"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

martedì 14 novembre 2017

s-Ventura a parte

Assisto non più di tanto sbigottito all’incenerimento virtuale e morale, per fortuna non ancora reale, del povero Ventura che, dopo le ultime disavventure, farebbe bene ad aggiungere una S maiuscola al cognome, se non altro per coerenza con i fatti di cronaca. Purtroppo per lui e per l’italia del pallone, è solamente capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non è certo colpa di Ventura - ribattezzato qui S-ventura - se Totti ha smesso di giocare o se Florenzi non vale nemmeno un’unghia di Alex Del Piero. Se in centottanta minuti - quasi centonovanta - gli azzurri non sono riusciti a segnare nemmeno un goal, significa che c'è un problema a monte e scaricare tutto sul navigato - se non altro per l’età - CT non è altro che l’ennesimo codardo tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto. In verità, e lo dice uno che di calcio non ne sa un piffero, non c'è traccia in giro di giocatori degni del tricolore sulla maglia. Il fallimento - almeno momentaneo - del calcio è del tutto coerente - e solo ultimo in ordine di tempo - a quanto sta succedendo allo sport nel nostro paese: a parte qualche caso eccezionale, dovuto a talento inimmaginabile e non programmabile ( vedi Cagnotto e Pellegrini ad es. ), non esistono risultati eclatanti o degni di nota: la pallacanestro e la pallavolo ( persino femminile ) sono usciti ormai da un bel pezzo dal radar mondiale, il rugby, dopo una fase di entusiasmo iniziale, sta tornando ad essere uno sport di nicchia tant’è che molte nazioni vorrebbero ripristinare il vecchio 5 nazioni e rispedirci nel dimenticatoio. Cosa sta succedendo? Succede che un governo sportivo che finanzia solo lo sport di alto livello ( e solo per alcune discipline ) enfatizzando le medaglie olimpiche e dimenticandosi colpevolmente della fase formativa rivolta agli atleti in evoluzione ha smarrito la propria funzione e la strada maestra da seguire fedelmente. Mentre le generazioni precedenti compensavano attraverso iniziative di stampo personale e privatistico - si pensi solamente alla funzione degli oratori, dei parchi e dei campetti - oggi è necessario costruire percorsi di apprendimento tecnico studiati scientificamente per opporsi alla pigrizia e sedentarietà dilaganti nel mondo giovanile. Gli stessi ragazzi che praticano sport non hanno la benché minima idea di cosa significhi allenarsi, complici metodologie di stampo moderno - o modernistico - che contemplano sessioni di lavoro non troppo faticose e, soprattutto, dilazionate nel tempo. Per paura di perdere clientela (mah!), si è pensato di abbassare il livello dell’offerta con il risultato che gli atleti veri sono sempre più merce rara e non certo frutto di programmazione. Perciò, non ci si strappi i capelli se per un’estate mancheranno le magiche giocate azzurre: ben venga, invece, questa eliminazione se riuscirà non tanto a disfarsi del solito capro espiatorio ma farà aprire gli occhi a chi di dovere. Ecco perché perdere, a volte, può essere salutare. L'importante, come dice Velasco, non è cercare il colpevole, ma capire il motivo. ( 1-continua )

sabato 28 ottobre 2017

nonni Fedeli

Mi scuso fin da ora, davanti a certe affermazioni il cuore si ghiaccia, la testa ribolle, i pensieri si affollano e le parole che escono potrebbero essere fuori portata razionale. “ Per i nonni è un gran piacere andare a prendere i nipotini. Potessi farlo io “. Questa è in ordine di tempo l'ultima uscita maldestra di un ministro - o ministra? - che non passa giorno a rilasciare dichiarazioni di dubbio ancoraggio alla realtà. Mi permetta, ministro Fedeli: di quali nonni parliamo? Di quelli ancora in trincea viste le lungaggini per ottenere il meritato riposo, oppure di quelli fuori uso, ossia alle prese con acciacchi di vario genere vista l'età avanzata? Forse sarebbe il caso di procedere al contrario, chiedere ai nipotini di accompagnare i nonni vista la scarsa autonomia nella deambulazione. Se poi aggiungiamo che i figli in Italia si fanno sempre più tardi, e non certo e  solamente per egoismo di coppia, il quadretto è completo: perciò trovo davvero fuorviante e inopportuno accennare a figure famigliari che per vari motivi, negli ultimi anni, hanno assunto ruoli e compiti diversi rispetto al passato. Ma è l'ultima frase che mi inorridisce: lei, ministro Fedeli, preferirebbe accompagnare i nipotini a casa piuttosto che stare al governo? E, mi spieghi dunque, perché non lo fa? Non lascia l'incarico e si dedica alle faccende domestiche? Vede, tra tutti i peccati, l'ipocrisia è forse il peggiore: non ci vuole un genio per capire i diversi benefici derivanti dal fare il politico di professione o il nonno vigile. Poi, mi permetta ancora, il volontariato è un gesto gratuito d'amore: perciò, se diventa legge, perde il suo sapore autentico: i nonni che hanno piacere di andare a scuola a ritirare i nipoti lo stanno già facendo, per gratia et amore dei, e non c'è bisogno di una raccolta alle armi. Ma c'è un altro aspetto, questo meno personale, che mi inquieta: la gioventù italiana è di gran lunga quella che raggiunge, più di altre, l'autonomia in fase avanzata. Di questo passo, tra un po' dovremo accompagnare i diciottenni al bagno per evitare che si facciano del male oppure il prete dovrà dotarsi di un pulmino per prendere e riportare i bimbi del catechismo ( e se poi il pulmino si schianta? È colpa del Padre Eterno? ). Ci rendiamo conto? Solo perché una sentenza - tra l'altro assurda - ha implicato una condanna per un preside, ci mettiamo a normare la condanna dei nostri ragazzi a rimanere dipendenti da tutti e da tutto? Certo che ci sono rischi per le strade: ma, mi si spieghi, quando i bimbi al pomeriggio vanno al parco giochi - sperando ci vadano davvero - oppure presso qualche società sportiva, i rischi spariscono? Il problema dunque è la responsabilità? Quindi, se capisco bene, per tutelare la responsabilità, si utilizza la deresponsabilità. Interessante manovra educativa. Spiacente, ministro Fedeli, non se la può cavare solo dicendo “ questa è la legge “. Deve avere il coraggio di dire che è una brutta legge. E che la paura ci farà sprofondare sempre più in basso.

mercoledì 11 ottobre 2017

liberi tutti

Il vincolo sportivo, oltre ad essere un illegittimo impedimento della libertà personale, è diventato negli anni un grande freno alla crescita della pallacanestro italiana. Non certo l’unico, forse nemmeno il più evidente, certamente artefice della mediocrità con cui si lavora nei settori giovanili. Cerco di spiegarmi prima che qualcuno cominci a mettermi le mani addosso: quello che sto per dire non farà piacere a molti, ma se vogliamo trovare un antidoto ad una situazione che va deteriorandosi ora dopo ora, è necessario essere crudi e onesti nell’ammettere che ciò che può dare vantaggi nell'immediato può provocare danni irreparabili nei tempi lunghi. Esempio classico: in ogni squadra che si rispetti accade che uno o più giocatori abbiano qualità tecniche più elevate rispetto al resto del gruppo; se dovessero chiedere di andare ad allenarsi e giocare in un ambiente più prestazionale, nella quasi totalità dei casi verrebbero respinti grazie anche al deterrente del vincolo, che funge da chiavistello invalicabile a scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga. Così avviene che chi potrebbe migliorare è impedito a farlo, con conseguenze spesso deleterie: nel migliore dei casi lo sviluppo tecnico si interrompe bruscamente, nei peggiori ci troviamo spesso di fronte ad abbandoni precoci o a cambi repentini di disciplina sportiva. Per costringere un giocatore a restare, con le buone e spesso con le cattive, si mette una pezza alle problematiche del momento ma, allo stesso tempo, si scava una buca insormontabile per le speranze di futuro del giocatore stesso. Per salvare una squadra - perché altrimenti come è possibile andare avanti se qualcuno se ne va - stiamo ammazzando la pallacanestro: chissà quanti potenziali atleti di livello sono rimasti intrappolati nelle reti del ricatto del tesseramento. Altra questione, direttamente collegata: il fatto che i giocatori non possano andarsene liberamente ha abbassato di gran lunga la qualità del lavoro formativo in palestra. Se non esistessero vincoli, le società sportive sarebbero obbligate ad assumere i tecnici migliori e a garantirne la formazione, a presentare alle famiglie e relativi giocatori dei progetti credibili e completi. Così come stanno le cose, invece, Il tutto è orientato verso il basso e il risparmio: pochi allenamenti, allenatori reclutati in extremis e spesso demotivati, partecipazione a campionati provinciali più redditizi sia come costi che come risultati, allenamenti brevi e orientati ad aspetti aggregativi più che di apprendimento. La scusa è che il tempo a disposizione è limitato, ma nessuno fa niente per aumentare il carico. In questa situazione, è matematico che non escano giocatori di livello: le poche società che fanno un buon lavoro a livello giovanile non possono sobbarcarsi tutto il peso del reclutamento e della formazione dei giocatori. È risaputo, infatti, che la gran parte del patrimonio agonistico nazionale provenga da società piccole e periferiche e che solo in un secondo momento sia transitato attraverso i canali ufficiali dei club più attrezzati nella costruzione dei giocatori. È chiaro che, a fronte dello svincolo, andrebbero premiati, subito e non a posteriori, i club che hanno reclutato i ragazzi che hanno scelto altre sedi per sviluppare le capacità tecniche: ma questa è un'altra storia e, forse, ne riparleremo un'altra volta.

venerdì 15 settembre 2017

taglia extralarge cercasi

Francamente fatico, non poco, a capire. La nazionale esce ai quarti, tutti immediatamente a stracciarsi le vesti e trovare il colpevole nel movimento che non crea più giocatori. Mi viene da pensare che se avessimo vinto con la Serbia ( quasi impossibile ) e fossimo entrati in zona medaglia, avremmo inneggiato al grande valore della scuola cestistica italiana nascondendo per l'ennesima volta la polvere sotto i tappeti, dispensando sorrisi di facciata in lungo e in largo, concedendosi meriti inesistenti. In verità, la pallacanestro sta male da tempo e non è certo una onorevole eliminazione ad aggravare il quadro clinico. Non è sbagliato dire che esistono in circolazione nel campionato italiano troppi stranieri ( e nemmeno così bravi, anche se poi puntualmente ci fanno il mazzo quando indossano i colori del paese di provenienza  ). Come è vero che c'è stato negli ultimi anni uno scadimento notevole del valore complessivo delle squadre, con conseguente allontanamento dagli scenari internazionali e l’inevitabile riflesso negativo sui giocatori in pieno sviluppo: non va dimenticato che i vari Da Tome, Melli e Hackett hanno dovuto emigrare per completare il percorso di crescita che oggi li vede protagonisti con la maglia azzurra. In pratica, una volta la nazionale era il punto di arrivo: oggi, se va bene, è il punto di partenza per molti ragazzi che sono privi di dimensione europea. Nella follia delle nuove finestre invernali per le nazionali, c'è comunque una buona notizia: ci saranno dodici giocatori nuovi, o quasi, a parteciparvi e chissà che qualcuno possa trarne vantaggio per consolidarsi ad alti livelli. Tutti alibi, comunque, di facciata. Il virus è molto più potente e viaggia in profondità. Se l’Italia si trova continuamente sotto misura con le altre nazioni significa che esiste una programmazione sbagliata, fin dal reclutamento dei giocatori. Si è pensato per anni che il minibasket fosse la scuola di avviamento per i futuri giocatori: niente di più sbagliato, il minibasket è un gioco che ha un valore in se. Nessuno fa più reclutamento nelle scuole, zero coinvolgimento degli insegnanti nella ricerca di ragazzi che, al termine del processo di crescita puberale, possano fare al caso. Si conservano gruppi chiusi e definiti dimenticandosi che molti giocatori soprattutto alti attualmente nell’elite della pallacanestro mondiale hanno mosso i primi passi in fase adolescenziale: il basket non è la ritmica o il nuoto, chi ha detto che non si possa cominciare anche tardi? Forse nella nostra programmazione tecnica non c’è né spazio né tempo per aspettare chi si trova indietro ma che, al termine del percorso, risulterebbe indispensabile per misurarsi con i migliori. La cultura della fretta e della vittoria ad ogni costo ci ha allontanato dal vero obiettivo: se vogliamo continuare a crogiolarci per aver battuto i rivali nella stracittadina di turno, accomodiamoci. Poi, però, dobbiamo essere onesti, quando le cose non funzionano, nel non cercare colpe altrove. Una fetta, seppur minima, di responsabilità, ce l’abbiamo tutti.

lunedì 31 luglio 2017

combattimenti e opportunità

Vado contromano, come capita spesso ( non in auto, be quiet ). Qualcuno, da chissà dove, ha ordinato il combattimento del Gallo. E che si procurasse un danno, guarda caso incompatibile con gli Europei. Non si augura mai il male a nessuno, soprattutto ad un campione come Danilo , ma questa è davvero manna per la nazionale e la pallacanestro italiana. Messina sbollirà la rabbia in poco tempo, capirà al volo l'occasione prelibata per lanciare nuovi protagonisti sul palco. Solo il grande e carismatico allenatore è in grado di anticipare un nuovo corso che, prima o dopo, irrimediabilmente, si sarebbe presentato all'ordine del giorno: con buona pace per i vertici federali, che dovranno pazientare per vedere i colori azzurri nei piani alti del circuito europeo e mondiale. Già il fatto che un giocatore talentuoso come Flaccadori sia stato richiamato é una bella notizia: a questi ragazzi non manca niente per competere, se non la necessità di giocare gare importanti in ambito internazionale. Purtroppo la scomparsa delle squadre italiane dalle coppe che contano ha condizionato in negativo la formazione dei giocatori indigeni con maggiore impatto agonistico: la nazionale diventa perciò un laboratorio di crescita in ambiti poco conosciuti e trampolino verso lidi più stimolanti. Non è un caso se i migliori spesso emigrano in Europa per competere ai livelli più alti - motivo per cui il campionato italiano si è abbassato di livello perdendo di appeal - completando un percorso di crescita altrimenti monco. Non è certo colpa degli under 20 tantomeno del povero Buscaglia se si è dovuto sudare mille camicie per non retrocedere in divisione B: tutti gli altri giovani europei hanno spazi importanti in patria o fuori mentre i nostri marciscono nelle panchine che gli allenatori avvertono troppo instabili per permettersi scelte rischiose. Perciò, signori, non tutti i mali vengono per nuocere: fuori Gentile, Bargnani, Gallinari, dentro Flaccadori, Biligha, Tonut. È una metamorfosi inevitabile. Non vinceremo l'Europeo? Pazienza. Ce ne faremo una ragione. Questo e altro per vedere una nazionale che si rinnova continuamente. In fondo, e gli allenatori lo sanno, si lavora per questo: per vedere l'inesistente scalzare l'esistente. A meno che ci piaccia vivere di ricordi e di nostalgia: Atene, ad esempio, possiede ancora un forte effetto placebo. Ma indietro non si torna. Mai.

mercoledì 19 luglio 2017

le scarpe dello zar

“ Basta ‘a salute e un par de scarpe nove poi girà tutto ‘er monno “. Così per Nino Manfredi. Non per Ivan Zaytsev, che di scarpe nuove ne ha un rimorchio pieno, ma non andrà agli europei con la nazionale di pallavolo. Motivo? La federazione impone le Mizuno, il nostro campione veste solo Adidas. Per i profani sembra una ridicolaggine, in realtà ci sono in ballo molti denari, visto il lauto contratto di sponsorizzazione firmato dallo ‘zar italiano’ con il grande marchio bavarese. Se chiedessimo a cinquecento ragazzi italiani se fossero disposti a vestire la maglia azzurra con l’unica clausola di giocare a piedi nudi, la risposta sarebbe affermativa al 100%. Il nostro capriccioso eroe non è comunque l’unico colpevole di questa grottesca vicenda: le calzature non fanno parte della divisa e appartengono agli utensili di lavoro strettamente personali. Ogni piede ha caratteristiche diverse e non a caso ci sono migliaia di modelli in vendita per tutti i gusti. Nelle altre discipline sportive, in nazionale non viene imposto ai giocatori di indossare le stesse scarpe: è un ragionamento sensato, considerato che i piedi sono l’unica componente corporea in contatto stabile con il terreno, dovendo sopportare continue sollecitazioni nei diversi spostamenti e variazioni di ritmo. C’è una bella differenza tra un’esclusione per motivi disciplinari - tra l'altro già applicata in passato giustamente nella pallavolo - ed un'altra per ragioni legate alle scarpe: il buon senso avrebbe suggerito di trovare una soluzione prima che il bubbone potesse scoppiare. Che gli altri giocatori non facciano storie non è un valido motivo per sostenere la giustezza delle proprie tesi: non è un bene per lo sport e per la pallavolo in particolare privarsi del miglior giocatore italiano in una competizione internazionale. Se il regolamento statutario prevede che gli atleti indossino le stesse scarpe, va cambiato in fretta: non è dai piedi che si riconosce l’attaccamento ai colori azzurri. Con buona pace dei giapponesi, che dovranno farsene una ragione.

mercoledì 28 giugno 2017

here comes the sun ( au revoir filles )

Quattro anni. Straordinari. Indimenticabili. Porterò con me i vostri sorrisi, i desideri, le buone ambizioni. E perché no? I pianti, le incazzature, le paure, la rabbia. Quando accettai l’incarico, molti mi chiesero: che ci fai al femminile? La risposta è sempre stata la stessa: si tratta di pallacanestro, mica di riviste specializzate. E la pallacanestro è unica, che sia maschile o femminile: se si insegna, si impara; se si gioca bene, si vince. Chi dice che la pallacanestro femminile è una disciplina diversa da quella maschile, mente sapendo di mentire, oppure non ha mai frequentato lo sport in rosa: soddisfazioni e frustrazioni sono identiche, come identico è il rapporto tra impegno profuso e prestazioni ottenute. Cos’ho imparato? Per prima cosa a dosare il linguaggio. Chi mi conosce sa perfettamente che nel passato non ho certo brillato per delicatezza: voi mi avete insegnato che le cose giuste possono diventare sbagliate se dette in malo modo. Mi avete ricordato il peso specifico delle parole: quando escono non si possono più cancellare ( non è vero Verba Volant! ), e possono ferire quanto cicatrizzare. Ma, soprattutto, per un allenatore di lungo corso ( forse troppo ) come il sottoscritto, che pensa erroneamente di aver visto quasi tutto sui campi di pallacanestro, avete lasciato un’impronta indelebile: l’entusiasmo. Non c'è stata una volta che abbia percepito una sensazione di disagio o monotonia: tanta era la voglia di stare in palestra che avete costretto i vostri allenatori a dare il meglio, a spendersi in tutto e per tutto per la vostra crescita. La vostra domanda era talmente forte che la risposta non poteva che essere adeguata: tutto ciò ci ha messo in discussione, ci ha fatto lavorare, in una parola, ci ha cambiati. In meglio. Avete ricaricato le pile che si stavano consumando. Ora il futuro è roseo, vi aspetta: non ponetevi limiti, tirate fuori sempre la parte buona che c'è in voi. Non smettete di sognare in grande: guardate Cecilia Zandalasini, pochi anni fa era una di voi e adesso è tra le migliori giocatrici d’Europa. Spero, un giorno, di vedervi librare in cielo come le aquile che avete portato cucite sul cuore. Soprattutto, che i sorrisi rimangano sui volti e che il ghiaccio si sciolga perennemente. Here comes the sun, abbiamo cantato a Bormio. Cantiamolo sempre. Au revoir, mes chères filles. Bonne chance. Merci pour tout.

martedì 20 giugno 2017

gigio libero

Francamente, per quanto mi sforzi, non riesco a trovare in Donnarumma alcuna colpa, se non quella di essersi affidato a gente senza scrupoli e con il profitto come unica ragione di vita. A 18 anni appena compiuti, con un campionato europeo in corso e una maturità da fare, ha staccato di gran lunga i coetanei - posso dirlo con certezza per esperienza diretta - per abnegazione, impegno, determinazione. I naviganti virtuali lo accusano di alto tradimento, noncuranti dei precedenti famosi che pullulano la storia non solo calcistica ( Meneghin da Varese a Milano ad es. ) : qualcuno pretende che un ragazzo appena maggiorenne diventi una bandiera quando, in realtà, deve ancora diventare uomo. Se per i procuratori conta esclusivamente riempire il forziere, per i giocatori contano celebrità e vittorie: da quando è stato inventato lo sport professionistico, il sogno di tutti è sempre stato quello di giocare nei club più titolati e vincenti. Se Gigio fosse arrivato ai tempi del grande Milan, forse non si sarebbe nemmeno posto il problema. Tutti volevano giocare nel Milan degli invincibili: oggi non è così, giocarci è una scommessa che non tutti sono disposti a rischiare. Del Piero, Totti, Maldini? Ognuno fa le proprie scelte e ne paga le conseguenze: se Maldini giocasse oggi, forse si guarderebbe intorno. È risaputo, non si può vincere da soli: in questo la storia di Totti, un fenomeno, è paradigmatica. Cristiano Ronaldo, il più forte di tutti, per vincere ha dovuto accasarsi a Madrid: se fosse rimasto in Portogallo, non sarebbe successo. E così vale per Messi e gli altri campioni. I giocatori non inseguono i soldi, bensì la gloria. Fin dalle olimpiadi dell'antichità, gli atleti venivano considerati alla stregua degli dei e incoronati con l'alloro, simbolo consacrato ad Apollo. Le chiacchiere da bar e le esternazioni intestinali da tribuna nord devono lasciare il posto a riflessioni più ponderate: esiste un diritto alla vittoria? E poi finiamola una buona volta con questi discorsi patetici sulla riconoscenza: se non  ci fosse stata ‘ingratitudine’ da parte di Van Basten verso l’Aiax, il Milan non avrebbe vinto tutti quei trofei. Perciò, o si è tutti, o nessuno è in obbligo.

mercoledì 14 giugno 2017

aule fronte mare

Ultimo giorno di scuola. Per me il trentesimo da insegnante. I ragazzi non invecchiano, io si. La distanza è incolmabile, ogni anno di più. Rifletto sulla frase di Aristotele, stampata beffardamente e perentoriamente sulle pareti della palestra, per molto tempo luogo di culto e di lavoro: 'dove si incrociano le tue capacità e le necessità del mondo risiede la tua chiamata'. Non sono più sicuro di essere così capace; ancor meno che la mia presenza sia così necessaria. Mi reputo severo e rigoroso mentre il mondo si muove in tutt'altra direzione; amante del controllo, vedo schegge impazzire ovunque. Sono un combattente, ma l'arma bianca non può nulla contro l'artiglieria pesante. Due ore alla settimana non possono cambiare le persone: possono, tutt'al più, trascorrere con il minimo danno. Eppure, arrivano messaggi chiari: la scuola dovrebbe farsi carico anche del periodo estivo. Lo vogliono le famiglie, lo vuole il ministero. Nessuno si premura di ascoltare i diretti interessati: alunni e insegnanti. Mi chiedo cosa possa fare la scuola di più e di meglio di quanto stia già facendo: occuparsi per nove mesi dei figli degli altri mentre coloro che dovrebbero occuparsene sono troppo occupati è già un bel daffare. La scuola non è e non deve diventare l'esclusiva maestra di vita dei ragazzi: ci sono migliaia di altri interessi che possono e devono essere soddisfatti al di fuori delle aule e dei laboratori. Se i ragazzi oggi si annoiano e non sanno utilizzare il tempo in modo prolifico, prima di trovare soluzioni preconfezionate, occorre porsi qualche interrogativo: perché sono continuamente distratti? Perché hanno istinti distruttivi? ( purtroppo in alcuni casi auto ) Perché sono pigri? Perché non sono curiosi? Potrei continuare a lungo, chi sta con i ragazzi percepisce il disagio ma vive con frustrazione l'impotenza di farvi fronte. In verità, la gran parte ( non tutte per fortuna ) delle famiglie hanno abdicato al dovere - e piacere - della patria potestà: educare i figli è il mestiere più difficile, soprattutto quando è necessario bilanciare affetto e rigore. È faticoso dire di no, correggere, andare in frontale: è però inevitabile se non si vogliono creare "mostri" sociali ( mi sia permessa la licenza ), individui troppo pieni o vuoti di sè, capaci di gestì incontrollabili o irrispettosi alla faccia delle conseguenze. Gli insegnanti sono dei nemici quando mettono voti negativi e bocciano, ma possono diventare preziosi alleati durante le giornate afose e lunghe d'estate ( 'il pomeriggio è troppo azzurro e lungo' Celentano docet ). In soldoni, i ruoli si sono invertiti: quello che si dovrebbe fare a casa si fa a scuola e viceversa. Per la mia età è una rivoluzione troppo costosa: se a qualcuno piace, si faccia avanti. D'estate avrei voglia di vedere di tutto, fuorché i miei alunni - con rispetto parlando -. E credo che loro siano pienamente d'accordo.






domenica 4 giugno 2017

sadismo popolare

Sono onesto, ho partecipato anch'io in passato all'infantile godimento dei mali sportivi altrui. Oggi me ne vergogno. È un esercizio becero, messo in atto da chi non può concedersi soddisfazioni se non nell'altrui sventura: verrebbe da dire da chi non ha mai fatto sport in modo serio, se non indossando magliette tarocche davanti a boccali di birra facendo uso di volume sconsiderato della voce. Chi fa o ha fatto sport conosce la sofferenza della sconfitta: il peso schiacciante di aver perso un'occasione quasi unica, la frustrazione di aver faticato molto e raccolto nulla. Non sono juventino, giammai, perciò al di sopra di ogni sospetto: l'improvvisata con tanto di vestizione madridista - salvo indossare i colori azzurri in altre occasioni con gli stessi protagonisti ieri beffeggiati - non fa onore allo sport, al popolo italiano, all'essere umano. Qui non si parla di antipatia, di gufaggine, di sfottò o altro: si parla di malcostume, che spesso si applica anche a situazioni non sportive e, quindi, con accezioni e conseguenze ben più gravi. Sperare nel fallimento del prossimo è uno degli esercizi più popolari e divertenti: questa sorta di sadismo dei tempi moderni è purtroppo una disciplina - pseudo sportiva - che possono praticare tutti, soprattutto coloro che litigano spesso con la realizzazione dei propri sogni. Chi è centrato su se stesso, difficilmente ha tempo da perdere ad osservare gli altri. Da milanista convinto e frustrato - sono anni ormai che non giungono belle notizie dalla sponda rossonera - ho preferito andarmene a spasso nelle strade deserte. Che la Juve vinca o perda, conta il giusto. Ma se qualcuno cade - metaforicamente intendo - e altri ridono, la cosa conta un po' di più. E, sinceramente, mi piace poco ( no like ).

domenica 28 maggio 2017

tutt'altro che Olimpia

Da osservatore esterno: l'Olimpia Milano è una somma di giocatori - a dirla tutta nemmeno così forti - tutt'altro che una squadra. In una squadra tutti ci si sacrifica uno per l'altro; si è disposti a rinunciare ad un piccolo tornaconto personale pur di guadagnare un premio collettivo più grande. Di che sacrifici e rinunce parliamo? Di qualche minuto in meno in campo, di una difesa più forte, di un tuffo, di un rimbalzo, di un tiro in meno preso e di un passaggio in più. Tutto questo Milano oggi non vuole fare e se non cambia in fretta lascerà il trono a qualcun altro e, perché no, alla bella favola Trento che sul piano della lotta e della fame non ha da imparare da nessuno. Giocatori di indubbio valore che scendono in campo con l'ardore e l'umiltà da serie minori: come se questa oramai bella realtà della pallacanestro italiana non avesse mai smesso, fin dalla sua ascesa, di rimanere incollata coi piedi per terra senza rinunciare alla sana ambizione di guardare sempre avanti. Da tifoso: sono incavolato, come tutto il popolo del forum. Perché questa tiritera, questa mancanza di continuità, va avanti da tutto l'anno e non si è mai riusciti a farvi fronte. La gente non capisce come mai giocatori che hanno fatto tanto male agli azzurri indossando le maglie delle rispettive nazionali siano improvvisamente diventati dei brocchi. Si parla da tanto tempo di nervosismo e di forti pressioni: mi piacerebbe sapere da Gherardini come le hanno gestite al Fenerbahce, oppure a Mosca o a Madrid. Quando giochi in un club come Milano devi sapere già in partenza che l'obiettivo è vincere: vuoi una vita più tranquilla? Scegli una squadra minore, avrai un contratto più magro con meno occhi e fiato addosso. Ho come l'impressione che molti dei giocatori approdati alla corte di Repesa siano ormai bolliti, nel senso che la fiamma che dovrebbe alimentare le motivazioni si è spenta da tempo. In due parole, belli ( forse una volta ) senz'anima. Altri, probabilmente, stanno già pensando ad andarsene prima possibile. Gli ultimi arrivati, giovani ed italiani, non sono ancora in grado di risolvere i problemi da soli. Il pubblico fischia, io spengo la TV. Se poi riaccendendo vedrò la serie sul 2-2, ci ripenserò. Al momento, preferisco godermi le lunghe serate quasi estive tra una passeggiata e un cono in mano.

mercoledì 24 maggio 2017

artisti per gioco

Prima ancora che atleta, un giocatore deve essere artista. C'è una bella differenza tra una poesia recitata a memoria da un dilettante - come potrei essere io - o interpretata magistralmente da un attore provetto. La stessa differenza tra chi in campo esegue e chi invece crea. La pallacanestro, come tutti gli sport di squadra, ha bisogno di fantasia. In particolare, a livello giovanile: strozzare l'inventiva attraverso l'ingabbiamento sistematico significa produrre giocatori seriali, prevedibili e non pensanti. Allenare la creatività comporta indubbi svantaggi: perdita del controllo sul gruppo, irrefrenabilità dei singoli giocatori, alto tasso di sconfitta. Cerchiamo di capirci: fantasia non significa anarchia o movimento caotico; significa ottenere l'obiettivo - ossia fare canestro - non attraverso artifici meccanici o con l'ausilio di copioni rigidi, ma con la bravura e l'arsenale tecnico a disposizione dei giocatori. Spesso lo schematismo viene utilizzato come copertura dei difetti: invece di lavorare sul miglioramento dei singoli - un percorso certamente più lungo e faticoso -, si preferisce occultare la debolezza per inseguire risultati immediati, anche se irrimediabilmente effimeri.  I giocatori vanno corretti, ma non soffocati; sgridati se serve, ma non sedati. Se le partite a livello giovanile finiscono 40-39 qualche domanda ce la dobbiamo porre, soprattutto questa: siamo disposti a tutto pur di vincere? Ci lamentiamo che manca talento, ma non facciamo nulla per rimediare; dimenticando troppo in fretta che non è un dono divino, ma un attitudine che va sviluppata quotidianamente. Pensiamo che Teodosic, ad esempio, sia un genio e che ne nasca uno ogni milione, ma non ci domandiamo quale scuola tecnica abbia permesso - o meglio, non abbia impedito - a questo fenomeno di diventare quello che tutti ammiriamo. Se un giocatore che inventa - attenzione!, con intuizione corretta - ma sbaglia e viene richiamato in panchina, stiamo  certi che la volta successiva non avrà più l'ardore di ripetersi. Non è che forse siamo noi, inconsapevolmente o meno, a non volere giocatori di talento?  

martedì 23 maggio 2017

sport no alcol

Giuro che ci ho provato. In tutti i modi. Ho cercato persino di togliere quella patina di muffa che avvolge il mio tradizionale pensiero. Oppure quell'aria da professorino 'so tutto io' che tanto infastidisce la platea. Niente da fare. Non riesco a trovare nessun abbinamento tra ciò che si intende per sport e ciò che si intende per alcol. Birrathlon è l'emblema di un matrimonio combinato, due termini forzatamente uniti che si eludono a vicenda. Amo il rugby - come potrei diversamente? - e amo i rugbisti. Ho molti giocatori tra i miei alunni e sono tra i migliori. Il concetto di lealtà portato a livelli estremi dove altre discipline sportive arrancano visibilmente. Coraggio, generosità, sofferenza, altruismo: valori in fase di estinzione ma che trovano ancora spazio nel rettangolo d'erba tra un passaggio della palla ovale e un placcaggio. Il terzo tempo, intuizione magica per trasformare l'inevitabile ferocia agonistica nell'apprezzamento dell'avversario. Allo stesso tempo amo il vino - come potrei diversamente in questa regione? -. Ho la cantina fornita, non sono un bevitore accanito, ma all'occorrenza non mi faccio trovare impreparato. Allegria, calore, compagnia: un bicchiere bevuto insieme può smorzare tante spigolature che ci tengono a distanza. La mia filosofia dualistica e Kantiana mi impedisce di vedere relazione fra ciò che tende al benessere e ciò che - in termini spropositati - può portare alla distruzione. Gli sportivi, naturalmente, possono fare quello che vogliono della e nella vita privata - fuorché danneggiare il prossimo - ma quando indossano le divise e si presentano in pubblico devono veicolare messaggi sani e inequivocabili. Non mi piaceva vedere allora Gigi Riva durante le pause, tantomeno oggi Sarri fumare mentre conduce l'allenamento. Perciò, e lo dico senza astio ma con affetto, avrei preferito vedere il manipolo di giocatori correre per la città - ottima idea promozionale - astenendosi dai fiumi d'alcol, a cui lo sport, tutto, ha dichiarato guerra. Che sia una goliardata giovanile, lo capisco: ma da chi fa sport, chissà perché, mi aspetto sempre il meglio. Per questo, e molto altro, a scuola gli agonisti mi odiano. Non so che farci, è più forte di me: chiedere di più a chi ha ricevuto di più. 

giovedì 11 maggio 2017

11/05/1961



Un giorno qualsiasi. Una data insignificante nello scorrere del tempo. Un puntino invisibile nel firmamento. Una parola nel libro della vita. Tirati a sorte. Così siamo usciti alla luce. Come un dito che si ferma sul mappamondo. Come un numero uscito dalla sacca della tombola paesana. Come una pallina che gira beffarda sulla roulette. Dal mare della tranquillità alla spiaggia del caos. Dal mistero alla conoscenza. Dall'eternità alla mortalità. Nessuno ci ha chiesto il permesso. Non abbiamo fatto richiesta, né abbiamo meriti o colpe. Non abbiamo scelto di nascere, tuttavia scegliamo ogni giorno di vivere. Lottiamo e siamo disposti a tutto pur di vivere. Anche quando la bilancia è in rosso, quando i titoli per stare aggrappati sono più bassi di quelli per lasciarsi cadere. Anche quando il dolore è più forte della resistenza. Abbiamo un debito con chi ha voluto tutto questo: chi ci ha preceduto, ci ha fatto entrare nella propria storia e in quella di tutti gli uomini. Madri, padri, non vi abbiamo mai ringraziato abbastanza, perché, malgrado tutto, ne valeva la pena. Chi ha superato la boa non ha più tempo da perdere e sprecare. Chi pensa di aver visto tutto, rimarrà deluso. Il libro degli appunti è sempre aperto, c'è ancora molto da imparare. Vivere come se fossimo appena nati: con gli occhi spalancati, scoprire ogni giorno, ora, attimo, qualcosa che ci fa sobbalzare dalla sedia. Soprattutto, cercando di rendere felice chi ci sta accanto. ' Non contare i giorni, fa in modo che i giorni contino ' ( Muhammad Alì ): così vorrei vivere il tempo che mi resta.

sabato 29 aprile 2017

vie di fuga

Da cosa si fugge? In cerca di cosa? Mi viene in mente l'esercito di uomini e donne che hanno trovato fortuna fuori dalle proprie mura. Io non ne faccio parte: sono stato talmente frignone e codardo da accontentarmi di ciò che avevo a portata di mano. Eccetto una breve parentesi di esilio dantesco dalla città dove peraltro ho potuto toccare con mano cosa sia la gratitudine. Lavorare per e nella terra d'origine è un dato di normalità: diventa perciò insensato aspettarsi particolari attenzioni o riconoscimenti. Se potessi tornare indietro, prenderei lo zaino, una certa dose di incoscienza e giocherei le mie carte nello sfidare il futuro e la sorte. Non è il denaro a spingerci altrove: è il desiderio di essere giudicati per ciò che siamo e non per ciò che dovremmo essere. Partire da zero non è detto sia un handicap: possiamo misurarci su ciò che veramente sappiamo e sappiamo fare, non su quello che altri pensano e dicono di noi. Si gioca ad armi pari: nessun retaggio, nessuna raccomandazione, nessun pregiudizio. Dobbiamo uscire dal guscio per capire se la nostra bravura è reale, se i nostri meriti hanno consistenza, se i nostri desideri possono realizzarsi. C'è molto orgoglio nel sedere sulla panchina locale o nel giocare portando sulle maglie i colori e i simboli della propria città: ce n'è molto di più nel vedere i nostri ragazzi o ragazze che si fanno valere in giro per lo stivale o addirittura nel mondo. Esportare noi stessi non equivale a dimenticare: le origini rimangono impresse per sempre, come un marchio leggibile e indelebile. Ecco perché, semmai un giovane dovesse chiedermi un parere, non avrei dubbi: insegui i tuoi sogni, mettiti alla prova, cerca la verità che è dentro di te. Non aver paura di andare, farai sempre tempo a tornare. Anche se l'avventura non andasse come nelle previsioni, c'è sempre qualcosa da portare dentro che ti renderà più forte e migliore. Il coraggio che chiediamo agli altri è lo stesso che dobbiamo chiedere a noi stessi. Sembra un bisticcio di parole, ma è la verità: partire per tornare a casa.

sabato 22 aprile 2017

musi virali

Arriva un momento in cui tutti quanti dobbiamo fare i conti con la nostra coscienza. Se quello che stiamo facendo non ci piace, non ci soddisfa, non ci gratifica, meglio abbandonare e lasciare il posto ad altri. Una persona scontenta è in grado di contagiare chiunque navighi a fianco e, indirettamente, condizionare la prestazione altrui. Questa regola antica come il mondo vale per i dirigenti, gli arbitri, gli allenatori, i preparatori, gli atleti. Vale anche per i cosiddetti professionisti, malgrado le gratificazioni economiche possano parzialmente lenire la frustrazione. È sufficiente che uno solo in un gruppo decida di non collaborare per provocare una falla irreparabile: si può cercare di remare più velocemente, di raddoppiare le forze, ma è pressoché impossibile sostituire un pezzo mancante. I musi lunghi, i guastafeste, hanno un potere enorme nello spargimento della negatività: il malcontento si insinua e si diffonde fino a minare le certezze del gruppo. Dopo anni di onorata - e disonorata - carriera ho, a proposito, pochi dubbi: è la passione che ci spinge avanti, il piacere di vedere che le cose, come le persone, possono cambiare, migliorare, trasformare. Se la passione non esiste, o si dirotta su altri lidi, dobbiamo avere l'onestà e il coraggio di non provocare ulteriori danni a chi ci sta intorno. Quando la spinta motrice si esaurisce, condanniamo i compagni di viaggio a rallentare: chi vorrebbe e potrebbe volare, è costretto a tenere i piedi per terra. Non c'è contraddizione maggiore che fare sport ed essere infelici: nei momenti difficili c'è bisogno di incrociare uno sguardo sereno e sicuro di sé, in quelli trionfali di vedere braccia alzate, in quelli disperati di trovare una spalla dove appoggiarsi. Cosa guardano i bambini/e ragazzi/e che entrano in palestra? Non i palloni, non i canestri, ma se il loro allenatore è innamorato di quello che sta facendo: e con il sesto, anche settimo senso che solo loro possiedono, troveranno la risposta.

venerdì 14 aprile 2017

come i salmoni

Come i salmoni. Risalgono faticosamente la corrente dal mare al fiume. Percorrono centinaia di chilometri per poi morire sfiancati. Non mi viene un'immagine migliore per descrivere la fatica che fa una regione piccola come il Friuli Venezia Giulia per stare al passo con i grandi. Non siamo la Lombardia, stato nello stato, nemmeno l'Emilia Romagna o il Veneto. Nessuno ci regala niente; nessuno, giustamente, prova pietà. Dobbiamo arrampicarci sugli specchi, lottare con le unghie, rimanere agganciati alla vetta. Con un costo psicologico ed emotivo di dimensioni inumane: è vero, siamo una terra di grandi tradizioni e grandi giocatori e giocatrici, non possiamo deludere le aspettative. Allo stesso tempo siamo schiacciati dal peso delle responsabilità, dalla necessità di lasciare sempre qualcosa in eredità. Giochiamo spesso contro noi stessi, i nostri fantasmi, accecati dalla paura di non soddisfare le aspettative. La tensione ci assale, avvelena i nostri muscoli, annebbia la vista e fa tremare le mani. Eppure orgoglio e istinto di sopravvivenza non ci mancano: quello che ci permette e che ci ha permesso in passato di metterci in salvo, anche con l'ultima scialuppa a disposizione. Eccoci ancora qui, a recuperare centimetro dopo centimetro per guadagnarci la stima e il rispetto del resto Italia. Quello che vogliamo è misurarci con i più bravi per diventare migliori di ciò che siamo: lottiamo per imparare, prima ancora che per vincere. La vittoria non rappresenta l'unico sistema metrico infallibile: esistono coraggio, volontà, sacrificio, coesione. Non saremo giudicati dalle vittorie, ma dalla determinazione a vincere. Come i salmoni: molti non ce la fanno a tornare a casa, ma nessuno di loro si arrende.

giovedì 30 marzo 2017

caro Fabio

lettera appassionata e accorata a Fabio Fognini

Caro Fabio,
( mi rifiuto di pronunciare l'appellativo affibbiatoti storpiando il cognome, anche se a volte parrebbe così indicato....) ci sono due cose che ti invidio: la moglie e il talento. Sulla prima, il vincolo di marito e padre mi impedisce di proseguire. Sul secondo, mi permetto di proporti una breve e facile riflessione - essendo stato in gioventù un discreto tennista amatoriale capace di vincere il master della mia classe alle superiori - convinto che il valore tecnico aggiunto di cui alcuni atleti dispongono in natura possa valere per tutte le discipline sportive. Anche se mi costa molto, te lo devo dire: sei un tennista di grande talento. Che non significa, attento, che tu sia un bravo tennista. Federer è un bravo tennista, capace a trentacinque anni suonati di suonare e di suonarle. Se mi permetti, tu devi ancora dimostrare di esserlo. Cosa ti manca? Semplice, al talento non ha fatto seguito ciò che è necessario per diventare un campione: l'incontro con la fatica e la frustrazione. Non conosco la tua storia, ma immagino ti sia sempre riuscito tutto facile: hai vinto tutti i tornei giovanili che c'erano da vincere e non hai mai incontrato sulla tua strada qualcuno che ti ricordasse quanto sia importante perdere. Sono sincero: ho provato a seguire alcune tue partite, ma non ce l'ho fatta. Non appena vedo quegli sbuffi e quella faccia caracollare i miei occhi sono già su un altro canale. La tua racchetta vola a terra assieme al mio telecomando. Non posso sopportare il fatto che un giocatore con così grande potenziale abbia la cattiva abitudine di autosabotarsi, di rendere difficile ciò che è facile, di buttare a terra per un nonnulla un castello di sabbia costruito con tanta abilità. La rabbia non è un difetto: nello sport, chi non ne possiede non può raggiungere risultati. La rabbia non va repressa, ma nemmeno esibita: va cavalcata, dosata lungo tutto il percorso, diluita. E, poi, lasciatelo dire, smettiamola con questo vittimismo, come se tutto dovesse riuscirti alla perfezione: sai perché Roger è il numero 1? ( anche se nella classifica attuale non lo è, per me rimane e rimarrà sempre ) Perché è capace di andare oltre i suoi errori ( ebbene sì, anche lui sbaglia ), perché non si scompone, perché dentro si sè non smette mai di crederci. Un uccellino mi ha detto che ultimamente stai cambiando e che si vedono già i primi risultati: forse l'età non più verde, forse la cura Pennetta, forse sarai stufo anche tu di buttare al vento tutte le occasioni che ti si presentano. Voglio darti fiducia: davvero puoi essere un top ten, come si dice in gergo. Ma ti aspetto al varco: Parigi e Londra sono i veri esami. Se sei davvero un altro tennista, un'altra persona, è tempo di dimostrarlo.

martedì 28 marzo 2017

delirio psichiatrico



' Un delirante gesto altruistico '. Mi si rivolta lo stomaco. Cosa c'è di altruistico nel prendere a martellate due figli di tre e quattro anni? Sei uno psichiatra e hai studiato tanto? Bene, mi viene da dire che hai buttato nel cesso il tuo tempo, anzi, che l'hai usato nel peggiore dei modi. Le parole non sono innocue, vanno pesate e somministrate nel modo giusto. Il significato corretto di altruismo è dare se stessi per gli altri, non dare gli altri per se stessi. E chi titola a lettere cubiche queste bestialità è complice e colpevole in egual misura. Non ci si deve stupire se l'emulazione è diventata una disciplina di massa. E se la paura di alcuni e la crudeltà di altri aumentano ogni giorno di più. La terminologia clinica può essere usata tra ricercatori, non data in pasto al pubblico senza istruzioni. Ho profondo rispetto e cordoglio per il dramma umano, ma non esiste un buco da dove non si possa uscire: è piena la storia, fortunatamente, di chi è partito in svantaggio ed è arrivato davanti. Di chi aveva un etichetta di perdente appiccicata in testa e se l'è tolta grazie a tenacia e coraggio. Questo è il messaggio che dovremmo lanciare: che non c'è un libro con le pagine già scritte, che il destino è nelle nostre mani e, soprattutto, che il nostro dolore non deve contagiare e rovinare altre vite. Lottare: per questo siamo al mondo. Ognuno ha i suoi fantasmi da combattere, compresi quelli che ad una vista superficiale paiono privilegiati. Questo è quello che dovremmo insegnare ai nostri figli: a non mollare, anche quando tutto sembra andare storto. Ecco un'altra definizione di altruismo: avere fiducia nell'uomo.

sabato 25 marzo 2017

uno per tutti

Ci vuole un bravo formatore. Che poi sia bravo anche ad allenare, non guasta. Uno che sappia tirare fuori il meglio da ciascun ragazzo. Uno che non fa sconti, non scende a compromessi, che detta regole di vita valevoli per tutti, indistintamente. Uno che si fa rispettare ed ascoltare e allo stesso tempo rispetta ed ascolta. Uno che non rinuncia alle proprie idee per una vittoria in più e che fa della coerenza il proprio credo. Uno che non le manda a dire e che ha sempre detto ciò che pensa. Poi ci vuole una città. Una città aperta e lungimirante. Una città che sa vedere dove gli altri guardano, che trova dove gli altri cercano, che premia dove gli altri snobbano. Una città coraggiosa, che distribuisce onorificenze a gente che ha la specialità nella normalità. Cosa può avere un allenatore per meritarsi un riconoscimento alla stregua di scrittori, attori, musicisti? Se fossi Federico Danna - purtroppo non lo sono, mannaggia - sarei mille volte più felice di tutti i trofei e i campionati conquistati in carriera. Le coppe si alzano, si abbassano e si impolverano, le medaglie si indossano e si levano, gli scudetti si cuciono e si strappano. Quando una città ti nomina cittadino onorario, tutto quello che è stato fatto si riveste di luce nuova: la vita spesa sui campi non è stata solo un mestiere, ma anche un servizio alla comunità. Il passato diventa presente e il presente, futuro: non c'è più dimensione temporale, ciò che è stato vive e vivrà per sempre. Tutto diviene più chiaro: che le notti insonni, i litigi, le delusioni, le sconfitte atroci hanno il sapore dolce dell'inevitabile e avventuroso viaggio verso la scoperta di se stessi e del proprio compito sulla terra. Che quello che oggi non è possibile vedere, sarà possibile e certo domani. La mia presunzione vuole andare oltre: ciò che ha fatto Biella per un suo cittadino lo fa per tutti noi. Per chi non ha mai vinto niente, per chi si trova a lavorare in condizioni sfavorevoli, per chi pensa erroneamente di perdere tempo, per chi non ha mai potuto avere in dotazione materiale di prima scelta, per chi vorrebbe alzare le mani dal manubrio e chiudere bottega. Educare attraverso lo sport: chi non ci crede lo vada a chiedere ai ragazzi e ragazze diventati uomini e donne del nostro tempo. Un giorno forse avranno odiato, faticato, pianto, imprecato: oggi sono gelosi e orgogliosi dei ricordi indelebili che si portano dentro. Congratulazioni, Federico: finalmente la bravura ha incontrato il merito. Congratulazioni Biella: non so di che colore sia il governo locale - francamente irrilevante - ma se questi sono i valori di riferimento, i cittadini possono essere soddisfatti.

venerdì 17 marzo 2017

c'è ma non c'è

La sfida del futuro, per la pallacanestro e lo sport in generale, sarà l'inesistente. Vedere dove gli altri riescono solo a guardare, pensare l'impensabile, osare dove non osa nessuno, scommettere uno a cento. C'è ma non c'è. Chiunque in tribuna sarebbe in grado di usare l'esistente: chi lascerebbe, ad esempio, fuori dal campo un giocatore come Gallinari? Nemmeno il custode del palazzetto sarebbe capace di tale ignominia. Far giocare chi non dovrebbe giocare, grazie a coraggio ed intuito profetico. Ne va della sopravvivenza: vivrà chi non si accontenterà dell'attimo fuggente, chi saprà andare oltre la soddisfazione del momento, chi avrà lo sguardo proiettato in avanti, chi userà il grandangolo e non il teleobiettivo. Parliamoci chiaro: che merito hanno quelli che fanno le stesse scelte che farebbero tutti? Perché non lasciare un segno, esplorare nuove vie, affrontare orizzonti diversi, mescolare il mazzo e giocare altre carte? I miei occhi sono stanchi - un po' per l'età e un po' per la ripetizione ossessiva delle immagini che scorrono davanti - di vedere giocatori 'acerbi' ( traduzione, non pronti ) ammuffire negli scaffali della cantina (pardon, panchina). Se si è così convinti che non potranno mai maturare, meglio dirottarli altrove; ma se c'è anche una probabilità su cento che possano migliorare, qualcuno mi deve spiegare come è possibile che avvenga visto che hanno sempre il sedere appiccicato al legno o le rare comparse in campo non superino i cinque giri di lancetta. In particolare i giocatori più alti, quelli che in teoria dovrebbero calcare i campi non appena si fa sul serio e che durante gli anni giovanili vengono messi da parte in quanto poco adatti al raggiungimento di risultati immediati, vedi trofeo dei rioni. Che ci piaccia o no, il lungo tontolone non appena scoprirà di avere il corpo adeguato alle circostanze si prenderà gioco del basso furbacchione che per anni si è goduto la scena ma che ad un certo punto troverà la strada sbarrata dall'evidenza. So di dire una bestialità, ma nel paleolitico esistevano i presidenti padroni che obbligavano gli allenatori a produrre merce spendibile sul mercato. Anche lo scrivente ha lavorato sotto padre padrone e non ne ha nostalgia: vedere però oggi le società impotenti di fronte a scelte personali discutibili o, peggio ancora, ricattate da famiglie ' sportivore ' non è certo uno scenario migliore del precedente. Una volta i giocatori avevano un valore individuale ( aberrazione antica ), oggi valgono solo se conducono alla vittoria. ( aberrazione moderna ). C'è bisogno di qualcuno che non abbia nulla da perdere, che creda che i giocatori vengano prima dei risultati, che metta coraggio al posto della paura. Sognatori, in una parola. AAA cercasi, come dice quello che ha appena cantato nella città dei fiori. Non chiedetemi il nome, vi supplico.

martedì 14 marzo 2017

alla luce del sole

La cultura o, meglio, sottocultura dell'anonimato sta mietendo vittime ovunque e in tutti gli ambienti. Il metterci la faccia è stato sostituito dall'invisibilità. Il corpo, la voce, gli occhi, tutto ciò che era riconoscibile e distinguibile ora diventa spirito, anteprima della vera dipartenza da questo mondo terreno. Il nickname pervade il web - anche il sottoscritto non sfugge alla regola avendo uno pseudonimo - e chiunque può dire e scrivere di tutto rimanendo sconosciuto alla comunità. È il trionfo della vigliaccheria, della cattiveria più crudele, dell'omertà più becera. Provate oggi a chiedere in aula 'chi è stato?' e non troverete risposta. La conseguenza immediata è lo stravolgimento del senso di responsabilità: le cose accadono ma non c'è nessuno a commetterle. La prima cosa che si impara è la non ammissione di colpa. La paura di sbagliare diventa il motivo principale per cui è conveniente non fare nulla. Ma questo è un blog sportivo o cosa? La traduzione è presto fatta: sbaglio o ci si lamenta sempre di più della assenza di leadership in campo, di giocatori che svolgono il compitino e che non si avventurano in spazi inesplorati, di altri che si nascondono invece di farsi vedere o che non si accusano dei propri errori scaricando su altri le colpe? Prendersi le proprie responsabilità quando la partita si fa delicata, metterci la faccia quando il gioco si fa duro, esserci quando sarebbe più comodo e conveniente sparire. Queste sono le sfide attuali: certo, bisogna insegnare la tecnica e la tattica del gioco, ci mancherebbe. Ma non ce ne faremo niente di un giocatore bello da vedere ma incapace di stare in campo. E non possiamo nasconderci dicendo che questi non sono i nostri compiti: se vogliamo formare giocatori/trici, dobbiamo formare uomini/donne all'altezza. Rinunciando anche ad una vittoria in più, se necessario. Sempre che si possa essere giudicati dall'onestà e completezza del nostro lavoro e non dal numero di vinte/perse: dipende se vogliamo stare in superficie o scendere in profondità.

giovedì 9 marzo 2017

buona sfortuna

Dietro ogni problema c'è un' opportunità. Parola di Galileo, che non ha certo beneficiato di una vita facile. Potrebbe essere anche una bella frase da baci perugina o Mulino Bianco come banale antidoto alla lamentazione perenne, così in voga di questi tempi. Eppure è una sacrosanta verità. Prendiamo Alessandro Gentile: va in Grecia, gioca poco, sbaglia e torna in panchina. La licenza assoluta di Milano non esiste ad Atene. Ciò che era un abitudine deve diventare una conquista. Cosa fa il nostro eroe? Si arrende, cercando un altro Egitto dove ripararsi. Invece di lottare per guadagnarsi un posto, cerca un posto dove smettere di lottare. Per uno abituato a saltare la coda ( un po' per bravura, ma anche per diritto divino ), avrebbe tratto profitto, una volta tanto, da una certa parità di trattamento: basti guardare suo fratello Da Tome ( altra pasta di sicuro ) che dagli scantinati dell'NBA è passato agli ordini del miglior allenatore d'Europa guadagnandosi stima e minutaggio. A Gentile la faccia tosta non manca: dove è finita? Oppure come a scuola, si è forti con i deboli, ma deboli con i forti. Non è detto che avere un percorso liscio sia sempre un bene, come non è detto sia un male affrontarlo pieno di ostacoli. Lo stesso concetto vale anche nelle periferie del mondo, dove la cronaca non ha il tempo e l'interesse ad arrivare: gli allenatori si lamentano per l'infortunio del giocatore migliore e non si accorgono che in magazzino ( alias spogliatoio ) ci sono pezzi di ricambio ( sostituti ) che possono fare al loro caso. Un grave flagello sta inesorabilmente mettendo in ginocchio lo sport giovanile: si chiama indispensabilità. Il virus ha questi sintomi: non ci si adopera per cercare alternative - quindi, in pratica, si lavora sull'esistente ma non su ciò che potrà essere - ; ci si rifugia nel più classico e banale degli alibi - non si può vincere se non in presenza di tutta la dotazione - ; peggio del peggio, gli stessi giocatori di valore vengono rovinati con un vaccino adatto ad evitare ogni genere di frustrazione - irrinunciabili a tal punto che anche se si allenano o giocano male staranno sempre in campo,  nei secoli dei secoli. -. Il guaio è che nessuno nasce con l'etichetta di fenomeno in testa. Qualcuno gliela appiccica e da quel momento si è creato un danno irreparabile per tutti: per l'interessato, per chi gli sta attorno ( famiglie invasate ), per i compagni di squadra che giustamente reclamano maggiore attenzione e per lo stesso allenatore che non riesce più a governare la situazione. A Milano ora giocano Fontecchio Abass e Pascolo: non vinceranno l'eurolega, pazienza. Se Gentile non se ne fosse andato e Simon non si fosse infortunato, avrebbero fatto panchina. Buona sfortuna. Chissà se Gelsomino è d'accordo.

venerdì 24 febbraio 2017

la vita perfetta

Per quanto assurda ci sembri la vita è perfetta. Chissà cosa ne pensa il povero Ranieri della canzone della Mannoia, visto che nel giro di pochi mesi è passato da eroe trionfatore a zimbello da rottamare. Forse a Leicester si sono montati la testa o forse - purtroppo più probabile - la società ha ceduto ai capricciosi ricatti dello spogliatoio, in particolare dei senatori, gli stessi sorpresi un po' di tempo fa nel portare in trionfo il mister dei miracoli. Un giorno sei un genio, il giorno dopo un incapace. La verità è che Ranieri era bravo ancor prima di vincere l'inaspettato scudetto in terra anglosassone ed è bravo ancora adesso che lo hanno cacciato a pedate nel sedere. Semplicemente il mondo va così, la gratitudine è un valore obsoleto e i problemi vanno risolti in fretta e senza condizionamenti emotivi. Chissà che fine faranno i santini e le statuette con il volto del nostro eroe declassato e spodestato, forse un giorno, tra molti anni, diventeranno prelibatezze rare per fini collezionisti. Le trasmissioni che ne hanno fatto un gigante del mondo del football dovranno essere accantonate e rimandate in onda in momenti più opportuni: forse al prossimo titolo vinto in qualche sperduto paese ai confini della terra. Morale della favola, purtroppo a non lieto fine: nessuno può sentirsi più sicuro di nulla, nemmeno dopo aver toccato il cielo con un dito. Raggiunta la veneranda età di 65 anni, si pensa erroneamente di non aver più nulla da dimostrare: e invece, tutto quello che è stato fatto non conta nulla perché conta solo quello che succede in questo istante. La storia è cancellata, il libro è bianco, la memoria è perduta. Il presente diventa l'unico parametro decisionale, perciò non importa un fico secco se hai fatto sognare una cittadina sconosciuta al grande calcio e l'hai condotta in cima alle attenzioni mondiali, se hai fatto diventare campioni dei giocatori scartati o se hai vinto uno scudetto con un budget ridotto all'osso. Il famoso curriculum è solo un foglio di carta pronto per essere usato in emergenza igienica: si faccia avanti il prossimo, ma faccia attenzione a non innamorarsi troppo dell'ambiente. Meglio rimanere freddi: gli addii sono meno dolorosi.

giovedì 23 febbraio 2017

a fondo perduto

Mi metto dalla parte degli allenatori che spesso lamentano l'inutilità dei propri sforzi. Lavorare con la specie umana è esaltante ma terribile allo stesso tempo: non è così facile ed automatico vedere risultati concreti, se non quelli spesso fallaci che appaiono sui tabelloni elettronici appesi ai muri e che raccontano una parte, a volte molto ridotta, di verità. Come non è detto che una vittoria sia indice di miglioramento, così una sconfitta non lo è di peggioramento. Nel campo della formazione, perché di formazione umana stiamo parlando, non c'è un rapporto diretto e immediato tra causa ed effetto: se c'è un pezzo di ferro storto, posso raddrizzarlo con una martellata; se c'è invece un errore tecnico ripetuto, non è detto che l'intervento correttivo possa dare dei benefici in tempi ragionevoli. Può essere, anzi capita molto spesso, che ci siano attori diversi tra chi semina e chi raccoglie: per quanto si possa ipotizzare il futuro di un giocatore, esistono spazi enormi di incertezza nel percorso tra un prodotto allo stato grezzo e finito in tutte le sue parti. Quindi è tutto inutile? No, non è tutto inutile, ma è necessario essere pazienti e generosi. Pazienti, perché i tempi di costruzione umana non seguono le stesse regole dei materiali solidi: se il mattone è l'unità di misura di una casa, per un giocatore non abbiamo parametri scientifici certi. Generosi, perché è possibile che un giocatore diventi tale prescindendo dalle nostre fatiche e prodezze: donare un giocatore senza appropriarsene significa riconoscere che nessuno è in grado, da solo, di risolvere i problemi della pallacanestro e che tutti, già proprio tutti, abbiamo bisogno uno dell'altro. Sarà capitato anche a voi l'amletico dubbio: dobbiamo essere contenti o arrabbiati che un cestista passato anche per le nostre mani ci faccia il deretano da avversario? Contenti certo, perché abbiamo contribuito a farne un giocatore. Arrabbiati certo, perché avremmo voluto averlo dalla nostra parte. Forse così assumono significato le parole del grande Boscia ' fare il bene senza un perché, a fondo perduto '. Già, a fondo perduto, è così che un allenatore sopravvive allo scoraggiamento: dare se stessi senza aspettarsi nulla in cambio. Che vita grama.

venerdì 17 febbraio 2017

basta la parola

La voce. Per chi gioca a pallacanestro, il sesto uomo in campo, soprattutto in difesa. Collaborare, mandando e ricevendo messaggi ( non virtuali ), gratificare per un passaggio ricevuto, incoraggiare  risollevando l'umore, arrabbiarsi per dare e ottenere il massimo. Eppure la voce, soprattutto per i giovani in campo, rimane un grande tabù: nessuno parla, nessuno avvisa, pochi incitano se non in rare occasioni. La voce è la differenza tra una somma di singoli e una squadra vera: da una parte un insieme scomposto di pseudo giocatori costruito sulla sabbia, dall'altra un gruppo di cemento armato con identità e appartenenza indistruttibili. Com'è che la confusione, spesso chiassosa, degli spogliatoi non si riversa quasi mai in campo? Sembra di assistere ad una messa: l'arbitro come celebrante, i chierici al tavolo, i giocatori come fedeli osservanti del silenzio, i canestri veri altari proiettati verso il cielo. Ogni tanto si sentono le urla disperate degli allenatori e qualche sortita infelice dalla tribuna: chi dovrebbe parlare tace e chi dovrebbe tacere parla. Spesso la parola viene usata nel peggiore dei modi: per accusare gli altri, per trovare alibi al di fuori di se stessi, per lavare la coscienza con l'acqua quando servirebbe un quantitativo straordinario di sana umiltà. Questa è la cosiddetta voce distruttiva, quella che avvelena e che lascia strascichi fallimentari: di gran moda oggi, purtroppo, perché ferire assomiglia più ad un vanto che ad una colpa. In panchina invece di urlare e di gesticolare, si chiacchiera: certamente molto elegante, ma poco redditizio. Chi partecipa e vive la partita in attesa, si farà trovare sicuramente pronto quando l'attesa avrà fine ( a meno che, si spera di no, l'attesa non abbia mai fine, ma questa è un'altra faccenda ). C'è anche una voce interiore che va ascoltata, quella che dopo ogni errore ci dice di dimenticare e andare oltre e dopo ogni prodezza ci dà una bella pacca sulla spalla: imparare a parlare con se stessi è come giocare con un amico accanto che ci consola e ci premia in continuazione. Nel tentativo maldestro e infausto di correggere le mie sclerotiche abitudini, una madre coraggio un giorno mi avvicina dicendo ' ma lei non dice mai una volta bravo '. Al che ho risposto con la mia solita sgarbatezza ' signora, ma le pare che dopo un canestro, con tutto quello che succede dentro, sia necessario aggiungere qualcosa? ' . Lascio a voi la fine della storia. Ero giovane e inesperto, a quel tempo.

lunedì 13 febbraio 2017

a me gli occhi




Rubando questa splendida immagine - lo ammetto non sono del tutto imparziale - non posso fare a meno di pensare al potere degli occhi. In una recente intervista, dopo il ritiro dalle scene pubbliche ( ahimè ), Ivano Fossati ha confessato che le canzoni, prima che con le parole e la musica, si scrivono con gli occhi. Bene, anch'io sono convinto che la pallacanestro, prima di tutto, si giochi con gli occhi. Non è solo un esercizio di osservazione, è qualcosa di più profondo: è intuito, lettura delle emozioni, cattura delle intenzioni altrui. Guardare in faccia l'avversario per dare e ricevere informazioni che nessun video o scout possono fornire: non ci sono emozioni nello sport che gli occhi possano nascondere, così come captare lo stato d'animo degli avversari può essere un'arma legale per guadagnare un vantaggio incolmabile. Quante volte ci è capitato di vedere sguardi proiettati a terra come segnale inequivocabile di resa: possiamo continuare a disegnare i nostri schemi sulla lavagna, ma se i giocatori guardano in basso è tutto tempo e pennarello sprecato. Gli occhi sono la porta del cuore: un giocatore non può trattenere il fuoco che ha dentro e non servono parole migliori per comunicare agli altri la fedeltà alla bandiera. Quando l'allenatore parla in spogliatoio, i giocatori sono di fronte e gli sguardi si incrociano: non c'è solo ascolto, c'è interpretazione dei sentimenti, condivisione di emozioni, sostegno reciproco. Nella pallacanestro, gli occhi oltre a vedere, parlano, ascoltano, sorridono: in pratica, come ho già detto, hanno tutto quello che serve per vincere. In questa foto ci vedo fierezza, consapevolezza, orgoglio, sfida. Ma anche rispetto, controllo, ponderatezza, calcolo. Milioni di stati d'animo in un millesimo di secondo. Voi cosa vedete che io non vedo?

mercoledì 1 febbraio 2017

sopra la panca

Sia chiaro: nessuno prova piacere nel tenere il deretano incollato al legno; tutti vogliono giocare 40 minuti e, se necessario, anche i supplementari; guardare, applaudire, girare l'asciugamano non è la stessa cosa di prendere il cuoio in mano, stare giù sulle gambe, saltare e, per i privilegiati, schiacciare; le squadre migliori sono quelle di 5 giocatori ( a detta dei giocatori stessi ). Eppure la panchina esiste ed è spesso affollata, particolarmente di carne fresca scalpitante che non vede l'ora di alzarsi e dare il proprio obolo alla causa comune. La panchina è perfino indispensabile: in partita, se un giocatore si infortuna o esce per falli; in allenamento, per usare tutto il campo a disposizione. Anche dal medico si sta seduti, in attesa del proprio turno: in panchina, non è detto che il proprio turno arrivi, a meno che qualcuno dall'alto stabilisca con imperio - e con grande umiliazione per gli operatori - che tutti debbano entrare in campo. Si potrebbero scrivere trattati epici rispondendo ad un'unica domanda: il campo è un diritto? Cerco di dare una sola e sintetica risposta: è un diritto finché un giocatore non ha possibilità di dimostrare quanto vale. Ci sono giocatori che conoscono il valore dell'attesa e che aspettano serenamente - che non significa felicemente - in fila facendosi trovare pronti al momento opportuno: mi vengono in mente i/le freshman dei college americani oppure i vari Dada Pascolo, Fontecchio e Abass, solo per citarne alcuni tra i più conosciuti. La panchina non è una sala d'attesa, piuttosto una rampa di lancio: chi entra scarico perché offeso e - a suo parere - umiliato, non farà altro che prenotare un abbonamento con posto seduto assicurato. La panchina, per chi allena, non dovrebbe essere un peso, ma un'opportunità: quando il cliente non è soddisfatto, si tirano fuori altri prodotti. Non sono un ripiego: sono la risposta efficace ad una precisa richiesta. Con i giocatori bisogna avere cura e coraggio: cura nel farli crescere e migliorare, coraggio di metterli in campo quando serve. Non è sentimentalismo, davvero è la panchina a fare la differenza: non è un caso che le partite si vincano o si perdono quando cominciano le rotazioni, quando i cosiddetti titolari diventano panchinari e viceversa. Sapete cosa mi piace di un campione come Vasilis Spanoulis? Che quando esce e va a sedersi, ormai sempre più spesso a 35 suonati, non fa il pensionato, ma si alza, urla, applaude. E se lo fa lui, che è il numero uno, lo possiamo fare tutti.

giovedì 26 gennaio 2017

il dadaismo ovvero ciò che gli altri non fanno

Dicono che non bisognerebbe far vedere Dada Pascolo ai piccoli cestisti perché ha una tecnica di tiro rivedibile: io dico, invece, che tutti i giovani dovrebbero imparare la sua determinazione, la voglia di migliorare, la sua capacità di usare il corpo e i piedi in spazi ristretti. È un autodidatta nel senso vero del termine: si è inventato un modo di giocare che calza a pennello con le proprie caratteristiche. Ha reso spettacolare ciò che normalmente viene ritenuto banale: le finte, il piede perno, il controllo del corpo e un cervello sopra la media sono sufficienti per mettere in ginocchio qualunque difesa, anche la più fisica. Ha aspettato con perseveranza e rispetto il proprio turno consapevole in cuor suo che il passaggio da Trento a Milano non sarebbe stato così agevole: avrebbe potuto continuare a fare l'eroe indiscusso ( come fanno tanti altri ) ma ha scelto di mettersi in discussione ricominciando da capo in un gruppo dove le gerarchie non sono definite. Di lui conservo un ricordo, mio personale, drammatico: 2007, Carnera, ultima e decisiva partita under 18. Udine già qualificata alle finali nazionali, Pordenone per andarci deve vincere: ebbene, quando la fame degli uni sembra avere il sopravvento sulla sazietà degli altri, ecco salire in cattedra Dada e con un finale imperioso sigla la vittoria e getta nella disperazione il clan naoniano. Un fuoriclasse, uno che tutti gli allenatori vorrebbero avere, uno che antepone gli interessi comuni a quelli personali, uno che entra in punta di piedi ma che non guarda in faccia a nessuno. Mi piace come gioca e mi piace come parla ( non è così comune, purtroppo ): da vero friulano, non spreca una parola e conosce l'onestà nella comunicazione. All'imbeccata 'ti fai sempre trovare pronto dovresti giocare di più' la risposta 'sempre sempre proprio no'. In queste parole è racchiuso il suo credo, fatto di volontà e impegno, e dove il vittimismo e la presunzione non trovano spazio. La nazionale arriverà, prima o poi anche il buon e bravo Ettore dovrà arrendersi all'evidenza: non c'è nessuno in Italia disposto a fare quello che non fanno gli altri come Dada Pascolo.

martedì 24 gennaio 2017

fortuna e audacia

C'è da chiedersi se la fortuna - ed ovviamente il suo contrario - esiste e che rapporto abbia con lo sport. C'è da capire se esiste una componente non programmabile, qualcosa che sfugge al dominio e che non è possibile allenare. Possiamo fare cinquemila tiri al giorno ma non abbiamo la certezza assoluta che il prossimo, magari il decisivo, vada a bersaglio. Allo stesso tempo si dovrebbe dire che i giocatori che spesso risolvono i concitati finali sono i più baciati dalla buona sorte: sappiamo che non è così, ci sono atleti nati per essere freddi e vincenti nei momenti che contano. Gli estremi sono pericolosi: pensare che un tiro esca per ragioni sconosciute conduce al l'assoluzione e alla passività, allo stesso tempo credere che entri esclusivamente per capacità e preparazione esclude la possibilità - inverosimile - che il gioco possa rientrare nel campo della imprevedibilità. Nella mia aggrovigliata vita interiore sono giunto alla conclusione che per quanto la sfortuna non abbia parte in causa, può essere che il suo contrario possa avere dignità di esistenza. Sembra una contraddizione, cerco di spiegarmi: se le cose vanno male non posso e non devo cercare alibi, allo stesso tempo se preparo le cose alla perfezione non è detto che funzionino. Pensare che ci sia un aspetto del gioco che non sia controllabile può avere anche degli effetti sedativi: se la sconfitta arriva all'ultimo secondo da metà campo, sarà certamente dolorosa ma non avrà ripercussioni sui sensi di colpa, se non per quello che si poteva fare prima e meglio. Sono invece sofferente alla cosiddetta dottrina della casualità: non è bene che i ragazzi crescano pensando che gli aspetti accidentali possano avere maggiore peso di ciò che è possibile governare con la propria volontà e determinazione. Rifugiarsi nel facile mondo della superstizione è come fuggire dalle proprie responsabilità, declinare ad altri ciò che è invece di spettanza propria. Non è vero, malgrado le credenze popolari, che i campioni siano stati eletti per volontà divina: ci viene fatto vedere il lato A dei privilegi e benefici, ma il lato B, quello oscuro, non è esente da sacrifici, dolore e lacrime. Non è tutto così già scritto e deciso: i giocatori che credono in se stessi e nella vittoria sono quelli che ribaltano pronostici e guidano le rimonte quando tutto sembra senza speranza. Ecco, ricapitolando: la sfortuna non esiste. La fortuna, come dice Seneca, aiuta gli audaci: presa da sola, come intervento magico, non può funzionare.

sabato 21 gennaio 2017

lascia o raddoppia

La scuola abbandona definitivamente il campo. Getta le armi e alza le braccia in segno di resa. Non è la coda, ma la stessa testa a mandare segnali preoccupanti: il ministero ha deciso che sarà la media e non il profilo a determinare l'ammissione all'esame di stato, la vecchia maturità. In soldoni, basterà prendere 8 in condotta ed educazione fisica - di certo non un'impresa - per compensare i 4 in latino e matematica o viceversa ( cosa meno probabile ma non impossibile ). Viene legittimato il principio per cui se si è asini in una disciplina, non è necessario scervellarsi o darsi da fare, è sufficiente concentrarsi su ciò che riesce o piace di più. Un ulteriore colpo gobbo alla collegialità del corpo insegnante: sarà divertente assistere, durante gli scrutini, ai lanci di accuse e agli sfottò da una parte all'altra del tavolo per capire se si sta parlando davvero della stessa persona. I ragazzi non sono per niente studiosi - a parte alcuni esemplari in via d'estinzione - ma conoscono perfettamente i punti deboli del meccanismo: basta mettere i prof uno contro l'altro per ottenere via libera e ottenere il diploma tanto agognato. Ogni giorno che passa la scuola fa un passo indietro: non è per caso che i ragazzi siano svogliati perché si è smesso di essere esigenti? Questa idea di istruzione facile - più che di buona scuola - non è forse una trappola per favorire la mediocrità e delegare alla giungla del mondo reale la necessità di fare selezione? È certamente un dato reale che il mercato del lavoro sia saturo, ma è altrettanto vero che non esiste - e qui mi permetto di dire, colpevolmente - un percorso formativo qualificato all'altezza dei requisiti richiesti. Tenere un profilo basso significa illudere che il percorso per ottenere una professione sia esente da complicazioni: la scuola, oltre a dare conoscenze, ha come compito principale quello di educare ad essere autonomi, a pretendere da se stessi, a farsi largo non tramite aiuti esterni ma con la forza di volontà e la motivazione. Per esperienza diretta posso dichiarare che i ragazzi oggi pensano che per ottenere un posto di lavoro siano necessarie fortuna e raccomandazione e che all'ultimo posto stiano le capacità personali, la creatività e l' autodeterminazione. Non voglio una scuola che insegni questa bugia, non voglio essere un insegnante gaglioffo: continueranno a detestarmi, pazienza, chiederò sempre il meglio. Cara amata scuola, da che parte stai: lasci o raddoppi?

giovedì 19 gennaio 2017

zoologia cestistica - seconda parte

ZOOLOGIA CESTISTICA - SECONDA PARTE
studio del comportamento degli animali da palestra

Par condicio vuole che tra gli animali da palestra ci siano specie e tipologie diverse anche nella  categoria degli allenatori. L'augurio è che, a cominciare dal sottoscritto, nessuno si offenda e abbia la nobiltà d'animo di stare al gioco. Naturalmente, come per i giocatori, nessuna descrizione sottintende un nome conosciuto ma è frutto esclusivo di goliardica fantasia.

I sergenti di ferro
Sono quelli che non ammettono deroghe e che hanno nel rispetto delle regole il proprio credo. Rocciosi e spigolosi, si fanno rispettare anche attraverso metodi non sempre gentili. I rapporti sono costruiti sulla distanza e nel riconoscimento esclusivo dell'autorità. I giocatori vivono nel terrore, ma la concentrazione alta per evitare figuracce e panchina può portare a risultati insperati. Efficace con alcuni gruppi giovanili di prime donne, molto meno con squadre fatte da giocatori maturi e autonomi.

gli stakanovisti
Sono quelli che odiano Natale di lunedì perché devono rinunciare ad allenarsi. Credono fanaticamente nel lavoro in palestra e abiurano la fortuna. Non esiste casualità né nella vittoria che nella sconfitta. Quando concedono un giorno di riposo, i giocatori si danno pizzicotti per essere certi di essere svegli. Ottima specie per squadre con coefficiente basso di talento, controproducente con giocatori di esperienza e/o di qualità.

Gli scaramantici
Sono quelli che se vincono una partita al supplementare con le mutande a rovescio, sono capaci di indossarle ogni volta con l'etichetta in fuori. Odiano il colore viola a tal punto da costringere eventuali tifosi a tornare a casa a cambiarsi il maglione. Talmente fatalisti da credere che le partite vengano decise più da episodi casuali che dalle prestazioni dei giocatori. Apprezzati da giocatori di alto livello, un po' meno da giovani in formazione.

I morbidosi
Sono quelli che hanno sempre parole delicate nei confronti dei propri giocatori. Non alzano mai la voce, non si arrabbiano, non intervengono quasi mai per correggere gesti tecnici o comportamenti. Sono in assoluto i più amati dalle famiglie visto che i propri figli si divertono senza troppi traumi. Il clima generale è sereno e tranquillo, c'è da valutare quale possa essere il grado di apprendimento. Dispensano sorrisi a destra e a manca, hanno in genere vita lunga e felice.

I perfezionisti
Sono i maniaci dell'esecuzione perfetta. Ore e ore di ripetizioni per affinare i movimenti e di continue correzioni per limare le spigolature. Conoscono il manuale della pallacanestro come le loro tasche e non si fanno mai trovare impreparati. Sono eccezionali con i giocatori in formazione, rischiano di essere pedanti e noiosi con quelli già formati. La vittoria non è il fine, semmai il mezzo. Se viene concesso loro il tempo necessario, possono fare miracoli. Non sono amati dai presidenti ambiziosi.

Gli speculatori
Sono quelli che venderebbero anche la madre per una vittoria. Non importa come e quando, fondamentale è ricevere il referto rosa. Usano i giocatori a loro piacimento e in funzione del risultato. Passano ore e ore in allenamento a ripassare schemi offensivi e difensivi perché nulla deve essere lasciato al caso. Possiedono un campionario impressionante di alchimie tattiche che vengono rifornite regolarmente ad inizio stagione ad ogni giocatore tramite meticolosi e colorati quaderni tecnici. Il detto machiavellico 'il fine giustifica i mezzi' è il pensiero con cui si addormentano e si svegliano ogni giorno.



I mendicanti
Sono quelli più preoccupati dell'arbitraggio che dell'andamento del gioco. Passano più tempo a protestare che a dare istruzioni alla squadra. La filosofia sottesa a questa categoria risponde al seguente motto: prima o poi qualcuno mi ascolterà. E, difatti, a furia di insistere ricevono in genere qualche utile favore in chiave successo. In altri casi, purtroppo, la pazienza infinita degli arbitri si sgretola di fronte alla necessità comprensibile di dare un taglio all'insistenza: ecco che fioccano tecnici ed espulsioni, alibi solidi per cercare colpevolezza altrove.

I predicatori
Sono quelli che si inventano clinic di alta specializzazione quando davanti hanno alunni alle prime armi. Credono fortemente nel potere della parola e dell'ascolto, soprattutto di se stessi. Usano terminologie raffinate e ad alto effetto, ma perdono spesso di vista la capacità di tenuta degli uditori che si tengono in piedi aggrappandosi uno all'altro. Soffrono della sindrome da ultimo quarto, quando le parole sapienti poco possono di fronte all'esaurimento del carburante.

Gli urlatori
Sono quelli che usano la voce per allenare e per spiegarsi. A seconda dei decibel rilevati, i giocatori capiscono al volo se sia il caso di darsi da fare o finalmente alzare le mani dal manubrio. È possibile, passando per gli spogliatoi anche mezz'ora dopo che si siano svuotati, sentire l'eco che rimbalza da un muro all'altro e che non ha ancora finito la corsa. È difficile che i giocatori possano distrarsi ed è possibile che anche il malcapitato innocente possa prendersi delle colpe inesistenti.

PS: in verità, gli allenatori sono un po' tutto questo mescolato con gradazioni diverse. Un po' come la carbonara: c'è chi vuole la pancetta appena scottata e chi bruciata, chi con il grana sopra e chi senza. Per fortuna esiste la diversità: sapessi che noia vedere gli stessi gesti e sentire le stesse parole. L'omologazione non fa parte di questa piccola fetta di mondo.

zoologia cestistica


studio del comportamento degli animali da palestra


Oggi si gioca. E si scherza. Quella di seguito è una nomenclatura di possibili tipologie di giocatore: non c'è una graduatoria di merito, diciamo che si è fortunati quando non c'è uno sbilanciamento ma una giusta ripartizione fra modelli diversi. Lo studio non è scientifico, puramente legato empiricamente ad anni ed anni di osservazione.


I soldatini
Sono quelli sempre pronti ad eseguire gli ordini, senza chiedere spiegazioni e senza risparmio di energie. Sono adorati dagli allenatori, non danno problemi di nessun tipo e hanno un alto coefficiente di affidabilità. L'utilizzo è misurato e in genere speso nella metà campo difensiva quando c'è necessità di limitare qualche stella avversaria. Sono come gli elettrodomestici Rex, poche parole e tanti fatti. Si accontentano di essere utili per la causa, non sono invidiosi e in panchina aspettano senza troppo nervosismo il proprio momento. In attacco non hanno molte responsabilità, ma quando fanno canestro è una festa per tutti.

I chierichetti
Sono quelli che se la fanno addosso prima di entrare in campo. Hanno un basso livello di autostima e si limitano con preoccupazioni e paturnie inutili. La situazione potrebbe aggravarsi se dovessero esistere grandi aspettative nei loro confronti. Hanno bisogno di essere continuamente sostenuti e confortati. In genere il primo tiro è fondamentale per la buona o cattiva prosecuzione del gioco. In difesa hanno gambe molli e tremolanti. Se si accendono, potrebbero dare prestazioni inaspettate.

I faccia di tolla
Sono quelli che rispondono spesso e volentieri all'allenatore e che vengono puniti per incontinenza e mancanza di rispetto. Entrano in campo con atteggiamento sfacciato e non hanno paura di prendersi responsabilità e di metterci la faccia. Spesso giocano i palloni decisivi e nella fase in cui la squadra è in piena bambola la trascinano fuori dalle secche. Alcuni di questi diventano campioni per davvero, perché per sfondare ci vuole anche sfrontatezza e sicurezza nei propri mezzi. Gli allenatori in apparenza hanno verso questi un atteggiamento di insofferenza, in realtà sono felici di averli dalla propria parte.

I samaritani
Sono quelli che mettono la squadra davanti a se stessi. Sono realmente felici anche quando non entrano in campo, la cosa più importante è la vittoria. Usano molta voce e gestualità per aiutare i compagni impegnati e sono orgogliosi di far parte del gruppo. Quando entrano in campo, consapevoli dei propri limiti, restano dentro le righe e svolgono il compitino senza strafare e mettendosi a disposizione. Sono i preferiti dagli allenatori e, in genere, diventano allenatori a loro volta.

I Paperon de Paperoni
Sono quelli che mettono se stessi prima della squadra. È possibile che siano felici quando la squadra perde e tristi quando vince: tutto dipende dalla prestazione personale. Hanno un gioco bulimico, nel senso che ogni pallone che passa fra le mani viene tradotto in conclusione. Sono fissati con le statistiche, in genere prodotte dal clan famigliare e, in qualche caso, anche viziate in positivo. Hanno poco senso di appartenenza e amano stare con la valigia in mano, pronti a saltare su un nuovo carro che finalmente riconosce il talento nascosto. Per gli allenatori rappresentano le cosiddette mine vaganti: possono funzionare in alcuni casi, in altri avere effetto boomerang.



I belli senz'anima
Sono i classici giocatori d'allenamento ma non da gara. Atleti da copertina per capirsi. Ottimi dimostratori ma pessimi agonisti. Vengono ribattezzati, un po' malignamente, come giocatori finti. Quando è il momento di tirare fuori gli attributi, si nascondono dietro la colonna e fanno da osservatori. Purtroppo manca il fuoco sacro, ciò che trasforma un atleta qualsiasi in animale da guerra. Sono quelli che fanno più arrabbiare gli allenatori, che non riescono a capacitarsi della improvvisa metamorfosi da giocatori di prima classe a mezze calzette.

i coccodrilli
Sono quelli che frignano sempre e che trovano colpe e responsabilità esclusivamente al di fuori della propria sfera personale. Di solito nel mirino ci sono gli arbitri, ma ci possono essere altri validi alibi per spendere lacrime: le scelte dell'allenatore, il sole che entra dalle vetrate, il pubblico maleducato, la temperatura fredda ecc ecc. Hanno una gestualità inconfondibile: allargano spesso le braccia, sbuffano come vaporiere, aggrottano le ciglia. Con gli allenatori giusti, possono perfino trovare la spalla sulla quale piangere.

Appendice: le affermazioni contenute nell'articolo sono puramente casuali e non hanno a che fare con persone o fatti realmente esistiti ( giurin giuretto )

venerdì 6 gennaio 2017

l'eterno compiuto

Sono contento per Nicolò Nick Melli. Anzi felice. Uno che ha dovuto cercare fortuna altrove o, a seconda dei punti di vista ( vero ministro? ), un altro che è meglio avere fuori dai piedi. Sportivamente parlando, un bambino che è diventato uomo giorno dopo giorno, senza correre troppo e mai interrompendo la marcia. Sottovalutato in Italia, eroe in Germania. Nella sua barba incolta ( che, mannaggia, di questi tempi va proprio di moda ma ai miei ci scambiavano per terroristi ) c'è racchiusa tutta la vita, non solo cestistica: una faccia pulita da bravo ragazzo che, nel tempo, è diventato il simbolo di una bellissima città incastrata tra la bassa e l'alta Franconia. Credo che a Milano qualche domanda debbano farsela: come è possibile rinunciare ad un giocatore che non solo è un esempio di serietà professionale e di correttezza ma che nel tempo è diventato un top di eurolega? Quale giocatore straniero, nella città della Madonnina, incarna questi valori di appartenenza e attaccamento alla maglia? Ricordo questo ragazzo del '91 a Pordenone alle finali nazionali che giocava già con il gruppo '89 e che dava l'impressione di essere ancora in piena costruzione: diciamocelo, non è mai stato un super crack a livello giovanile, e per questo motivo spesso bollato come tenero e incompiuto. Non ci è sempre possibile conoscere il momento in cui un giocatore arriva a pieno compimento: alcuni accelerano i tempi ( e non è sempre un bene ) altri giungono a maturazione molto più tardi ma con risultati del tutto sorprendenti. Si potrebbe obiettare che Melli a Milano non sarebbe lo stesso di Bamberg: può darsi, visto che anche Simon e Kalnietis non sono gli stessi di Croazia e Lituania ( dannazione! ). Ma ci sono dati di fatto e numeri inconfutabili e, in seconda analisi, non sembra che nella città tedesca giochino dei brocchi visto che a rigor di classifica stanno meglio dei tanto decantati giocatori Olimpia. ( A proposito, citazione per Trinchieri, altro patriota transfugo e vincente ). Perciò, caro Ettore, tu puoi fare quello che vuoi - visto che sei il migliore - ma se fossi in te - e per fortuna non lo sarò mai - lascerei a casa l'eterno infortunato e promuoverei in pianta stabile 'l'eterno incompiuto' ( secondo gli stolti ). Saremo più piccoli di statura, più grandi di cuore.