"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

lunedì 24 dicembre 2012

natale al buio


Sotto l'albero, stavolta, carbone. Carbone vero, non dolce. Come i bambini cattivi, che disubbidiscono ai genitori e ne combinano di tutti i colori. Soffro, come un leone in gabbia. Come uno scrittore senza penna o un musicista senza strumento. Mi muovo a tentoni e continuo a sbattere. Cerco di alzare la testa ma vedo solo nero. Ora capisco la fuga, il freddo, la grotta, il buio. Oltre la poesia, la lotta per la sopravvivenza. Siamo abituati ad un Natale sdolcinato e con il cielo pieno di stelle. Vero, é pur sempre un bambino che nasce. Ma c'è dell'altro: isolamento, paura, scoramento, resistenza. Non sempre le cose vanno come dovrebbero: non per questo ci spetta il fallimento. Nulla accade per caso, nemmeno la prova più dura e difficile. Non abbiamo occhi e saggezza per guardare oltre il nostro naso: un giorno, ciò che oggi vediamo in modo confuso, ci apparirà nitido. Non dico sia giusto soffrire. È giusto accettare la sfida. Non siamo diventati migliori quando tutto funzionava alla perfezione. Siamo diventati migliori quando siamo andati alle corde e abbiamo reagito. Come in un finale punto a punto: chi vince, si prende la partita; chi perde, se fa tesoro, si prende la prossima. Natale non è la festa della bontà: é il trionfo del debole contro ogni pronostico.

Auguri sinceri a tutti voi!

sabato 15 dicembre 2012

in mezzo al guado

Un baby boomer. Prodotto della rinascita e della speranza illuministica degli anni 60. Figlio della Zanussi, degli elettrodomestici e di un nuovo modo di vivere. Troppo giovane per togliere il disturbo, troppo vecchio per stare in campo. Troppo ingombrante per le nuove generazioni scalpitanti. Troppo presto per permettersi di riposare. In mezzo al guado, in sostanza né carne né pesce. Coetaneo di Barak Obama e di Moana Pozzi. Di Maria De Filippi e del campione Carl Lewis. A metá fra l'esplosione ormonale e la pace dei sensi. Permaloso al punto giusto. Pragmatico per evoluzione. Cercatore affannoso di tempo, come se quello andato fosse perduto e quello da venire insufficiente. Amante sfuggente della solitudine. Cresciuto con De Andrè e De Gregori, con Sergio Leone e Nanni Moretti. Con Carosello da piccoli, con Enzo Biagi da grandi. Aggredito e conquistato dalla tecnologia, materia acquisita mai posseduta. Alunno ribelle, insegnante severo. Giocatore generoso e scarsetto, allenatore apprensivo e scaramantico. Marchiato e inconfondibile. Carico di dubbi, privo di certezze. Vittima e responsabile, assieme a molti altri, di ciò che sta sotto gli occhi di tutti. Non del tutto colpevole, non del tutto innocente. Con alcune pagine ancora da riempire: c'è sempre tempo per rimediare. C'é una sola cosa da cui non si torna indietro.

domenica 9 dicembre 2012

panca atomica

Da sempre sono amante del Poz. Non tanto dei suoi tratti istrionici, quanto del suo modo di giocare. Davvero un atleta straordinario, capace di inventare pallacanestro e dare alla squadra un tocco di imprevedibilitá. Sono stato fra quelli che non hanno condiviso la scelta di Tanjevic di lasciarlo fuori dalla nazionale. Al di lá dell' apparente follia che lo ha reso celebre fra gli adolescenti, dovremmo ricordarlo per la bravura e la fantasia. Ciò premesso, non mi è piaciuta molto l'intervista post partita sulla Rai. È chiaro a tutti che non esistono modalità standard nell'interpretare il ruolo dell'allenatore. Per fortuna Messina é diverso da Trinchieri, così Scariolo non può essere accomunato a Pianigiani e così via. Siamo tutti felici di vedere la mosca atomica allenare in modo alternativo e leggiadro. Esistono però delle responsabilità: Poz dovrebbe sapere che i diritti e i doveri differiscono tra giocatori e allenatori. Non si può pensare di allenare facendo finta di non essere allenatori. È come se volessi fare il padre senza assumerne oneri e conseguenze. Così non si può liquidare con leggerezza l'assunzione di sostanze vietate. Se un giocatore sbaglia, non lo si aiuta negando i fatti. Nessuno giudica Young come persona, ma l'errore commesso non può essere sottaciuto. La stessa battuta "mi chiamano coach ma non mi giro" é stucchevole ma fuorviante: anche Poz prima o poi dovrà fare i conti con scelte dolorose, chi far giocare o lasciare in panca, oppure gestire e risolvere l'inevitabile scontentezza che si respira in una squadra. Che piaccia o no, i ruoli non possono essere azzerati. Faccio comunque il tifo per Poz in panchina. Una ventata anticonformista in un ambiente fin troppo formale non può che far bene. Fare l'allenatore, però, comporta spesso un prezzo alto da pagare: quello di non poter piacere a tutti. Spesso anche ai propri giocatori. E Poz, che come giocatore si è trovato piú di una volta in disaccordo con il proprio coach, dovrebbe essere il primo a saperlo. 

giovedì 29 novembre 2012

addio crisa

Ho fatto in tempo a conoscerti ed apprezzarti, ma non a salutarti. Oramai é un difetto: arrivo sempre tardi. Avrei dovuto dirti una serie di cose: che non ho ancora trovato un giocatore che passi la palla come te, nemmeno un tiratore del tuo calibro; che negli ultimi tempi mi sei mancato, la tua leggerezza dava sollievo alle mie paturnie maniacali. Sei partito giovane per Milano e giovane sei tornato: eri un ottimo giocatore, forse il più "bello" tra quelli visti in città. La carriera non ti ha dato quello che meritavi. Non ti sei mai pavoneggiato: non sono molti quelli che hanno potuto indossare le mitiche scarpette rosse. Ci siamo incontrati per caso: a noi serviva un allenatore, a te un'esperienza gratificante. Anni di vittorie ma anche di frustrazioni: ricordo le tue lacrime di Pesaro dopo l'eliminazione ai supplementari della nostra under 17. Gli allenatori di solito non piangono, si arrabbiano e masticano amaro. Ma tu eri così, in fondo non hai mai smesso di indossare le scarpe. Poi il diabete, la malattia, il vederti sempre più di rado e tristemente in tribuna. La vita ti ha preso più di quanto ti abbia dato, forse per pareggiare le nostre magagne di poco conto. Non so se hai sofferto di più per il dolore o per non aver potuto più fare ciò che davvero ti piaceva: dimostrare ai ragazzi il gioco della pallacanestro. L'ultima avventura insieme, Cassino 2011: dovetti cambiare camera, ricordi? Non riuscivo a dormire, anche di notte non era possibile ignorarti. Ora che hai trovato pace, non smettere di starci accanto. Tutti abbiamo imparato qualcosa: quando vedrò un bel passaggio saprò da dove viene. Addio Crisa. Se davvero esiste compensazione, ti cercheremo nei piani alti.

sabato 24 novembre 2012

divisi e contenti

Il quesito del giorno: meglio due squadre discrete o una buona? Io non ho dubbi, non ne ho mai avuti. Dieci giocatori promettenti devono allenarsi insieme: la concorrenza interna non può che favorire la crescita tecnica e mentale degli atleti. Un giovane interessante che si allena in un gruppo modesto acquisisce abitudini sbagliate: l'assenza di competizione rallenta lo sviluppo e illude sulla percezione reale delle proprie qualità. Attenzione peró: spesso, se non sempre, i giocatori migliori hanno bisogno di tempo. Lavorare in un gruppo al proprio livello permette di recuperare piú facilmente il terreno perduto. Ricordo Andrea Pecile, giocava nel gruppo B del Don Bosco Trieste: se fosse stato inserito nella squadra forte, lui piccolo e gracilino all'epoca, non avrebbe potuto sviluppare le doti che hanno fatto di lui, in un secondo momento, il giocatore che conosciamo. Ciò significa che le gerarchie non sono date una volta per sempre: un bambino che a 13 anni sembra un fenomeno, qualche anno può diventare un giocatore normale e viceversa. In pratica, fino ad una certa etá tutti dovrebbero giocare nelle squadre di appartenenza: giunti a livello under 16-17, i giocatori migliori - considerati tali in quel preciso momento e comunque non irremovibili - dovrebbero allenarsi e giocare insieme. A maggior ragione in una città o provincia che non può permettersi certi numeri. Penso sia giusto fare un ragionamento anche di appartenenza ad un territorio che ha una tradizione ed una scuola inconfondibili. Sparire dalle cartine geografiche nazionali in nome di una parcellizzazione del lavoro non può vederci soddisfatti: giocare per il predominio in città ha poco valore in confronto alla possibilità di misurarsi con i sodalizi più titolati. Non si può migliorare se non affrontando i migliori. Per il bene dei nostri giovani giocatori, le lotte di cortile dovrebbero lasciare spazio ad una programmazione di ampio respiro dove gli interessi di parte - comunque legittimi - passano in secondo piano rispetto alla volontà di unire gli sforzi. Pordenone ha tutto per stare davanti nel gruppo: società, allenatori, reclutamento, strutture. La storia degli ultimi anni racconta di finali nazionali e di giocatori approdati in prima squadra. Ecco perché faccio fatica a capire questa voglia di recessione: ci hanno copiato tutti in regione, ora, nel vederci in questo stato, si stanno sfregando le mani.

domenica 18 novembre 2012

cacciatore di guai

Quelli come me hanno una predisposizione innata a cacciarsi nei guai. Alcuni cromosomi in particolare sono sotto accusa: una ingenua sopravvalutazione nei propri poteri, una smisurata fiducia nell'essere umano, un'inguaribile speranza sull'aggiustamento naturale delle cose. Se esistesse una borsa genetica, li avrei giá messi in vendita e mi sarei comprato una maggiore prudenza nelle scelte, uno spiccato senso pragmatico e una bilancia virtuale dove pesare vantaggi e svantaggi. Capita raramente, ma capita, di osservare il mio vicino di casa che ogni venerdì, puntualmente, mette rigorosamente in fila il campionario famigliare di auto per il lavaggio settimanale. Mi chiedo chi stia meglio fra noi due: molto tempo fa non avrei avuto dubbi, fra un pomeriggio passato con lo straccio e un altro ad insegnare - velata presunzione? - l'arte del gioco. Oggi ho meno certezze di ieri: non é vero che invecchiando si acquista saggezza. Ero piú saggio quando lo ero di meno. Oggi ho piú domande che risposte: siamo ancora convinti che ci sia spazio per l'insegnamento? O meglio, é davvero cosí scontato che si voglia imparare? La mia testa era libera, ora frulla in continuazione di strani pensieri. Se la porta rimane chiusa, non puó esserci passaggio o trasferimento di idee, esperienze, parole. Ho paura di aver smarrito la chiave, quella che conduce dritta all'anima.

sabato 17 novembre 2012

tanti a pochi

Davanti a risultati "tanti a pochi" c'é bisogno di tatto e moderazione. Non é detto che i vincenti siano sanguinari e che i perdenti siano vittime innocenti. Nello sport la regola tacita, condivisa ovunque, impone che ciascun atleta esprima il massimo di sé durante la competizione. É certamente riprovevole perdere volontariamente per trarne conseguente beneficio, non certo vincere con grande distacco anche se puó comportare una certa frustrazione nei battuti. Un allenatore non puó dire ai propri giocatori di non impegnarsi: puó trovare espedienti didattici, ad esempio vincolarli a tirare solo da lontano oppure difendere a partire da metá campo. Può tenere in panchina i migliori e far giocare gli altri, ma non può certamente chiedere di non sudare o di sbagliare intenzionalmente. Allo stesso tempo, puó essere utile perdere pesantemente. Non é vero che prendere una bastonata sia necessariamente umiliante o dannoso. Giocare contro i migliori significa misurarsi ai massimi livelli: sta all'allenatore far capire ai propri giocatori che la sconfitta, anche se notevole, é solo un punto di partenza e non d'arrivo. Per assurdo, non ho difficoltá ad affermare che una partita non equilibrata porti maggiore vantaggio ai meno forti. Quando giocavo a carte con mio padre, la piú grande umiliazione consisteva nel lasciarmi vincere: preferivo perdere cento volte, ma quando vincevo ero certo di essermelo meritato. Quando i ragazzi che hanno subito una batosta vinceranno - e prima o poi succederá - sará gioia vera e incontenibile perché figlia di sacrifici e conquiste. Non sempre chi vince di 100 punti a 13 anni avrá un futuro assicurato. Parimenti, non ho ancora visto ragazzi smettere di giocare per aver perso di 100 punti. Non dico che sia normale, ma sono cose che possono succedere: l'importante é dare la giusta dimensione. E questo dipende in genere dagli adulti, perché i ragazzi, dieci minuti dopo la partita - per fortuna - son giá che pensano ad altro.

martedì 13 novembre 2012

lo sport é morto?

Voce che grida nel deserto. Non é il Battista, semmai Sandro Donati, ex sprinter di discreto livello, attuale membro della Wada, l'agenzia mondiale che si occupa del doping. Il suo ultimo libro, edito da Gruppo Abele, "lo sport del doping", é una denuncia documentata e senza mezzi termini del sistema corrotto e marcio dello sport di alto livello. Secondo l'autore, negli sport di forza e di resistenza nessun atleta olimpionico é pulito: si salvano le specialitá - con beneficio di dubbio - dove la destrezza e la coordinazione hanno un valore determinante ( scherma, tuffi, tiro ). L'aspetto piú inquietante é un altro: le istituzioni sportive, attraverso dirigenti omertosi e compiacenti, hanno favorito l'espansione del fenomeno quando avrebbero dovuto tutelare la salute degli atleti. Il comandante dei Nas, generale Piccinno, in occasione della presentazione del libro, ha denunciato un mercato del doping, in mano ad associazioni malavitose, che sta raggiungendo gradualmente le dimensioni di quello della droga. Il quadro é desolante: chi glielo dice ai nostri giovani atleti che il loro idolo é un imbroglione? Chi ci torna indietro le medaglie e i titoli vinti immeritatamente? E i titoloni sui giornali e le celebrazioni televisive? Di chi ci possiamo fidare? Come allenatore ho sempre e solo creduto nel valore della fatica e nell'etica del lavoro in palestra: ho sempre visto di malocchio perfino i semplici integratori idrosalini. Madre Natura ci ha dato l'acqua, ingrediente essenziale e piú che sufficiente. I nostri vecchi ci parlavano sempre di " polenta e  formaio " per diventare piú grandi e piú forti. Oggi dicono che senza aiuto non é possibile per nessuno resistere 20 giorni in sella a 40 di media. Amstrong, il ciclista, idolatrato dai media fino alla nausea, é stato cancellato come se non fosse mai esistito: solo adesso ci siamo accorti? Quanto facevano comodo le sue vittorie? Come mai il marcio salta fuori anni dopo e solo dopo testimonianze di altre atleti? Se per essere puliti occorre rinunciare alle medaglie e ai trofei, ben vengano delusioni e sconfitte a raffica. La prossima volta staró attento: guarderò il medagliere a testa in giú. 

venerdì 9 novembre 2012

la giusta distanza

" Gli orfani sono le reclute migliori ". Sono le ultime parole di M, capo di 007, prima di morire fra le braccia del nostro eroe. " La mia squadra ideale è formata da 10 orfani ": famosa uscita di Bobby Knight, grande e chiacchierato allenatore della NCAA. il concetto é identico e, onestamente, a prima vista risulta non poco discutibile. Essere privi dell'affetto e della presenza dei genitori non é certo un privilegio, semmai una condanna. Ovviamente ci troviamo di fronte ad una forzatura, ad un linguaggio diretto e colorito che, nella sua crudezza, nasconde comunque un filo di incontestabile verità. Spesso i genitori, inconsapevolmente o meno, creano dei danni irreparabili. Parlo di ció che conosco, quindi di sport. La presenza eccessiva ed ossessiva é deleteria per diversi motivi: i ragazzi sono portati a pensare che fare sport risulti gratificante non per sé stessi ma per i propri genitori; inoltre, i giovani atleti sono perennemente condannati a soddisfare le aspettative degli adulti. Questo é in assoluto il vero motivo degli abbandoni precoci: quando la spinta della famiglia viene meno, i figli non sono in grado da soli di trovare le motivazioni per continuare a fare sacrifici. Ci sono altre controindicazioni: quando un genitore svaluta la capacitá professionale dell'allenatore in presenza del figlio, pubblicamente o fra le quattro mura di casa, non fa altro che mettere in estrema difficoltá l'atleta in erba che diventa vittima innocente del gioco al massacro. Ci vorrebbe la giusta distanza, il rispetto dei ruoli, la fiducia reciproca. Spesso, invece, si assiste allo svilente e inesorabile spettacolo dell'orrore dove il piccolo atleta viene triturato dall'invadenza e superbia degli adulti. L'allenatore non dovrebbe mai punire un giocatore per colpe che non ha commesso: é altresì vero che i veri responsabili non sono perseguibili. " Voi potrete sforzarvi di essere come loro (i figli), ma non tentate di renderveli simili ": la pallacanestro non era ancora nata ai tempi di Gibran, ma la sensazione é che ci vedesse lungo. 

sabato 27 ottobre 2012

noi



Noi.
Noi che ci buttiamo nel vuoto senza paracadute. Che corriamo senza freni.
Noi che non riusciamo a stare zitti, che non impariamo mai a tacere.
Noi che diciamo sempre la veritá o, meglio, che non riusciamo a dire bugie.
Noi che non sappiamo mai dire di no e ci pentiamo un attimo dopo.
Noi che usiamo il sale al posto del miele.
Noi un libro aperto scritto con caratteri grandi. Noi inconfondibili.
Noi che non sappiamo perdere e, spesso, nemmeno vincere.
Noi che facciamo piangere e che piangiamo di nascosto.
Noi cattivi per amore e buoni per odio. Noi troppo orgogliosi.
Noi duri fuori e teneri dentro, mani fredde cuore caldo.
Noi perennemente scontenti. Noi romantici.
Noi senza speranza di salvezza, pessimisti cosmici.
Noi eroi un giorno e martiri un anno. Noi e nessun altro.
Noi.

martedì 23 ottobre 2012

cuore che vince

Chiamasi partecipazione. Senso di appartenenza. Con una parola grossa, amore. Non si va in millecinquecento a vedere una partita di promozione se non é amore. Questa é Treviso, risorta dalle sue stesse ceneri. Una città ferita, ma non distrutta. Con un progetto, una speranza, una voglia matta di riscatto. Giovani e vecchi insieme per risalire la china e tornare quelli di prima. Gli under 19 con Pittis e Coldebella e con un allenatore di sicura affidabilitá , Goran Bjedov, che ha accettato la sfida. È nelle difficoltà che ci si stringe e si fa quadrato: nell'abbondanza spesso ci si divide. C'é qualcosa oltre il denaro che puó muovere le persone verso traguardi impensati: una storia, un' identitá , un'anima. Ci sono stadi vuoti e palazzetti che non riescono a contenere tutti. Per una volta, la macchina mediatica perde il confronto con la passione e l'attaccamento. Non é la serie A, non sono i grandi giocatori: una volta tanto é il cuore a vincere.

mercoledì 17 ottobre 2012

male incurabile

Non mi sottraggo. Faccio parte della schiera che si nutre volentieri di vittorie e di sconfitte altrui. Non c'é da vergognarsi: nessuno ama perdere, nemmeno il nipotino che gioca a carte con il nonno quasi orbo e mezzo sordo. Non esiste medicina piú dolce della vittoria e piú amara della sconfitta. Possiamo rifarci al conte De Coubertin quante volte vogliamo, ma l'istinto rimane la prevaricazione, non certo la sottomissione. I bambini, i piú innocenti, sono i primi ad odiare la sconfitta: si puó cercare di attenuare il dolore pescando nel ricco mare degli alibi, ma nessuno piú dei piccoli sa fare bene i conti con i numeri. C'é chi ha fatto di piú e chi meno, la realtá é purtroppo immutabile. Quando giocavo con mio padre a ruba mazzetto non sopportavo la canzoncina provocatoria che accompagnava il gesto del furto e aspettavo con ansia il momento di riprendermi ció che mi era stato tolto. Siamo fatti per competere, per gioire e per piangere. La felicitá spesso si accompagna alla disperazione altrui e viceversa. Impariamo nel tempo a digerire e metabolizzare: ció non significa che diventiamo insensibili alle prestazioni. Semmai, rispetto ai bambini, ingoiamo maggiormente facendoci dei danni quasi irreparabili. Chi piange, in fondo, butta fuori di sé il dolore ed é come svuotato da possibili minacce. Chi assorbe e rumina, spesso non si rende nemmeno conto di quanto male accumuli e dispensi intorno. Non consiglio a nessuno - i miei familiari ne sono a conoscenza - di starmi vicino nelle ore immediate ad una sconfitta. Invidio i miei giocatori uscire sorridenti dagli spogliatoi: per me in genere comincia una brutta serata. Sotto sotto, siamo tutti giocatori d'azzardo che usano soldi falsi per rifarsi al gioco. Se fossimo sicuri di vincere, non ci sarebbe nemmeno gusto - a parte i corrotti ai quali piace "vincere" facile. Non esistono sconfitte dolci: ringrazio i gentiluomini e le gentil donne che spesso non risparmiamo complimenti anche quando si perde, ma farei volentieri cambio. Qualche insulto per una vittoria in piú: impagabile!

domenica 7 ottobre 2012

w bologna

Bologna mi piace. La Virtus mi piace. Mezza squadra sotto i vent'anni. Ci vuole coraggio, un bravo allenatore con vocazione formativa e un presidente - stravagante quanto si vuole - che investe sui giovani. Una squadra fatta non solo per partecipare ma per provare a vincere. A dimostrazione che la linea verde può anche dare buoni risultati. Moraschini, Imbrò, Fontecchio, Landi, Vitali: giocatori locali o raccolti in giro, fatti crescere in uno dei vivai migliori d'Italia con allenatori di primissima qualitá, Giordano Consolini in primis. Non sono di fede virtussina, ma questo progetto mi affascina perché va nella direzione giusta. Con la difficoltá di reperire risorse e, di conseguenza, persa la competitivitá in Europa - con unica eccezione Armani che continua a dissanguarsi - l'unica scelta possibile ed intelligente é puntare sui giovani talenti italiani. Negli altri paesi si fa giá da molto tempo, speriamo che la crisi economica - non tutti i mali - spinga molte societá di vertice ad invertire la rotta ed usare in modo sapiente i pochi denari a disposizione. In Turchia e Russia, ad esempio, hanno imposto la presenza in campo di almeno due connazionali: non é forse la scelta migliore, ma almeno é un tentativo di sviluppo del prodotto locale. I nostri giovani sono condannati spesso a scaldare le panchine o abbassarsi di categoria per giocare: l'eccessiva pressione sugli allenatori é la condanna a morte della pallacanestro italiana. Ora che la nazionale ha ripreso quota, occorre diventare egoisti e lungimiranti: ok Marconato,  Bulleri e Basile, colonne indiscusse di ieri, ma se esistono due palanche da buttare non ci dovrebbe essere alcun dubbio.

martedì 2 ottobre 2012

la corda

Dalla saggezza popolare: "se tiri troppo la corda prima o poi si spezza". In realtà, colpevolmente, nella mia insignificante storia me ne sono abbastanza infischiato. Rovinandomi spesso l'esistenza. Sarebbe tutto più semplice e liscio, guadagnando in salute e cerchia amicale. Purtroppo siamo fatti così, spesso peggio di quello che pensiamo d'essere. Irriducibili ed irrimediabili, abbiamo il pregio di non mollare mai: se dall'altra parte c'è qualcuno in bilico, non siamo tra quelli che lasciano facilmente la cima. Abbiamo un istinto filantropico: siamo disposti a farci del male pur di salvare qualcuno. Sindrome della crocerossina. Continuiamo ad essere incompresi: questo mondo scambia la dolcezza per amore e la durezza per odio. Così buono è sinonimo di bravo e cattivo di incapace. Ma non siamo cattivi: siamo solo arrabbiati. Siamo nervosi perchè non riusciamo ad accontentarci. E poi, cosa significa buono? Che tutto ciò che passa sotto gli occhi o entra nelle orecchie deve per forza piacere? Indossiamo l'elmetto ma non siamo violenti: cani che abbaiano ma non mordono. Specie in estinzione o demodè? Forse entrambe. Oggi si deve stare attenti a quello che si fa e si dice. Ma quello che vedo e che sento mi lascia perplesso. In verità, abbiamo solo una  definita vocazione all'autodistruzione: continuiamo a tirare, fregandocene delle conseguenze.

martedì 25 settembre 2012

capitani coraggiosi

Premessa: nulla di personale con Gianni Petrucci. Mi chiedo: è più giusto affidarsi ad un uomo di grande esperienza o tentare la carta della novità, della netta separazione con il passato? Le minestre riscaldate e i grandi ritorni non hanno mai avuto successo. Shevchenko ad esempio. C'è un altro aspetto che non mi convince: la politica sportiva, per quanto inevitabilmente politica, dovrebbe seguire canoni e logiche diverse da quella tradizionale. Se al Parlamento festeggiano gli anni di permanenza, nello sport dovremmo preoccuparci. Le discipline e gli atleti sono in continua evoluzione, perchè non dovrebbe esserlo anche il governo? Vero che l'uomo del cosiddetto cambiamento, Dino Meneghin, alla fine ha prodotto meno di quanto ci si aspettasse. Vero, oltretutto, che non esistono grandi margini per una rivoluzione all'interno dei labirinti federali. I problemi sono sempre gli stessi: reperimento di risorse, capricci dei club, movimento giovanile che annaspa, nazionali che fremono ma con poco spazio, società minori che faticano a sopravvivere per costi assurdi, premi di incentivazione da rivedere. Presentata la serie A: gli atleti stranieri saranno più numerosi di quelli italiani. No al razzismo e alla conservazione forzata della specie, però è un dato che fa riflettere. Ci vuole più coraggio. Da parte della federazione nel premiare chi davvero aiuta a crescere la pallacanestro. Da parte delle società, nello scommettere sui giovani. Da parte degli allenatori, nel metterli in campo. Da parte dei giocatori, nell'accettare ingaggi più adeguati alle circostanze. E' il tempo dei fatti, non dei proclami. Chiunque sarà alla guida, dovrà dare segnali precisi di svolta. Dare risposte convincenti non solo a chi vive nei piani alti, ma a chi frequenta i sotterranei dove si fabbrica la materia prima. Pochi soldi? Bene, è giunto il momento di non sprecarli.

venerdì 21 settembre 2012

ovunque e sempre

Ho avuto la fortuna di ascoltare Deborah Compagnoni grazie a pordenonelegge. Campionessa prima ed ora. Come già detto da altri, in una parola, disarmante. Nessun accento, nessuna boria, nessuna traccia di nostalgia. Ha vinto tutto quello che c'era da vincere, eppure quei trionfi sembrano una parentesi nella vita di una donna che ha scelto la normalità come compagna di viaggio. Erano i tempi di Alberto Tomba e del boom dello sci azzurro: non perdavamo una manche, incollati al video, sperando nell'accoppiata dei due eroi sportivi. Così invincibili, così diversi. Istrione e televisivo lui, schiva e anti-diva lei. Tempestata da mille infortuni, si è rialzata ogni volta tornando più forte di prima. Una fenice di montagna. Fantastica nel disincanto quando ammette che non avrebbe voluto partecipare alle prime olimpiadi - poi vinte nettamente - per l'eccessivo tasso di pressione addosso. La nonna la proteggeva dai giornalisti mentre lei si nascondeva in camera. I successi si costruiscono soprattutto con le piccole cose, quelle che si vengono a conoscere in un secondo tempo. Poi affonda il coltello, sempre con il sorriso sulle labbra, e riconosci la donna grintosa, quella che non si è mai arresa e che lottava per vincere: un campione, dice, prima di tutto è una persona, non un personaggio. Messaggio alle contemporanee: ok gli sponsor - male inevitabile - ma occorre imparare a difendersi. La competizione non ammette distrazioni. Parola di chi, quando ha spento la luce, non l'ha più riaccesa: si è campioni ovunque e sempre, anche nell'intimità della casa, fra pianti e piatti.

venerdì 14 settembre 2012

sani e ignoranti

L'ultima invenzione della scuola italiana: voto orale in educazione fisica. Cerco di immaginare la scena: un gruppo ristretto di colleghi cravattati e distaccati al ministero che crede davvero di aver scoperto l'america. Sul tavolo qualche bottiglia vuota: non si possono partorire certe idee se non sotto l'effetto dell'alcol. Grandi festeggiamenti ed abbracci: la materia è salva, finalmente ha la sua dignità! L'insegnante non distaccato - colui che lavora in trincea e che indossa l'elmetto - ha invece poco da ridere. Chi sta peggio sono gli alunni: le due ore settimanali - di per sè già ridicole al cospetto di altre nazioni - dovranno fare spazio a spiegazioni, interrogazioni, compiti. Coloro che pensano che l' educazione fisica - oggi scienze motorie! - possa acquistare maggior peso da una colonna in più nella pagella, vivono decisamente fuori dal mondo. Chi ha confidenza con le palestre sa perfettamente che i ragazzi di oggi hanno bisogno di qualsiasi cosa fuorchè di teoria. Non hanno bisogno di sapere cos'è la respirazione: hanno bisogno di imparare a respirare bene. Non hanno bisogno di conoscere il rugby. Devono praticarlo. Alle scuole superiori la mortalità sportiva è impressionante: quasi il settanta per cento degli alunni non pratica nessuna attività motoria durante la settimana. Noi cosa facciamo? Riduciamo le ore pratiche per riempire la testa di nozioni inutili. I nostri successori saranno condannati ad avere crani enormi ed arti ridotti ai minimi termini. Nell'era digitale, dove l'unica esperienza motoria si traduce spesso nel movimento rapido e isterico delle falangi, tagliamo ulteriore tempo prezioso alla costruzione dell'io corporeo per regalare informazioni che nella maggioranza dei casi non verranno utilizzate. Diverso discorso se avessero aumentato le ore di insegnamento, ma, è risaputo, per la scuola non ci sono soldi: immaginarsi per gli insegnanti di ginnastica! Ciò che rimane - pur non essendone pienamente sicuro - è la libertà di coscienza. Non starò al gioco al massacro: ai miei alunni ho già detto che li interrogherò durante le esercitazioni. Non c'è tempo da perdere: non ho intenzione di pagare maggiori costi sociali per lo stato di salute della nostra gioventù. Più ignoranti, forse, ma certamente più sani. Non ho dubbi su cosa sia, in questo momento, più importante.

venerdì 7 settembre 2012

entra ed esci

Dico sempre a me stesso che questo è l'ultimo giro. Prendo armi e bagagli e mi metto dall'altra parte della barricata, dove si guarda e si parla - sparla? -. Poi sento l'odore - profumo? - inconfondibile della sfera e il rumore - suono? - di quando picchia sul ferro. Questa è la fregatura: sono le cose apparentemente inutili e insensate che ci tengono appesi al chiodo. La parte sana vorrebbe serate libere da impegni, da dedicare a concerti, teatro, e, perchè no?, qualche bella conferenza. La parte malata vuole un animale intento a sbraitare e lottare perchè ogni goccia di sudore vada a buon fine. Chi fa questo mestiere, per professione o per passione, sa che non deve aspettarsi due ore, nemmeno centoventi minuti, semmai settemiladuecento secondi. Da pivello guardavo i movimenti, la pulizia gestuale: ora mi concentro sull'espressione del viso. La faccia giusta: non c'è requisito migliore. Dodici facce giuste valgono più di mille talenti. L'Italbasket di questi giorni sta a dimostrarlo. Non c'è salvezza, non c'è riparo, non c'è mezza via. O ti butti o non ti butti. O fai o non fai. Sapendo dal primo istante che verranno commessi un sacco di errori e che non saranno perdonati. Ci vuole autolesionismo per entrare in palestra. E' quando esci che trovi la spiegazione.

giovedì 6 settembre 2012

pillole antidepressive

" Quando arrivi ad una certa età e hai vissuto tante esperienze, nell'anima hai una specie di limitatore di felicità. 
 Ecco, forse oggi l'ho sfondato, la lancetta è andata oltre ".
Alex Zanardi - ex pilota - campione paraolimpico handbike

" L'atletica mi ha dato un concetto diverso della vita. 
Ora ho capito meglio quanto sia bello vivere ".
Annalisa Minetti - ex Miss Italia - cantante - medaglia di bronzo paraolimpica 1500 metri

" In pedana ho provato sensazioni bellissime. 
Mi è sembrato di tornare a vedere, di vivere quell' attimo, nella prima carriera, in cui chiudevo gli occhi nel massimo sforzo.
 Ma adesso é tutta un'altra cosa, sono una ragazzina all'esordio, l'Assunta di prima non c'è più ".
Assunta Legnante - già atleta normodotata - campionessa paraolimpica getto del peso non vedenti

martedì 4 settembre 2012

abili dentro

Ha detto quello che in molti pensano. In questo è migliore di tanti altri. Per tutto il resto, preferisco il ragionier Fracchia a Paolo Villaggio. Spesso le maschere sono migliori degli uomini. " Le paraolimpiadi di Londra fanno molta tristezza, non sono entusiasmanti, sono la rappresentazione di alcune disgrazie e non si dovrebbero fare perchè sembra una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia ". Ci vuole coraggio per dire certe cose, soprattutto queste. I meriti finiscono qui. Bisognerebbe chiedere agli ottantamila dello stadio olimpico cosa ne pensano veramente. Vedo gente che non vede con delle abilità motorie impressionanti: i miei alunni normodotati non sono in grado di competere a quel livello. Vedo gente senza gambe esprimere una forza fuori dal comune. Ma soprattutto vedo gente che non si vergogna a gareggiare per una medaglia o per un titolo mondiale. La disgrazia sta nella ghettizzazione, nel falso pietismo della reclusione, nell'isolamento, nell' indifferenza. C'è più forza in Lebron James che vola in aria o in chi riesce a fare un tiro da 3 punti stando seduto su una carrozzina? Qualcuno ha addirittura ipotizzato che Oscar Pistorius potesse essere avvantaggiato dalle protesi: infatti, da questo momento tutti si spaccheranno le gambe pur di aver le molle e vincere alle normolimpiadi! La parabola - ed il paradosso - di Alex Zanardi è la vera risposta all'ignoranza sull'argomento. L'ex pilota torna a correre sullo stesso circuito dove gareggiava a bordo della sua monoposto. Incredibile: dapprima andava a motore. Disabile, usa le sue braccia per battere gli avversari. " Non mi sono mai accorto delle salite negli autodromi, ora dovrò farci i conti ". Avrebbe potuto ritirarsi a vita privata e compiangersi: ha scelto nuovi stimoli. In questo Villaggio si sbaglia: la differenza non è in ciò che appare, ma in ciò che è dentro. Forse Zanardi è più atleta oggi di ieri.

giovedì 30 agosto 2012

bravo comunque


Guidolin è un bravo allenatore. Soprattutto un uomo vero. Nella consumazione del dramma non ha accampato scuse, non ha cercato alibi. Il giorno peggiore della carriera si è trasformato in un atto di accusa a se stesso. In questi casi il copione salvavita è in genere lo stesso: squadra giovane, senza esperienza internazionale, rifatta quasi interamente, partenze non sostituibili, malasorte ed altro ancora. Con lucidità e franchezza ha riconosciuto i meriti dell'avversario e dopo un rigore sciagurato si é preso totalmente la responsabilità della sconfitta. Un uomo che da sempre si imbarazza davanti alla telecamera, strumento di tortura moderno purtroppo inevitabile. Insofferente e sofferente, in questi giorni ha varcato definitivamente la soglia del dolore. Le sconfitte, per gli allenatori, sono piccoli sorsi di veleno ai quali apparentemente è possibile abituarsi ma dove l'anima, pian piano, si appassisce. Capisco la sua voglia di chiudere, di andarsene a casa: lo sport è crudele, non fa prigionieri. C'è un lato dello sport che fa male. A giugno voleva mollare: l'affetto della gente e il masochismo tipico della categoria hanno rimandato tutto. Il tarlo resta dentro: nemico invisibile, rode nel silenzio e riappare quando il mondo crolla. A volte bisogna fermarsi: mentre il circo danza, occorre pensare a se stessi prima che sia troppo tardi. Non c'è nulla di male ad arrendersi se prima si è lottato con ogni forza. Non si affronta un esercito da soli. Cos'è che uccide lo sport? La necessità di valere. L' uomo libero è colui che non deve dimostrare nulla.

sabato 25 agosto 2012

buon mattino

È ancora presto per pensare che l'Italia del basket si trovi fuori dalle secche degli ultimi anni e che possa aver intrapreso un percorso di lenta ma progressiva guarigione. Le contendenti non autorizzano facili trionfalismi: a parte la Turchia - che non schiera gli americani - non esistono nazionali in grado, per tradizione e talento, di impensierire gli azzurri. Pagato il debito con l'onestà, non si possono però nascondere meriti e cambiamenti sostanziali. Il primo aspetto che salta all'occhio è l'atteggiamento giusto con il quale affrontare le gare: umiltà, massima concentrazione, solidità. Virtù essenziali se si vuole fare strada in assenza di grande talento. Una squadra operaia, dove tutti sono disposti ad aiutarsi sia in attacco che in difesa. Un gruppo affiatato stretto intorno al suo leader tecnico e carismatico che risponde al nome di Danilo Gallinari. Spendo due parole su questo giocatore fantastico: mai una parola o un gesto fuori posto. Pur non essendo in ottime condizioni fisiche, si è messo a disposizione facendo ciò che serve alla squadra: meno tiri dal perimetro, più presenza in area. Un esempio al quale si spera possano guardare i due grandi assenti d'oltreoceano. Gli altri giocatori hanno trovato nella nazionale quello che è mancato nei club di appartenenza: gente con molta voglia di riscatto, diventata improvvisamente un fattore nelle sapienti mani dell'allenatore. Ciò dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, che ai nostri non manca nulla se non l'esperienza internazionale che altri maturano nei loro paesi fin dai primi anni post- giovanili. Pianigiani è il valore aggiunto: se qualcuno voleva una conferma al buon lavoro svolto a Siena, eccolo servito. La squadra gioca bene e nessuno esce mai dallo spartito: quando si è consapevoli dei propri limiti, la soluzione va cercata insieme evitando iniziative solitarie. È ancora presto, ma questo è lo spirito giusto. Per giocare una finale olimpica - come ad Atene 2004 - la strada è ancora lunga. Intanto accontentiamoci di aver imboccato la direzione esatta. Il buon giorno, spesso, si vede dal mattino.

lunedì 20 agosto 2012

perfino i beatles

"Se fai del bene e ti aspetti gratitudine, meglio che lasci perdere". Ogni tanto va rispolverata l'antica saggezza popolare. In fondo, i nostri vecchi volevano solo proteggerci. Se vogliamo vivere bene, ciò che siamo e facciamo deve essere un regalo. Quando ti aspetti qualcosa in cambio, è la volta che un tarlo ti penetra dentro e ti mangia lentamente la felicità. È quello che potrebbe succedere anche a me: dopo tanti anni di passione, lotta e sacrifici, ti aspetteresti qualcosa. Un gesto. Una parola. Qui sta l'errore: infatti, non c'è migliore ricompensa del tempo e delle cose vissute realmente. Nessuno potrà privarmi della soddisfazione di aver visto bambini diventare adulti: prima giocando, poi facendone una professione. Nessuno potrà cancellare le vittorie - come le sconfitte - , i trionfi, i riconoscimenti, gli incontri, gli abbracci. La faticosa costruzione di un edificio, talmente traballante, da non aver resistito alle intemperie. Da romantico quale sono, non mi sono preoccupato delle fondamenta, ma solo di andare in alto: errore imperdonabile, le radici valgono più dei rami. Questo è quel che resta: ma vale molto e non lo venderei per nulla al mondo. Come tutte le belle storie, anche questa ha un inizio e una fine. Per fortuna - o purtroppo, a seconda di come la si veda - nulla dura in eterno. E nessuno è indispensabile. Del resto, perfino i Beatles non esistono più.

lunedì 13 agosto 2012

riga e fila

Dovevano vincere e hanno vinto. Onore e gloria agli americani, ma questa medaglia d'oro, peraltro meritata, non mi fa cambiare idea. Non mi piacevano all'inizio, non mi sono piaciuti alla fine. Duecentosette punti segnati in quaranta minuti e in una finale olimpica sono comunque un ottimo spot per il basket: un partita bellissima, quasi una replica di Pechino 2008. Gli spagnoli sono eroici: lottano sempre, soffrono in silenzio e non mollano mai. Semplificando molto, la Spagna attacca insieme, gli Stati Uniti uno alla volta: da una parte il collettivo, dall'altra il talento, chi sta in riga e chi in fila. Non che gli iberici non abbiano qualità: tutta gente che gioca, ha giocato o giocherà oltreoceano, ma, grazie a Dio, si esprimono all'europea. Coralità, armonia, ritmo: peccato non siano italiani, l'unico esistente non può che stare in panchina. Il migliore giocatore al mondo è Pau Gasol: in pratica, sa fare tutto. Fa canestro in mille modi diversi, passa la palla divinamente, legge le situazioni in maniera impeccabile. Gioca vicino a canestro per ragioni somatiche, ma potrebbe stare dappertutto. Un giocatore totale, bellissimo da vedere. Dopo aver preso una graffiata da Lebron James, non ha fatto una piega e si è rimesso in pista: alla faccia di chi lo accusa di leggerezza agonistica! Degli americani, chi mi é dispiaciuto meno è stato Bryant: è stato decisivo nei momenti chiave ma non ha ostentato nè si è esibito con atteggiamenti divistici. Una grande prova di maturità: mentre gli altri si lasciavano andare a gesti plateali, lui andava ad abbracciare il grande compagno sconfitto. Una bella fotografia olimpica. Ai commentatori televisivi vorrei ricordare che lo scarto è stato minimo e che questo strapotere a stelle e strisce non sono riuscito a percepirlo: se Durant non fa una percentuale strepitosa da tre punti, forse staremmo qui a parlare di debacle inaspettata. Ai giovani, incantati dalle prodezze più atletiche che tecniche, suggerirei di imitare l'imitabile: c'è chi salta e chi finta, chi schiaccia e chi appoggia. Fortunatamente, almeno nello sport, non esiste dittatura. Le Bron James ve lo lascio volentieri. Mi tengo Juan Carlos Navarro. 

venerdì 10 agosto 2012

idem come prima

C'è un prima e dopo Josefa. In mezzo nove olimpiadi, più di trent'anni di agonismo, una collezione infinita di trofei. E sconfitte, perchè nessuno, nemmeno lei, può dirsi invincibile. Ha lottato fino all'ultima gara: ne sanno qualcosa le atlete - sue figlie putative? - che, per lasciarla dietro, hanno dovuto sputare sangue. Una carriera pazzesca, costellata di sacrifici, ma anche di grande soddisfazione e divertimento. Non si arriva a quarantotto anni suonati alle olimpiadi senza piacere nell'allenarsi e gareggiare. Una famiglia sacrificata sull'altare della canoa: marito allenatore, figli immancabili tifosi. Le ultime parole da agonista sono per il suo paese adottivo: " abbiamo purtroppo la cattiva abitudine di farci male da soli ". Proprio così: i nostri diamanti li nascondiamo o li perdiamo per strada. Oppure non ci accorgiamo neppure di averli. L'errore più grande è quello di mettere in soffitta gli atleti che hanno fatto la storia sportiva nazionale: non é una novità, purtroppo, che dopo lo sfruttamento agonistico non ci sia un ritorno prezioso per il movimento sportivo. Mennea e Simeoni ne sanno qualcosa. Gli atleti non muoiono il giorno del ritiro dalle competizioni: hanno moltissime cose da insegnare, soprattutto alle nuove generazioni. Non c'è discorso migliore della testimonianza di un atleta vero. È una bella storia quella di Josefa Idem, di quelle che fanno commuovere. Che non possiamo permetterci di dimenticare. Al diavolo se troppo romantica: voglio usare bene le mie lacrime.

giovedì 9 agosto 2012

sostenibile leggerezza

Stefano Baldini vinse ad Atene la maratona e giunse dodicesimo quattro anni dopo a Pechino. Tutti speravano nella replica trionfale. Giunto al termine, disse addio all'agonismo. Da campione olimpico qual' era, accettò la sconfitta. Difficilissimo rivincere, ma lo é ancor di più perdere dopo aver vinto. Così é successo a Schwazer: nella sua testa era concepibile solo la medaglia d'oro. Un tarlo che altri hanno contribuito a ficcargli nella testa: pressioni, aspettative, digiuni troppo prolungati per una federazione, quella dell'atletica, abituata a raccogliere sempre qualcosa nelle specialità di fatica. Vedere Tania Cagnotto e Vanessa Ferrari con la medaglia di legno e le lacrime agli occhi, fa tenerezza ma anche rabbia: quarto posto alle olimpiadi, perchè dovrebbe essere un fallimento? Questa assurda ossessione per le medaglie sta distruggendo i nostri atleti migliori. Chissà come mai tutti quanti chiedono una pausa agonistica o minacciano addirittura il ritiro. In Italia tutto viene maledettamente drammatizzato: chi vince é un eroe, chi arriva quarto è un signor nessuno. Senza considerare, naturalmente, che ci sono avversari altrettanto agguerriti e preparati. Un decimo di secondo, un millimetro, un piattello, una stoccata: questa la differenza tra la gloria e la gogna. La realtà è un'altra: chi arriva alle olimpiadi é già un campione e non deve dimostrare nulla. Dovrebbe essere un'esperienza unica e irripetibile, ma per alcuni diventa un incubo. Non voglio assolvere Schwazer: l'ha fatta troppo grossa. C'ero anch'io tra quelli che ascoltavano l'inno mentre si alzava la bandiera. Oltre a se stesso e i propri famigliari, ha tradito un popolo intero. Però questo triste e increscioso episodio deve insegnarci qualcosa: il successo passa attraverso la leggerezza. La leggerezza di Josefa Idem che a 48 anni suonati, due figli e otto olimpiadi, riesce ancora a trovare il gusto di allenarsi e gareggiare. E se non é arrivata la medaglia, pazienza. Per noi rimarrà per sempre un grande esempio, come atleta e come donna.

martedì 7 agosto 2012

provocazione


" Lo sport si sta rendendo sempre più ridicolo. 
Liberalizziamo il doping o aboliamo l'agonismo. 
Non vedo altra via d'uscita. ''

Reinhold Messner sul caso Schwazer

lunedì 6 agosto 2012

tricolore a pezzi

Siamo abituati a scandalizzarci degli altri. Stavolta tocca a noi. Il virus ce l'abbiamo dentro e porta il nome di Alez Schwarzer. Non uno qualunque, il campione olimpico della 50 km di marcia a Pechino. Ci mancava solo questa: dopo il calcio scommesse, la vergogna del doping. Non esiste cosa peggiore nello sport: quello che hanno fatto i cinesi - perdendo apposta nel badminton per avere un incrocio migliore - in confronto assomiglia ad una piccola bugia infantile. Come siamo orgogliosi e commossi quando si alza il tricolore e viene intonato l'inno, altrettanto dobbiamo essere schifati di fronte ad episodi inqualificabili che tradiscono l'anima di un popolo e lo spirito olimpico. Tutto ciò che di buono si è fatto viene cancellato in un istante. L'immagine nazionale ne esce irrimediabilmente scalfita: siamo di fronte ad una mela marcia o dobbiamo sospettare di tutta la merce? Chissà quanta gente, insieme al sottoscritto, ha esultato nel vedere il marciatore trionfare alle olimpiadi cinesi: tornaci le lacrime, Alex, che ci servono per piangere altrove, magari per Tania Cagnotto che dopo due legni ha avuto la forza e la dignità di prendersela con il fato e non con i giudici. Le tue parole di ammissione ti fanno un uomo sincero, ma non degno di onore. Vogliamo medaglie pulite, sudate, guadagnate con anni di sacrifici e rinunce. Hai scelto il modo peggiore per uscire di scena: purtroppo la non accettazione della sconfitta ti ha condotto verso il baratro. La stessa ansia da prestazione che ha buttato a fondo i nuotatori azzurri. In una giornata triste per lo sport azzurro, mi piace ricordare Matteo Morandi che di sconfitte se ne intende: dopo due olimpiadi a secco, finalmente se ne torna a casa con il meritato premio. Della serie: le legnate non mi hanno steso, mi hanno reso più forte.

sabato 4 agosto 2012

dream team style

Gli americani del basket non mi piacciono. Probabilmente vinceranno la medaglia d'oro ma  il mio giudizio non subirà variazioni. Superficiali, sciatti, presuntuosi, boriosi. Il Dream Team del 92 stravinceva ma aveva un altro stile. Soprattutto convinceva l'atteggiamento con il quale affrontava gli avversari: massimo impegno, totale rispetto. Mi perdoni coach K, di cui ho la massima stima, ma al momento non vedo un gioco corale, una chimica dove tanti campioni sanno usarsi a vicenda. Vedo talento, molto talento, dove straordinari interpreti del gioco sfilano sul palco in forma distinta e separata. Uso infinito del tiro dalla distanza, poca se non nulla applicazione difensiva. Tante pacche sulle spalle, tanti gesti d'apparenza, ma in fondo ciascuno cerca più la gloria personale che il successo comune. Non proprio un grande spot per la pallacanestro: ai ragazzi che guardano le olimpiadi consiglierei di seguire altre squadre, dove il concetto di gioco collettivo mette in secondo piano la prodezza individuale. Purtroppo si perde il pelo ma non il vizio: gli statunitensi da sempre si credono i migliori e considerano le qualificazioni come un'inutile perdita di tempo. Sembra che non abbiano ancora imparato dai propri errori. Faccio i miei migliori auguri al team Usa, ma mi troveranno sempre dall'altra parte: la simpatia non è un obbligo, ma in certi casi potrebbe tornare utile. A proposito: non mi é piaciuto nemmeno l'altro dream team, quello azzurro del fioretto femminile. Non si balla prima di chiudere l'assalto. La sfrontatezza che conduce al trionfo è la stessa che ti rende indigesto. La legge, condivisa universalmente, della reciprocità, dice una cosa semplice: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Attenzione, c'é sempre una rivincita e, da quello che ne so, anche i balli russi sono spettacolari!

giovedì 2 agosto 2012

torre in cielo

Giuro di sapere molto poco di kayak e, ancor più colpevole, di Daniele Molmenti. Una cosa la so: era dai tempi di Alberto Tomba che non provavo certe emozioni e che non perdevo la voce davanti al video. Il ragazzo di Torre di Pordenone ( come la Trost: che sia l'acqua?) - così hanno ripetuto fino alla noia - ha compiuto un'impresa: quasi mai, infatti, alle Olimpiadi vincono i favoriti. Basta un secondo per buttare al vento quattro anni di duro lavoro: ne sa qualcosa il nostro campione locale che a Pechino saltò una porta e se ne tornò a casa a mani vuote. Appariva baldanzoso alla vigilia - infastidendo un pò la necessaria prudenza sportiva - nel predire la vittoria: dalle parole ai fatti, non è da tutti! Stessa scuola di Barbara Nadalin, purtroppo mancata prematuramente poco tempo fa: non posso non pensare, anche se ingenuamente, che ci sia un'attinenza, quasi un contatto fra la tragedia e il trionfo. Ennesimo prodotto dell'allenatore cordenonese Mauro Baron, ottimo scopritore e costruttore di talenti. Un oro olimpico preparato e conquistato all'estero: com'è possibile che a vent'anni dalla vittoria di Barcellona di Ferrazzi - mitico predecessore e attuale direttore tecnico - non ci sia ancora un canale artificiale in suolo italico dove allenarsi? L'immagine più bella rimane quella del podio: Daniele che addenta la medaglia come un bambino la merenda. Noi non potremo mai sapere quanto è costato quell'oro al collo. Nessuna lacrima, tanti sorrisi: in fondo siamo alle Olimpiadi, non ad Hollywood!

martedì 31 luglio 2012

giochi di prestigio


Quello che è successo a Londra nella ginnastica artistica – concorso a squadre  - è sbalorditivo ed inquietante. Dalle nostre parti si direbbe “pezo  el  tacon del buso!” In estrema sintesi, dopo un pessimo ed ultimo esercizio al cavallo dei giapponesi, da secondi si ritrovano quarti. Gran Bretagna incredibilmente argento – vorrei vedere se fossimo stati altrove - , Ucraina sorprendentemente ma meritatamente terza. Ma qui si consuma la beffa olimpica: i nipponici fanno ricorso, viene accolto, tornano secondi. Gran Bretagna retrocessa, Ucraina – senza santi protettori in cielo – fuori dalle medaglie. Uno scandalo vero e proprio, un furto con scasso in pieno giorno. Il gol non convalidato a Muntari, in confronto, è una barzelletta. Perché? Perché l’esercizio era già stato attentamente valutato: c’era forse bisogno di tornarci sopra? Episodio molto simile con le italiane dei tuffi: per fortuna Cagnotto padre, vero signore, ha evitato code polemiche preservando la concentrazione della figlia per il proseguo delle gare. Nel recente passato, anche alle azzurre della ritmica è toccato in sorte – ma è proprio casuale? – lo stesso beffardo trattamento. Le discipline con valutazione sono da sempre un problema per lo sport: il potere dovrebbe essere lasciato all'atleta, non ad altri. Anche gli arbitri possono condizionare un incontro ma non possono impedire ad una squadra di fare canestro o goal. Un giudice, al contrario,  ha facoltà illimitate: è sufficiente vedere i numeri assegnati ai tuffi per capire quanto sia ampio lo spettro valutativo. E’ come un compito di italiano: gli errori di grammatica sono scientifici, ma la forma e i contenuti sono discrezionali. Senza nulla togliere alle qualità sportive degli ospitanti, anche un bambino si sta rendendo conto che le speranze dei britannici sono maggiormente legate alle discipline dovei giudici possono lavorare sui decimi. Nel basket, ad esempio, l’arbitro può non fischiare un fallo ma non può non convalidare un canestro: per questo, ma non solo, per gli inglesi non c’è speranza. Perfino nei 100 metri, nessuno può fermare Bolt se non sé stesso: difficile imbrogliare dove la variante è il tempo. I cittadini di oltre Manica hanno perso il loro abituale aplomb: poca gloria al momento. Ma non si preoccupino: da qualche parte, in qualche modo, un aiutino arriverà. Per la felicità della Regina e per l’incazzatura del resto del mondo.

lunedì 30 luglio 2012

grandangolo

Ettore Messina ha lanciato l'ennesimo sasso. Come sempre, l'uomo dimostra di essere qualche anno avanti tutti. Il campo di gioco, a suo modo di vedere, è diventato troppo piccolo. Nella pallacanestro del terzo millennio, dominata dalla fisicità e dall'esasperazione atletica, sarebbe il caso di riconsiderare le dimensioni del terreno di gioco. Siamo di fronte ad una proposta poco realizzabile: un conto è ridisegnare le linee interne, un altro é ingrandire il campo. La quasi totalità degli impianti italiani non sarebbe in grado di espandersi oltre. Eppure la provocazione è stucchevole: per ridare  centralità all'aspetto tecnico del gioco, occorrerebbe dilatare gli spazi per favorire gli attacchi e indebolire le difese. In particolare, il campo andrebbe allargato più che allungato. Con un metro in più, sarebbe possibile aumentare la distanza fra i giocatori con due benefici immediati: maggior utilizzo del gioco interno, vicino al canestro, e ridotto uso del tiro dal perimetro a favore delle penetrazioni a canestro. Meno tiro a segno e più capacità nel muovere la palla. Le nostre palestre sono quasi tutte scolastiche: impensabile  modificarne le dimensioni. Non sarebbe però assurdo fare qualche esperimento in campionati e strutture di alto livello - ad esempio l'eurolega - per verificare la bontà della proposta. La pallacanestro è uno sport in evoluzione ed occorre essere continuamente pronti a fare le modifiche necessarie per salvaguardare l'essenza del gioco. In un campo di dimensioni ridotte, è sufficiente essere grandi e grossi per cavarsela: non é un caso, quindi, se i nigeriani - per quanto meritevoli - sono riusciti ad eliminare i greci. Un campo più grande costringerebbe anche i guardiani dell'area a muoversi maggiormente. Se vogliamo che sia ancora la tecnica e il talento a prevalere, qualcosa dobbiamo inventarci. Di partite che finiscono 48-46 ne ho piene le tasche.

mal di celebrità

Federica Pellegrini rappresenta l'emblema di come sia possibile distruggere un campione nell'era post-moderna in suolo italico. Naturalmente nemmeno l'atleta è esente da colpe. Gossip, pubblicità, interviste, partecipazioni ad eventi: nessuno può convincermi che tutte queste distrazioni non incidano sul profilo agonistico della nuotatrice. Il personaggio può piacere o meno: personalmente, mi interesso molto poco dell'antipatia o della permalosità. Mi interessa il sul formidabile talento. E' però innegabile che molte avversarie abbiano spesso utilizzato la vanagloria dell'azzurra per saltarle addosso ad ogni occasione. L'esposizione è diventata, per un atleta di alto livello, la questione più importante da risolvere: è possibile proteggersi dai media e dagli sponsor? Sono drastico: ci vuole una capacità mentale fuori dal comune per rimanere isolati dalle tentazioni di successo e guadagno. Non è un caso che la Pellegrini abbia annunciato un anno di stop: dopo la Filippi - altra nuotatrice di vertice sparita dalla circolazione - siamo di fronte all'ennesima indigestione da stress agonistico. La fatica non è entrare in acqua, bensì non riuscire a trovare una nicchia dove rifugiarsi. Potrebbe chiamarsi mal di celebrità. Oppure, dovere di vincere. Federica ha i suoi torti: avrebbe dovuto difendersi e invece ha continuato ad attaccare. Ma ha i suoi alibi: il sistema è malato, spreme i nostri eroi sportivi e li stritola, spesso a loro insaputa. Castagnetti, tutto questo, non l'avrebbe permesso. Ma il buon Alberto, purtroppo, non c'è più.

mercoledì 18 luglio 2012

amore al veleno

Ho trovato un'alleata. Una certa Caroline Thompson. " Perchè facciamo tanta fatica ad accettare che la costrizione faccia parte dell'educazione? Perchè abbiamo paura che imponendogli delle regole, il bambino ci ami di meno ". Ci vuole coraggio per dire certe cose. Se non altro la sua é una teoria che ha fondamenti scientifici, la mia poggia solo sull'osservazione e su anni di tentativi ed errori. L'amore fa bene, troppo fa male. Ed è quello che vedo tutti i giorni, tra le mura di casa, tra i banchi di scuola, nei campi di basket. Per amore si é disposti a tutto, anche a perdere la testa. Amore che si trasforma nel suo opposto. Non ci sarebbe spiegazione, altrimenti, se ad una partita mini basket padri e madri sono disposti ad abbandonare il bon ton e a prendersi per i capelli. L'amore é cieco: infatti, se parlate con qualsiasi genitore, esiste esclusivamente il proprio figlio. Nei giochi di squadra, il troppo amore combina dei disastri irreparabili: lotte intestine tra giovani giocatori per impossessarsi della leadership. Risultato? Fallimento su tutti i fronti: agonistico, educativo, sociale. Stritolati da questa morsa affettiva, i ragazzi sono costretti ad accontentare i sogni degli adulti: ciò che é normale - ossia che uno su centomila ce la fa - diventa un dramma familiare dal quale é difficile, se non impossibile, rialzarsi. La frustrazione è una malattia grave dalla quale è necessario vaccinarsi prima possibile: bambini e ragazzi non devono essere infelici, delusi, falliti. La vita è già brutta di per sè: ci mancherebbe che i nostri figli debbano rovinarsela in tenera età. Così, guarda caso, i ragazzi faticano a diventare adulti e l'ingresso nel mondo reale diventa spesso traumatico. " L'amore collusivo, privo di autorevolezza, che si rifiuta di porre limiti per paura di essere rifiutato, è immaturo e infantile, non rispetta le distanze e rovescia i ruoli, idealizzando i figli invece di offrire loro un modello da seguire ". L'amore può essere velenoso. Questa è peggio di me. Impossibile.

lunedì 16 luglio 2012

alessia d'oro

Altezza e attitudine al lavoro li ha presi dal babbo Rudy, ex giocatore di basket vecchio stampo: lungo per necessità e gran faticatore del campo, giocava nei pressi del canestro tra una gomitata data e un rimbalzo preso qua e là. Pulizia gestuale e preparazione certosina, invece, sono merito dell'allenatore, ex insegnante dell'iti Kennedy, neo-pensionato, negli ultimi anni coordinatore provinciale di educazione fisica. Tutto il resto é suo, ossia di Alessia Trost, neo campionessa mondiale juniores di salto in alto. Una pordenonese ai vertici dell'atletica, probabilmente la nuova erede di Sara Simeoni e Antonietta Di Martino. Gara difficile, persa e vinta almeno un paio di volte, con tutta la squadra azzurra in piedi a tifare da stadio la propria capitana per l'ultimo atto della manifestazione. Riuscire per ben due volte al terzo tentativo, ad un passo dal fallimento, significa che questa ragazza ha attributi e grande forza d'animo. Quello che, sotto sotto, si chiede ad un atleta: essere presente nei momenti decisivi. Facile fare i fenomeni quando non conta: se sei favorita e hai tutta la pressione addosso - sapendo tra l'altro che la spedizione azzurra non si é rivelata molto soddisfacente - le possibilità di sbagliare, in una disciplina dove la soglia di attenzione é determinante, raddoppiano. Non più tardi di una settimana si trovava alle prese con un'altra asticella, quella della maturità scolastica. Esito? 88 (ottantotto)! Messaggio chiaro ai coetanei: si può essere campioni da entrambe le parti. Poco importa se 1,91 non è sufficiente per arrivare a Londra: purtroppo, le federazioni con i loro cavilli e restrizioni hanno la vista troppo corta per capire quanto sarebbe stato importante misurarsi con le migliori. Pazienza: tra quattro anni ne passa un'altra! Nel frattempo proviamo tutti per una volta, almeno per un giorno, ad essere orgogliosi e non invidiosi di un'atleta che porta in giro un'immagine vincente della nostra città. Abbiamo mille motivi per lamentarci, anche in ambito sportivo, ma questa è la dimostrazione che con mezzi e strumenti limitati si può arrivare in cima. Brava Alessia. Bravo Gianfranco (Chessa). Un oro fatto in casa.

domenica 15 luglio 2012

drìo cul

Pazzesco ed inquietante. Non trovo aggettivi migliori. La federazione italiana pallacanestro ha deciso, per l'ennesima volta, di tirarsi la zappa sui piedi. Sono scomparse dalla geografia cestistica che conta realtà importanti come Teramo per il maschile e Como - pluri scudettata e con trofei continentali - per il femminile e il consiglio federale cosa decide? Che Treviso non può iscriversi alla serie A. Una piazza storica, una terra che vive di basket e che ha costruito e dato per anni giocatori importanti alle nazionali giovanili e maggiori. Ma c'é un cavillo: la nuova società, che ha rilevato il glorioso marchio Benetton, non é affiliata - o, meglio, si è affiliata troppo tardi - perciò non si possono creare pericolosi precedenti. Tutti sanno che la nuova Treviso non ha nulla di diverso dalla vecchia, ma importante è rispettare le regole. Interessante: mentre molti club rinunciano per difficoltà economiche insormontabili, si pensa di escludere una realtà che ha fatto le capriole per reperire risorse e per farsi trovare in regola con i conti. Di questo passo, in breve tempo la serie A diventerà un circolo ristretto per pochi eletti e nel giro di pochi anni avremo bisogno di giocare in Europa per trovare squadre con cui competere. Tutti, e per prima la federazione, dobbiamo capire che sono finiti i tempi della cuccagna. Non si possono chiedere bilanci in regola alle società e poi sperperare al proprio interno: ha ancora senso vedere raduni della nazionale con otto persone al seguito? Allenatore, assistente e fisioterapista: serve altro? Spariscono squadre, meno lavoro per allenatori e giocatori: è questo quello che vogliamo? La cosa inquietante, per tornare all'inizio, é che si é disposti, per il rispetto delle norme, a chiudere baracca. Insomma, mi sembra di sentire Celentano - quello dei tempi migliori - "il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va". Anzi, drìo cul, per dirla in trevisano.

venerdì 13 luglio 2012

paris vous attend!

Che il basket femminile sia in difficoltà lo dimostrano i numeri. Squadre e praticanti in calo. Ma la qualificazione agli europei ottenuta dalla nazionale maggiore ha il dolce sapore del riscatto e della volontà ferrea di non arrendersi. A volte bisogna sapersi arrangiare: se non ci sono nomi squillanti, si lavora sul gruppo e sull'orgoglio. Questa è l'italdonne: una squadra giovane, capitanata dall'unica trentenne rimasta, Raffaella Masciadri, sostenuta dall'unico vero talento, Giorgia Sottana, e dall'entusiasmo di tutte le altre. Invece che piangersi addosso, si é scelto di lavorare duro. Il lavoro ha pagato e ha fatto la differenza. Questo risultato - inaspettato e proprio per questo più bello - indica la strada: piuttosto che rimpiangere ciò che non c'è più o non esiste, si fa con quello che c'è. È giusto impegnarsi per migliorare l'esistente, ma a volte l'esistente è già sufficiente. La carenza di talento può essere colmata dalla ricerca della solidità e della coesione. La bravura dell'allenatore é stata proprio questa: convincere le giocatrici che il sacrificio comune avrebbe portato soddisfazioni per tutte. Così è stato. Chapeau italienne: Paris vous attend!

giovedì 12 luglio 2012

piedi in fuga

Chi guadagna spropositamente - intendendo fuori ogni logica e misura - in Italia sono, in ordine alfabetico, calciatori, manager, parlamentari. Sugli ultimi due é meglio che mi astenga. Per quanto riguarda i primi, si intendono naturalmente giocatori della massima serie, anche se, da quanto mi risulta, giocare nei campionati  cosiddetti dilettantistici può essere più conveniente che lavorare in fabbrica. Sono milanista da sempre - forse da prima che nascessi - e ho gioito per le strade e mi sono bagnato nelle fontane per le coppe dei campioni vinte - così si chiamavano ed era un nome più bello e chiaro - e per i trofei intercontinentali conquistati. Tra questi eroi, Van Basten è stato il più grande di tutti: tecnica sopraffina, senso del goal, atteggiamento vincente. Oggi squadre del genere non sono più proponibili: a malincuore, frenando il mio istinto da miope tifoso, ritengo sia giusto così. Il calcio italiano - ma non solo - è andato oltre i propri limiti, si è gonfiato al punto da non essere più in grado di sopravvivere. Ha ragione Galliani, - almeno in questo - vince chi fattura di più: perciò mettiamocela in tasca, le squadre italiane in Europa non vinceranno per un bel pezzo. Forse é il momento di ripartire dai giovani e di crearsi in casa i giocatori del futuro. O forse é meglio fare come Pozzo che i gioielli li scova in ogni angolo del mondo e se li coltiva in proprio con uno staff tecnico di prim'ordine. Certamente non è più tempo per partecipare alle aste: se Ibrahimovic costa troppo, é giusto che se ne vada. E' vero che Xavi e Iniesta hanno ingaggi alti, ma almeno il Barcellona se li é costruiti in casa. Certamente c'è da riprendere in mano, in una fase di recessione mondiale, il concetto di salary cup ( tetto massimo ): che senso ha pagare 10 milioni di euro all'anno? Come si fa a dire che sono meritati? Operai, turnisti, impiegati, insegnanti, non meriterebbero di più? Eppure, viene detto, non ce ne sono. Perfetto, bisogna avere lo stesso coraggio: dire ai signori che in fondo fanno la miglior vita possibile, che non ce ne sono. Andranno altrove? Pazienza, anche i nostri migliori cervelli sono costretti ad emigrare. E se perdiamo le migliori teste, possiamo perdere i migliori piedi.

domenica 8 luglio 2012

perfezione

Mi chiedo se sia possibile stabilire una gerarchia tra atleti di discipline ed epoche diverse. Ovviamente la risposta é negativa. Come si fa a comparare uno sciatore con un giocatore di basket? O un decatleta con un golfista? Eppure tutti quanti avrebbero ottimi motivi per meritarsi il consenso planetario. Però a me piace giocare e nella mia immaginazione ci sono atleti che per risultati, atteggiamenti, virtù non solo tecniche hanno lasciato più di altri un'impronta indelebile nella storia sportiva. A dire il vero ce n'é uno che riassume il concetto di atleta perfetto e corrisponde al nome di Roger Federer. Un mix riuscito di qualità tecnica, intelligenza tattica e solidità caratteriale. Nessuna sbavatura, mai un gesto sopra le righe. Rispetto assoluto per l'avversario al quale non fa mai mancare parole di elogio e di stima. Pur avendo vinto tutto non ha ancora placato la fame. Signore nella vittoria ma soprattutto nella sconfitta. Cultore del lavoro più che dell'apparenza. Amato e rispettato da tutti malgrado abbia distribuito molta sofferenza tra gli irriducibili sfidanti. L'ultima vittoria di Wimbledon, in ordine di tempo, è stato un capolavoro di sagacia, esperienza, consapevolezza.  Persino Murray, l'idolo di casa, ha scherzato sulla presunta parabola discendente del campione che sembra non conoscere tramonto. Una bella pagina di sport: vedere i duellanti combattere senza risparmio, abbracciarsi alla fine e piangere con il microfono in mano che certamente padroneggiano molto peggio della racchetta. Confesso di essermi commosso: non c'è niente, come lo sport, che possa regalare emozioni di questa intensità. Nemmeno i vecchi film d'amore di cui mia madre era divoratrice e dove le lacrime scorrevano copiose assieme ai titoli di coda.

venerdì 6 luglio 2012

ignoti naviganti


E’ insopportabile e non più tollerabile. E’ come prendere una legnata da un tizio con il volto coperto. Anzi, peggio, molto peggio. Dietro un bastone c’è un corpo, dietro l’anonimato il vuoto, il nulla. Da questo gioco al massacro mi sono tolto ormai da un bel pezzo senza rimpianti e con una buona dose di salute in più.  Lo sputtanamento in rete è l’ultima invenzione della cattiveria umana: in realtà, quella che doveva essere una piazza virtuale in cui discutere serenamente si è trasformata in un campo di battaglia – senza spazio né tempo - dove tra elmi e corazze è impossibile distinguere sostenitori ed avversari.  Le chat e i forum sono vere e proprie discariche sulle quali rovesciare i detriti dell’animo.  Chi non ha il coraggio di mettere la faccia non dovrebbe avere diritto di parola. Ho fatto la mia battaglia, l’ho perduta, ciascuno faccia i conti con se stesso. Provo nostalgia per i vecchi dibattiti pubblici: se qualcuno voleva intervenire, si alzava, percorreva il tratto verso il palco consapevole delle centinaia di occhi puntati addosso, prendeva nervosamente il microfono ed esponeva le proprie opinioni noncurante – o forse si? – delle reazioni non sempre compiacenti. Tempi epici: per parlare ci voleva fegato. Per sparlare, come si usa oggi, ce ne vuole molto meno. Rimango fermo nell’idea che chi comanda il gioco dovrebbe dettare le regole. Se l’arbitro non fischia, autorizza le squadre a menarsi. Chi fa le carte, dovrebbe governare e non speculare. Ma qui entriamo nel campo etico, poco frequentato dall’uomo moderno e soprattutto da chi detiene responsabilità. In tutta questa vicenda, l’aspetto deteriore è la vigliaccheria: si è più preoccupati di non farsi vedere che di colpire. Poi leggo delle denuncia a De Laurentis per aver detto cafone ad un giornalista: gesto maleducato, ma non certo codardo. Non saprei dire cosa è peggio. Anzi, visti i tempi, forse non avrei dubbi.

mercoledì 4 luglio 2012

highlander

" L'ho capito a Cento, 
perchè non sentivo il fuoco dentro di me. 
L'ho capito perchè la sconfitta 
in quella ultima maledetta partita 
non aveva il sapore della disperazione 
come tante altre volte. 
Ringrazio tutti. 
Quelli che mi hanno amato
 e quelli (tantissimi) che mi hanno odiato.
 Tutti mi avete regalato emozioni. "


 Mario Boni - 49 anni - dopo l'ultima partita disputata

martedì 3 luglio 2012

colpi sinistri

Se potessi prenderei tutti mancini. Sono imprevedibili, svelti, estrosi. Non é un caso che il tennis e la scherma ne siano pieni. Il mio giocatore preferito? John Mc Enroe, senza dubbio. Un genio della racchetta. Nel tennis di oggi fatto di pallate e scambi infiniti ne sento particolarmente la mancanza. Spesso irriverente, certamente, ma capace di emozionare e di lasciare a bocca aperta gli spettatori, reali e televisivi. Per lui non era solo importante fare punto: fondamentale che fosse speciale, frutto di costante invenzione offensiva. Non c'era uno scambio uguale all'altro: una varietà di colpi impressionante. Guardare oggi una partita di tennis è come seguire il gran premio: dopo il primo giro può iniziare la siesta. Per fortuna c'è Wimbledon, che grazie alla velocità dell'erba ci risparmia noia e sbadigli. Torniamo ai mancini: un tempo erano considerati anormali, oggi sono ricercati, soprattutto nello sport. Non é più un mistero che essendo governati dall'emisfero destro possiedano maggiore creatività - un esercito gli artisti - e velocità di reazione. Manu Ginobili è la raffigurazione chiara di quali danni possa combinare un giocatore di mano sinistra ad una squadra avversaria: estro, genialità, imprevedibilità. In sintesi, immarcabilità. Altri mancini illustri? Ayrton Senna, Valentino Rossi, Pelè, Maradona, Messi: c'é bisogno di qualcun altro? Sarebbe bello poter vedere, almeno per una volta, cinque mancini in un campo di basket schierati contemporaneamente: uno spettacolo indescrivibile! E chissefrega se nessuno difende, visto che in genere i creativi sono per definizione restii alla fatica. Per una volta facciamo che il risultato non conti: il divertimento é assicurato!

lunedì 2 luglio 2012

sempreazzurro

Quello delle nazionali é un problema serio. Intendo tutte, dal calcio alla pallanuoto. Siamo bravi a vestirci d'azzurro e altrettanto a riporre magliette e trucchi fino alla prossima occasione. Chissà poi se ci sarà un'altra occasione. L'Italia del basket soffre tanto quanto se non più quella del calcio. Non si può vivere solo di fortuna e buone annate. Ci vuole programmazione, volontà, investimenti. In una parola: ci vuole coraggio. Se la Spagna domina nei giochi di squadra qualcosa deve pur significare: dobbiamo solo pensare a un fatto divino? Dobbiamo aspettare che i vari Gasol, Navarro, Iniesta e Xavi abbandonino il campo per poter sperare? I cloni sono già pronti: Rubio, eccezionale playmaker classe 90 già approdato in America, e molti altri sono già in pista a raccogliere l'eredità dei campioni. In Spagna si programma e non si lascia nulla al caso: i migliori vengono selezionati, formati in centri di alta specializzazione e lanciati quanto prima nel basket che conta. In Italia i giovani marciscono in attesa che si apra qualche porta miracolosa. Alcuni, in realtà, non fanno molto per guadagnarsi il posto. Del resto, Siena, società dominante, come azzurro ha solo Aradori con un minutaggio di circa 10 minuti a gara. La colpa non é di Siena: il suo compito è vincere e cerca di farlo con mezzi appropriati e legali. La federazione combatte da anni con i club per le quote garantite, ma é una battaglia persa. Le società hanno bisogno di vendere il prodotto, non di costruire giocatori. Così gli italiani approdano in squadre di seconda fascia per poter giocare e non fanno esperienza internazionale - vedi coppe europee - indispensabile per diventare giocatori competitivi. Occorre dare merito a Scariolo di aver fatto giocare Melli e Gentile durante la finale scudetto dando loro fiducia e presenza assidua in campo. Ma non è sufficiente: le squadre under 20 azzurre ottengono sempre buoni risultati in Europa, come mai questi giocatori non trovano ampi spazi nei grandi club? Gli allenatori, pur di non perdere il lavoro - dargli torto? - sono restii a lanciare nell'agone giovani virgulti: d'altra parte, sono giudicati sui risultati, non sulla valorizzazione del prodotto locale. La parabola discendente del basket azzurro coincise con l'argento alle Olimpiadi di Atene: non ci fu adeguato ricambio e ci si sedette sugli allori. Le nazionali abbisognano di un'attenzione continua, non solo sporadica. Solo così potremo tornare ad essere vincenti e ad esprimere un'identità sportiva frutto di una scuola inconfondibile. Perchè all'Italia, la piccola Italia, non manca nulla per vincere: genio, scaltrezza, spirito di gruppo, sono ingredienti che appartengono a questo popolo fin dall'antichità. Basta guardarsi attorno.