"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

venerdì 28 febbraio 2014

risi e sorrisi

C'è una bella differenza tra ridere e sorridere. La stessa differenza che c'è tra sbagliare e fare un canestro. Nutro una particolare predilezione per i giocatori con il sorriso. Un linguaggio del corpo inconfondibile: significa che tutto ciò che si sta facendo, dallo scivolamento sfinente alla schiacciata, produce contentezza, soddisfazione. Quando alleni giocatori sorridenti, hai la sensazione che la presenza in palestra abbia un senso e che tante ore di programmazione e sudore sul campo trovino naturale e logico compimento. I giocatori - e gli alunni - che ridono, al contrario, urtano il mio fragile sistema nervoso. Ridere in palestra é tutt'altro che essere contenti: mi fa pensare alla gazzarra di gruppo, alle serate scacciapensieri del branco, alla necessità di coprire con il rumore il grande silenzio che ci si porta dentro. Riesco ancora a concepire la risata animalesca e liberatoria davanti ad un bicchiere di vino: l'esercizio fisico, qualunque esso sia, necessita di presenza mentale e di ascolto delle sensazioni corporee. Non è un caso che la maggior parte degli infortuni avvenga in un clima di svaccamento generale dove le funzioni cerebrali lasciano il passo alla svogliatezza e goliardia. Quando si dice che i giocatori devono divertirsi, é fondamentale capirsi sui termini. Divertimento é godimento interiore, gusto nel fare fatica, piacere di condividere con altri gioie e dolori. Non è egocentrismo sfrenato, distrazione, necessità di far riposare la mente, soddisfazione dei bisogni elementari. Durante i ricevimenti collettivi, la famosa macelleria dei colloqui con i genitori, sento spesso ripetere che i ragazzi devono sfogarsi: mi umilia e mi offende pensare di avere il compito di riparare alle fatiche quotidiane. Pensavo di avere una piccola, seppur indispensabile, parte nella costruzione della personalità delle nuove generazioni. Sciocche illusioni. Ho allenato molti giocatori/trici con il sorriso e la mia carriera, malgrado non sia eclatante, non è ancora giunta al termine grazie alla presenza costante e nutriente di questi volti impressi nella mente. Non sono facce qualunque. Hanno nomi e cognomi. Un allenatore non vive di vittorie. Qualche anno fa, giovane e rampante, pensavo fosse così. Non servono parole. Un allenatore vive di sorrisi. 

martedì 25 febbraio 2014

avanti indietro



Lo sfogo di Arrigo Sacchi di questi giorni merita almeno una riflessione. L'uomo in questione non è mai stato il mio tipo: troppo pieno di sé per essere vero. È stato un innovativo ed ha vinto tanto, ma chi porta i capelli bianchi come me sa benissimo che il successo é stato in gran parte dovuto ai super uomini che scendevano in campo ai suoi ordini. Uomini che quel club non ha più conosciuto nemmeno con il binocolo, ma questo é un altro discorso. Il suo merito é stato quello di esplorare mondi nuovi e di contaminare le vecchie e tradizionali idee del calcio con la ricca letteratura presente in alcuni sport di squadra, in primis la pallacanestro. Quello che dice oggi però é buono e giusto e che la critica provenga all'interno del mondo granitico e fondamentalista del calcio é un segnale incoraggiante. Il tatticismo e l'esasperazione della fisicità stanno rovinando il gioco stesso: rischio che corrono tutte le discipline di squadra, pallacanestro compresa. Guardare una partita di soccer oggi é pressoché impossibile: una noia mortale, un vicendevole annullamento agonistico, soprattutto in Italia. Creatività assente, poco utilizzo della tecnica, forza atletica portata all'estremo, utilizzo sfrenato della tattica. Questi difetti diventano addirittura atti criminosi se applicati a livello giovanile. Ha ragione quando dice che bisogna ripartire dai fondamentali e dall'insegnamento dell'abc: l'ossessione per il risultato ha provocato, per ironia della sorte, l'eutanasia del gioco stesso. Per inseguire a tutti costi la vittoria, si finisce per perdere. Mi sono piaciute le parole di Seedorf: i discorsi sui moduli mi annoiano, preferisco che si attacchi in libertà, importante é la fluidità del gioco. Speriamo che seguano i fatti. Essere moderni significa tornare alle origini. Gli allenatori hanno il compito di fornire gli strumenti, non di indirizzare le scelte. Chi conosce la grammatica, sarà sempre in grado di scrivere. Ma chi vuole scrivere senza sapere la grammatica, commetterà sempre un sacco di errori. Come dice il buon Arrigo, un allenatore deve essere giudicato non per i titoli vinti, ma per la bravura e la capacità di insegnamento. Per andare avanti, dobbiamo tornare indietro: sembra un gioco di parole, in realtà é l'unica possibilità di salvezza per lo sport. 

venerdì 14 febbraio 2014

maturo a puntino

Una disputa stucchevole. Forse del tutto inutile. Come, del resto, la gran parte delle nostre conversazioni. Tra uno scrutinio e l'altro, per fronteggiare malinconia e frustrazione, é inevitabile l'utilizzo di manovre di alleggerimento per scoraggiare lo sprofondamento nella cosiddetta  depressione professionale. Intelligenza e maturità sono sinonimi? La mia collega di scienze - bravissima tra l'altro, modello per gli insegnanti - sostiene questa tesi. Secondo lei, un ragazzo intelligente non può non essere maturo. In pratica, non può essere intelligente un alunno che ha comportamenti devianti in ambito sociale e scolastico. La mia versione é la seguente: l'intelligenza é combinazione chimica di cellule - ironia della sorte mi trovo a duellare con chi insegna queste teorie - mentre la maturità é frutto di esperienze, trasmissione di cultura e tradizione, consapevolezza dell'importanza centrale delle abilità sociali. Per sostenere l'assioma, faccio spesso ricorso ad alcune terrificanti figure della storia passata e recente, delle quali si può dire ogni cosa fuorché non fossero intelligenti. Dittatori, criminali, speculatori, hanno potuto perseguire i propri nobili fini grazie alle capacità intellettive in possesso: convinzione mia che se queste persone avessero avuto un vissuto diverso il destino del mondo avrebbe preso un altro corso. Prova ne sia che le abilità di questi signori, in molti casi, siano state utilizzate a fini " benefici " - virgolettato perché non sempre i mezzi per perseguire il bene sono chiari e limpidi  - non appena si sono aperte le porte del carcere. Maturità significa possedere quelle doti di completezza umana che, inevitabilmente, possiamo ottenere nel corso degli anni grazie alle persone che frequentiamo, le esperienze che facciamo, le elaborazioni che faticosamente immagazziniamo. Semplificando di molto, l'intelligenza ci é data, la maturità ce la dobbiamo pian piano guadagnare. Attenzione, non c'è legame con l'età: ci sono bambini più maturi dei vecchi, a giustificazione del fatto che il cammino verso la saggezza non si ottiene per scatto d'anzianità, ma per scelta volontaria e quotidiana. Se mi è permesso l'aggiunta di una postilla, di intelligenza in giro oggi ne vedo molta, perfino troppa. Quello che preoccupa é l'assenza di maturità: é spaventosa l'idea che l'eccellenza cerebrale venga utilizzata male. Perciò saltano subito in mente due quesiti: é forse compito dell'educazione trasformare l' intelligenza in maturità? E lo sport, in questa impresa, ha un ruolo rilevante o secondario? Avessi risposte, non mi farei domande.