"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

lunedì 26 settembre 2016

ragazzi di vita

Non mi scandalizzo più, ormai. Per quanto i numeri, essendo freddi e neutri, raccontano solo una parte di verità, forse nemmeno la più importante. 6 giovani su 10 rimangono con i genitori fino ai 35 anni. Sono sinceramente più spaventato dall'idea di invecchiare assediato da problematiche che speravo aver lasciato definitivamente alle spalle: per quanto l'idea di futuro sia affascinante, comporta qualche controindicazione, in special modo incertezza e conseguente angoscia. Non ho né le capacità né la voglia di farmi complice di una situazione che è anomala e, diciamolo senza timore, tipicamente italiana. A tal proposito, interessante il siparietto fra i giornalisti e Frank De Boer: 'Giovane? Uno non è giovane a 24 anni. Si è giovani a 18-20' marcando un netto distacco tra la percezione nostrana e quella oltralpe. Piuttosto mi disturba la banale equazione permanenza=dipendenza economica che viene strombazzata ovunque come unica spiegazione del teorema. Nessuno discute che ci sia un problema di occupazione giovanile in Italia e che le attenzioni politiche su questi temi siano spesso inefficaci o insufficienti. Discuto invece sul concetto stesso di autonomia che, oggi più che mai, è in crisi sul piano culturale più che sociale. Ho un'idea elementare in testa: è autonomo colui che riesce a risolvere, e non a porre, i problemi. I nostri ragazzi non escono di casa non solo e non tanto perché sono senza soldi, ma perché non hanno ancora imparato a prendere decisioni e fare scelte senza dipendere da altri. È un sistema culturale, non sempre intenzionale e con le famiglie in primis - ma non solo! -, che rallenta la maturazione dei giovani. Sostituendosi nelle scelte e nella risoluzione dei conflitti non si fa altro che ritardare l'ottenimento dello status di adulto, che significa cresciuto, compiuto, portato a termine. In questo processo vizioso hanno enormi responsabilità persino la scuola quando accetta ultra ventenni in classe e lo sport che per far giocare i non più giovani inventa campionati che non hanno più senso di esistere. I ragazzi respirano l'assenza di fiducia e la paura di futuro che trasmettono le generazioni precedenti: forse dovremmo smetterla, come dice Vasco, di combattere tutti contro tutti, quasi sempre per motivi futili. L'indipendenza economica è dipendente - mi si passi il gioco di parole - da quella esistenziale: un ragazzo pieno di vita e con energia addosso ce la farà. Sempre.

giovedì 22 settembre 2016

passo e chiudo

Giuro - anche se non posso farlo sui miei figli - che questa sarà l'ultima volta. Chi deve scrivere ne ha piene le tasche, figurarsi chi deve leggere. Non sarà certo un insignificante personaggio della periferia italiana con il vizio della penna - ahimè oramai della tastiera - a determinare le sorti della nazione o a far cambiare idea ai governanti. Ribadisco - fino a sembrare noioso - che non covo interessi politici: giudizio immutato se ci fossero stati Berlusconi o Renzi al posto di Raggi. Non ho tessere, non ho padrini, non ho nemmeno vocazione e tantomeno ambizione. E mi piacerebbe che su questi temi si discutesse a mente libera fuggendo da sterili schieramenti. E non si s/ragionasse di pancia, come purtroppo si sta facendo. L'impressione è che a dominare la scena sia la paura: c'è davvero da preoccuparsi se questo comportamento timoroso rappresenta la genesi dell'amministrazione pubblica del futuro. Detto in parole povere, meglio non fare che rischiare di far male. Visto che parliamo di sport, da allenatore conosco bene questa non strategia: piuttosto di sbagliare un tiro, preferisco rinunciarci. Ottimo sistema per l'autocensura: a chi può servire un giocatore che decide di non giocare? Caro sindaco ( non mi piace la desinenza al femminile ), lei parla di irresponsabilità: ma è responsabile - scusi il gioco di parole - non prendersi responsabilità? Lei si è tolta un peso di dosso, accontentando le bocche degli 'affamati', ma ha valutato la ghiotta opportunità di dare un segnale forte al modo di fare politica? Perché non dimostrare alla vecchia nomenclatura che il nuovo si basa su fatti concreti e non su parole, sospetti, rinunce? Lasci che le dica, da vero amante dello sport, che non me ne frega niente delle medaglie e dei fenomeni che le indossano: mi interessa invece che i bambini, i ragazzi di oggi e di domani abbiano palestre, orari e attenzioni speciali per fare attività motoria. Benvenute Olimpiadi, se avessero dato ossigeno ad una dimensione della vita umana relegata ai margini della società: esagero? Si faccia un salto nelle scuole per capire quanto conti l'attività fisica. Riempirsi poi la bocca con frasi di circostanza del tipo ' nessuno c'è l'ha con lo sport ' sono capaci tutti e non costa proprio nulla. A sessantatré anni - questa sarebbe la mia età olimpica - forse non sarò nemmeno in grado di intendere e di volere, ma ora so che i figli e i figli dei figli vivranno in un paese che non ha coraggio di cambiare. Perché il cambiamento non si fa restando fermi. Ora ho davvero finito. E sono sfinito. Qui zero, passo e chiudo. 



venerdì 16 settembre 2016

materia prima

Il ragionamento di Vincenzino Esposito non fa una grinza. Che poi non è la prima volta che salta fuori. Parlare - in gergo sportivo - di giovani a ventidue anni è senza dubbio un paradosso. Anzi, per chi ha esordito in serie A da quindicenne suona quasi come un insulto. Per non andare troppo lontano - geograficamente intendo - anche un certo Domenico Fantin esordì a soli sedici anni con la  Postalmobili nell'anno della promozione dalla B alla A. Ma erano altri tempi: non esisteva l'esercito di stranieri che oggi invade - spesso ingloriosamente - i campi di gioco e che necessariamente impedisce al contingente italico di avanzare. Inoltre, non si usavano campionati tardo giovanili come paravento - l'under 20 di oggi per capirsi - perciò l'iniziazione, a volte brutale,  avveniva con largo anticipo sui tempi. Ma il vero motivo sta altrove ed è di origine culturale: sembra banale, ma i ragazzi di oggi invecchiano più tardi di quelli di ieri. Non è una affermazione di valore, è pura e semplice constatazione. Avete presente la pellicola che protegge lo schermo dei cellulari? Ecco, i nostri ragazzi hanno addosso quella pellicola. Non si sporcano, non si graffiano, se cadono non si rovinano. Si è creato intorno a loro un corpo gelatinoso che li tiene lontano dalle brutte esperienze. Gli adulti sono talmente spaventati - anch'io fra questi - che preferiscono soffrire piuttosto che far soffrire. La frustrazione non è più concepita come tappa di un processo, ma come spauracchio da evitare. La paura non è più un'emozione che rientra nella normalità, ma è una malattia da cui vaccinarsi o, alla peggio, guarire in fretta. La verità è che i ragazzi, se non obbligati, sono ben felici di non crescere: la sindrome di Peter Pan ha invaso tutti gli ambienti. Fate un salto alle scuole superiori per rendervi conto quanti giovanotti vi parcheggiano: con il principio, peraltro giusto, che l'istituzione scolastica debba accogliere tutti, siamo arrivati alla patologica applicazione che molti non hanno nessuna fretta di andarsene. Sarà solo il mercato del lavoro saturo? Spiacente Vincenzo, in questo clima è impossibile avere un sedicenne in squadra. Forse è cambiato il compito dello sport: aiutare i ragazzi a diventare grandi. Perché è l'unico ambiente che non vive di filtri - se non qualche genitore ansioso e paranoico. Le sconfitte sono sconfitte, le vittorie sono vittorie. Giochi male, panca. Giochi bene, campo. Agli allenatori oggi è richiesto, più di un tempo, di crescere uomini più che giocatori. Troppo facile e troppo bello avere il pezzo pronto. Oggi c'è solo materia prima.

lunedì 12 settembre 2016

una rete in sorte

Eccezione alla regola. Costretto dalle mie fissazioni malate ad un profilo basso, ho tenuto fino ad ora la tromba dentro la custodia. Il caso Schwazer mi ha allontanato e raffreddato da facili celebrazioni di imprese ed eroi olimpici: un crimine sportivo sopra il quale si è continuato bellamente a ballare. Del resto, se nella città dei fiori di fronte ad un vero suicidio si è andati avanti con lo spettacolo, figurarsi davanti ad un ex dopato con smania di rivincita. Giada Rossi fa eccezione. Non tanto e non solo in quanto conterranea. La sua è una straordinaria - e al tempo stesso ordinaria - storia di redenzione. Che va raccontata. Di chi ha avuto dal destino una schiena spezzata, ma anche una ferocia e voglia di lottare fuori dal comune. È sufficiente osservarla - quando la Rai ce lo permette - con la racchetta in mano per capire: smorfie, esultanze, sbuffi, pugni chiusi, occhiatacce. Un vulcano in continua eruzione, un concentrato di mille emozioni racchiuso in pochi scambi decisivi. In tre parole: furore agonistico estremo. Alla faccia di chi pensa che alle paraolimpiadi si giochi per partecipare o si partecipi per gioco. D'altronde, come sarebbe possibile scherzare dopo anni passati in clinica, tra operazioni e strumenti ortopedici, riabilitazione e solitudine. Come sarebbe possibile lamentarsi per le temperature, gli alberghi, gli stipendi, i trasporti, come fanno gli atleti considerati normali. Giada si è trovata al bivio: mettere la rabbia - perché di questo si tratta - al servizio di messer vittimismo, oppure usarla per inseguire i propri sogni. Ha scelto la seconda via. Sognava di diventare campionessa di pallavolo: lo è diventata nel ping pong. In fondo, c'è sempre una rete di mezzo. Una rete in comune. Una rete in sorte.

venerdì 9 settembre 2016

sono giovani...

Mi rituffo ancora, stavolta con coefficiente di difficoltà alto, nella nota querelle Roma Olimpiadi. A costo di sembrare noioso e ripetitivo. Con un'avvertenza: sto cominciando ad arrabbiarmi. Non capisco, e non mi piace, questa pseudo idiosincrasia populista. Non capisco, e non mi piace, che lo sport e tutto ciò che gli è affine debba essere considerato come l'ultima ruota del carro. Non capisco, e non mi piace, che a guidare la mano dei governanti ci sia la paura di sbagliare e non la voglia di scommettere. Qualcuno si è chiesto come mai la Gran Bretagna a Rio abbia superato la Cina posizionandosi solo dietro al rullo USA? A nessuno viene in mente che possa esserci stato un effetto Londra in un risultato così brillante? Le medaglie non sono frutto del caso, - in Italia un pò di più purtroppo - rappresentano la punta di un iceberg voluminoso e solido. Come dice Campriani, che non se ne intende solo di pistole e fucili, l'effetto collaterale dei Giochi in Inghilterra è stato impressionante: a parte le strutture, l'attività motoria ha ricevuto un impulso considerevole, e soprattutto, capillare. È sufficiente aprire gli occhi per capire che la popolazione italica non è certo affetta di sindrome da eccesso di movimento. Spiace dirlo - e il punto di osservazione è sufficientemente credibile - ma la percentuale di ragazzi sovrappeso o con cattive posture e abitudini sta aumentando di anno in anno: l'abbandono precoce e le sirene della vita sedentaria stanno mettendo a dura prova la salute delle nuove generazioni. Visto che si parla spesso di costi, vogliamo aumentare le patologie così da riempire gli ospedali e mettere in ginocchio la già sofferente sanità pubblica? Lo ripeto per l'ennesima volta: le olimpiadi non rappresentano esclusivamente la passerella di quattro campioni idolatrati e iperfotografati. Sono anche una vera opportunità per lanciare una grande campagna dove l'attività fisica non sia un privilegio di alcuni, ma patrimonio di tutti. La cosa che mi manda su tutte le furie è però un'altra: mettere in contrapposizione due necessità per sceglierne una facendo leva sugli umori collettivi. Più importante e urgente costruire un asilo piuttosto che una palestra. E costruirli entrambi evitando altri sprechi? Fatemi capire: palazzinari e infiltrazioni mafiose compaiono di colpo solo in queste circostanze? E dare un'immagine al mondo e a noi stessi che siamo in grado di fare e organizzare  in modo trasparente e irreprensibile farebbe schifo? Mi spiace, io non mi accodo al coro demagogico " ci sono cose più importanti ". Mi chiedo, ormai in declino fisico, cosa ci sia di più importante della salute dei cittadini. L'unica risposta che so dare: sono giovani....

mercoledì 7 settembre 2016

operazione scuole pulite

Alcuni ci hanno provato. A dissuadermi. Ma la proverbiale indole da piantagrane autolesionista non mi permette di tacere. La preside, finalmente, è in castigo, dietro la lavagna. Finalmente abbiamo un colpevole. Finalmente gli istinti più viscerali della piazza - virtuale e non - hanno trovato appagamento. Una vittima non può rimanere senza carnefice, ecco dunque una testa servita sul vassoio. Basterà a placare gli animi assetati di vendetta? Nel mio girovagare tra le scuole come semplice insegnante non ho mai ambìto a frequentare i piani alti: non ho quindi motivo nè interesse a difendere un dirigente, ma quello che vedo e che sento ha poco a che fare con le mostrine e le stelle. Parliamo di responsabilità o, meglio, utilizzando un termine tecnico legale, di concorso omissivo in atti persecutori. Il bullismo, senza volerne sminuire i devastanti effetti, è un fenomeno sempre esistito. Alzi la mano chi non ha mai subìto angherie o sfottò da coetanei strafottenti, a volte anche con conseguenze a livello fisico. Ciò che manca oggi è la capacità di difendersi, anche perché spesso, se non sempre, l'interlocutore non è a portata di tiro ma compare in forma indiretta ed incorporea e per questo non decifrabile. A costo di sembrare di retroguardia, non ho timore nell'affermare che i cellulari, per i ragazzi, sono delle trappole utili solo a ruminare angoscia e rabbia: un messaggio ricevuto, senza una mediazione fatta di sguardi e voci, può avere un effetto deflagrante in un minore che non conosce strumenti di codifica. Lo stesso vale per i social network: la frustrazione e la cattiveria spesso sprigionata possono condurre a comportamenti folli e irrazionali. Questa battaglia virtuale, per quanto possa nascere all'interno di un contesto scolastico, si svolge su altri terreni, sconosciuti e inviolabili. Ci sarebbe dovuta essere maggiore vigilanza? Forse sì, forse no. Vorrei che si parlasse di vigilanza condivisa, dove l'ambiente scolastico rappresenta una parte e forse nemmeno la più importante. E vorrei che il rispetto fosse dato a tutti i minori, perché la cattiveria si impara: come afferma Rousseau, la natura innocente del bambino deve fare i conti con la corruzione della società adulta. Questa moderna caccia alle streghe non mi rappresenta. Pensiamo di aver risolto il problema sostituendo una pedina con un'altra? Trovare il colpevole significa aver sconfitto il bullismo? Se le famiglie e la scuola staranno sempre su barricate opposte, questo sarà solo il primo di mille casi a seguire. Trasferiremo tutti i presidi? Licenzieremo tutti gli insegnanti? Abbiamo già il nome: operazione scuole pulite.

lunedì 5 settembre 2016

imperfetto è perfetto

Esiste l'allenatore perfetto? Dico questo perché sento spesso parlare di giocatori o atleti che scelgono da chi farsi allenare. Ad alti livelli agonistici può essere lecito - vedi tennis atletica o nuoto, sport individuali in genere - anche se rimane uno spazio d'ombra con cui fare i conti: se il trainer non corrispondesse al genere atteso e voluto, che si fa? Altro giro, altro regalo? Federica Pellegrini ne sa qualcosa. Il consumo di allenatori è uno degli aspetti critici dello sport moderno: in quello antico, praticato dal sottoscritto per capirsi, l'allenatore - un po' come il maestro - era incontestabile e inamovibile. Nessuno si sarebbe mai permesso di chiedere un colloquio, tantomeno la testa su un vassoio: regnava un tacito patto educativo con divisione netta delle competenze. Non dico fosse meglio, mi limito ad esporre i fatti: sfido chiunque a dire il contrario. L'allenatore di oggi deve dare sfoggio di eclettiche virtù: competenza, conoscenza delle lingue, capacità didattica, doti relazionali, amore per la professione. Se uno di questi aspetti fosse carente, si accenderebbe la lampadina. Quell'allenatore è troppo severo, i ragazzi non si divertono; quell'altro è troppo buono, la squadra è moscia e non vince mai. Il terzo ha una conoscenza enciclopedica della disciplina ma non sa rapportarsi umanamente. Il quarto è una brava persona, i ragazzi lo amano, ma non insegna un fico secco. E così via, una catena infinita di modelli che indossano capi con difetti di produzione. Ho una teoria originale, maturata durante una carriera modesta ma di lungo corso: imperfetto è perfetto! L'imperfezione - che tra l'altro é tutto da dimostrare sia un abito negativo - suggerisce e stimola una reazione contestuale che colmi il difetto. Un esempio? Sarà il talento dei ragazzi a coprire il deficit tecnico dell'allenatore. Pensiamo davvero che i campioni escano solamente dalle mani dei tecnici più bravi e gettonati? Ma per favore....Lo stesso discorso vale per gli allenatori capaci ma bruti: non saranno le urla o i rimproveri a fermare le motivazioni di chi ha un sogno in testa. Insomma, c'è come una forma di compensazione tecnico atleta dove insegnamento e apprendimento si mescolano a vicenda. È possibile che bravi allenatori producano buoni atleti ma è vero anche il contrario. Non ammetterlo sarebbe una grande ipocrisia. Ammetterlo, una bella e corroborante dose di sana umiltà.