"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 26 luglio 2014

dei o ciarlatani?

Vincenzo Nibali mi piace. Mi piace il suo istinto di attaccante. Mi piace il suo sguardo, sicuro e rassicurante. Mi piace la sua modestia. Mi piace il suo cuore, aperto e solidale. Mi piacciono le sue parole, semplici e inoffensive. Mi piace che abbia messo in imbarazzo i francesi. Di lui mi piace quasi tutto. Come mi piaceva ed esaltava Marco Pantani, quando partiva in salita e lasciava tutti sul posto. Come mi è piaciuto Lance Amstrong, fuoriuscito da una malattia grave e capace di stendere tutti e dominare per anni come di rovinare tutto per brama di successo e avidità. Combatto faticosamente nell'animo per scongiurare l'ennesimo sbaglio: l'innamoramento. Gli atleti, i campioni, fanno questo effetto: sono come eroi di leggende epiche e costringono ingenuamente l'anima a schierarsi, ad amare questi uomini come esseri immortali. Non é certo colpa sua se la diffidenza ha raggiunto livelli di saturazione: dicono che il ciclismo di oggi sia pulito, diverso da quello precedente, ma le scottature sono troppe e ancora vive per considerare la vicenda chiusa una volta per tutte. Nemmeno io, sono sincero, mi fido ciecamente: chissà se quelle accelerazioni in salita sono frutto esclusivo di allenamenti al limite della sopportabilità o se hanno derivazioni di altro genere e natura. La forma smagliante dimostrata al Tour é figlia di una programmazione impeccabile e di una metodologia di allenamento senza sbavature? Al momento la verità sembra essere questa. Spesso, però, i nodi al pettine escono in tarda differita e con un effetto ancor più deflagrante: le penose immagini di contrasto tra leggenda prima e tradimento poi sono ancora nitide nei nostri occhi. La caduta degli dei é uno spettacolo a cui non vorremmo più assistere. Facciamo così, Vincenzo: se l'ipotesi di reato - che ad oggi non sussiste ma che le eccessive disillusioni portano ad avanzare - cadrà in prescrizione, sarò il primo a chiedere venia per aver dubitato. Pagherò il mio debito inserendoti nella galleria degli indimenticabili. Per il momento mi limito a considerare la fredda realtà: sei il legittimo vincitore del Tour de France. Per il mito, lasciami ancora un po' di tempo. La storia, si sa, dá torto e dá ragione e se é vero che non hai nulla da nascondere, basta solo aspettare.

sabato 19 luglio 2014

in fila per amore

Il rischio di ripetersi é fatalmente alto, però i tempi suggeriscono ulteriori riflessioni. In nazionale non si stipula un contratto di lavoro: in nazionale si va per gioia, orgoglio, amore (parola grossa, ma necessaria). Se non esistono queste condizioni, l'insistenza si trasforma in pena reciproca. Ci sono giocatori in giro che darebbero un rene per vestire la maglia azzurra ( compreso lo scrivente, anche se ormai fuori dai giochi): forse con minore qualità, ma con maggiore attaccamento. Purtroppo l' ossessione per un risultato di prestigio in una fase storica di vacche magre ( abituati troppo bene forse? ) conduce spesso alla cecità o, peggio, alla volontà di non vedere. Tutti vorremmo ammirare il tricolore alzarsi, ma se ciò non fosse possibile - come purtroppo accaduto negli ultimi anni -, ci accontenteremmo di vedere gente che si sbatte in campo, che gioca rifuggendo da pensieri ricorrenti ad infortuni o alla sacrosanta ( per carità ) necessità di riposo. Non é certo un tiro sbagliato o un passaggio finito male che fa infuriare il popolo nazional-cestista: semmai una corsa lenta, una difesa molle, un rimbalzo facile concesso. In azzurro, più che nei club, visto che esiste libertà di scelta - non imposta da padri padroni padrini, procuratori e affini - il criterio dovrebbe essere chiaro: si mira al giocatore completo, fatto possibilmente di talento, ma anche di cuore, solidità, leadership, esemplarità. I ragazzi/e che vanno al palazzo a tifare, vogliono vedere una sporca dozzina di leoni che si buttano per terra: certo, anche le schiacciate e le bombe, ma in particolare la fierezza di vestire una maglia che solo a pochi eletti é permesso fare. Non sarei nemmeno spietato verso la diserzione: punire non farebbe altro che aumentare attenzioni non meritate e spostare l'accento sulla minaccia a fronte della volontà di scelta. In nazionale, come in qualsiasi rappresentativa a qualsiasi livello, ci si deve andare contenti, e lo si deve vedere dalle facce e dai comportamenti. Perché contenti? Perché c'è una fila fuori ad aspettare e perché c'è un popolo, piccolo o grande che sia, da rispettare e onorare.

sabato 5 luglio 2014

senza illusioni

Una grande piaga si sta abbattendo sullo sport giovanile. Ha dei connotati precisi: senza tanti giri di parole, si chiama illusione. O, meglio, disillusione, che altro non é se non la logica prosecuzione temporale della prima. Non é certo una malattia sconosciuta, ma diffusione e invasivitá negli ultimi tempi sono salite alle stelle e se non si provvede immediatamente a tamponare il fenomeno sono previsti tempi bui per l'agonismo con calo vertiginoso dei praticanti e, conseguentemente, risultati scadenti a livello di vertice. Molte le cause all'origine, in ogni caso ricondotte al comportamento sconsiderato degli adulti, che vedono nelle giovani leve lo strumento ideale per le proprie ambizioni. Tra i primi, procuratori senza scrupoli e poco avveduti, che preferiscono firmare contratti piuttosto che preoccuparsi della formazione tecnica dei giocatori: risultato? molti giovani restano a piedi perché sprovvisti delle abilità necessarie per giocare ad alti livelli. Genitori disposti a tutto - perfino in casi estremi a chiudere un occhio su pratiche illecite - pur di vedere i propri figli entrare nell'Olimpo dello sport italiano, con la conseguenza, quasi certa, che gli esiti non siano mai corrispondenti alle aspettative. Lo squallido panorama mediatico che pur di fare ascolti e lettori ha il grande potere di deformare la realtà scambiando per campioni giocatori di normale levatura. Ma anche tecnici - e mi ci metto anch'io nel grande calderone - pronti a scommettere su futuri talenti con dati troppo approssimativi e provvisori. Società che fanno investimenti su ragazzi ancora teneri strappandoli troppo presto dalle proprie radici trascurando aspetti fondamentali della formazione umana. Tutti quanti, per il bene dello sport e soprattutto dei giovani, dobbiamo fare un grande passo indietro. Estirpare tutte le pressioni innaturali e artificiali e mantenere in vita esclusivamente quelle insite ad una sana competizione che bastano e avanzano da se stesse. Proteggere - qui si che il termine ha un senso, non quello fazioso e controproducente quando i figli hanno torto - in maniera vigorosa i ragazzi da qualsiasi malsana esposizione, da quel mondo sportivo malato e costruito forzosamente che carica di richieste eccessive una mente incapace di rielaborare tensioni e conflitti. I ragazzi non vanno pompati, - soprattutto nella fragilità dei tempi odierni - prima o poi scoppieranno e ci troveremo di fronte ad un abbandono di massa. É sbagliato dire che se ne vanno perché non si divertono: se ne vanno perché sbattono contro un muro. Ma quel muro, volenti o nolenti, siamo stati noi adulti ad innalzarlo.