in questi tempi malati, dove fatichiamo a riconoscere il falso dal vero. Ecco perché non trovo nulla di divertente, anche a livello sportivo locale, quando si specula sul nulla che sta avanzando. Non c'è bisogno di profeti di sventura, semmai di qualcuno che, rimboccandosi le maniche, senza fretta e con fiducia, riprenda a costruire dove altri hanno già posato le pietre. Partendo dalle fondamenta, non dal tetto. Pala, non piccone.