"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 28 dicembre 2013

l'anno che verrà


Vorrei potermi/vi convincere che l'anno che sta sfiorendo sia peggiore di quello che sta per sbocciare. Vorrei poter dire che domani non ci saranno più guerre e pestilenze, l'aria sarà più respirabile, i rapporti fra gli umani più cordiali e corretti. I parlamentari si ridurranno lo stipendio mentre gli operai non perderanno il lavoro. Il Milan vincerà lo scudetto, l'Olimpia Milano l'eurolega,  Balotelli non si farà più espellere e Bonera, difensore sottovalutato oltre che prete mancato, diventerà per acclamazione popolare il giocatore modello dell'anno. A Pordenone nascerà una nuova era di collaborazione fra le società di pallacanestro. I giornalisti, soprattutto locali, smetteranno di fare inutile ed offensivo gossip e cominceranno a raccontare le verità che contano. I dirigenti abbandoneranno i primi posti in parterre e finalmente si rimboccheranno le maniche. Gli allenatori abbracceranno la filosofia del dubbio mentre i giocatori, specialmente giovani, si lasceranno ammaliare dalla religione delle ginocchia sbucciate. Il pubblico, specialmente adulto, si convincerà  dell'inutilità, anzi dannosità, dei propri urli e abbandonerá alla chetichella i propri posti in tribuna per fare spazio agli amici e, perché no, fidanzate e morosetti. Gli arbitri scherzeranno con allenatori e giocatori e invece di dare tecnici tireranno le orecchie, alternando meticolosamente e ritmicamente il lobo destro al sinistro. Tutti saranno felici e smetteranno di lamentarsi. Ciascuno avrà innumerevoli motivi di gratitudine ed il perdono sarà lo sport nazionale più praticato. Dal saluto a denti stretti passeremo al sorriso convinto e dalle strette di mano agli abbracci. Non ci saranno più azioni legali e denunce e gli avvocati dovranno escogitare altri sistemi per guadagnare il pane quotidiano. L'anno che sta arrivando, fra un anno passerà. Io mi sto preparando: é questa la novità. 

domenica 22 dicembre 2013

le parole del silenzio


Immagino, quella notte. Buio, freddo, silenzio. Soprattutto silenzio. Forse il soffio del vento, il respiro di uomini e animali, il pianto di un bambino - un bambino qualunque, giovane incompreso , morto tragicamente  -. Nessun suono, nessun rumore, in particolare nessuna parola. Le parole: fatte per amare, per esprimere emozioni, per consolare, per perdonare. Oggi spesso usate per offendere, aggredire, preoccupare, umiliare, maledire. Parole che salvano e tolgono la vita. Abbiamo talmente oltrepassato il limite da non renderci conto di quanto bene o male facciano le parole dette e, talvolta, taciute. Di quale spirale perversa siamo a volte complici nel dar fiato e credito a dicerie, leggende, pettegolezzi. Oggi, il presepio chiede silenzio. Nel silenzio emerge la versione buona e ragionevole dell'umanità. Certo, esiste anche un mal silenzio: quello delle incomprensioni, della incomunicabilità, dell'ipocrisia strisciante. Ci si può far male a parole, ci si può far male tacendo. Però di quel silenzio, di quello vero e buono, ne abbiamo bisogno. Ne ho bisogno. Ricordi, immagini, persone, emozioni: liberare ciò che ci tiene in vita. Il silenzio ci invita a scrivere, più che a parlare: non messaggini standardizzati, ma lettere vere, magari con la penna. La paura ha riempito il silenzio: musica, cuffiette, auricolari, cellulari. In realtà, tutto ciò di cui abbiamo davvero bisogno lo troviamo dentro di noi. Il resto, é solo rumore. Rumore assordante.

Un abbraccio e un augurio a voi, miei fedeli e prodi lettori. Ci vuole coraggio, non solo nello scrivere, ma anche nel leggere!

martedì 17 dicembre 2013

dalla pallacanestro al basket




Sorrisi, abbracci, forse qualche lacrima - naturalmente nascosta, perché chi fa sport non deve piangere! -. Merito di un libro, delle sue foto, dell'uomo che faticosamente e meticolosamente ha messo insieme 80 anni della storia della pallacanestro pordenonese. Che é poi la storia di ciascuno di noi: se non ci fosse stato Dado Lombardi, se non gli fosse venuto in mente di passare di qua,  chissà ora dove saremmo tutti quanti. Colpiti e affondati da un omone livornese di origine - perciò inevitabilmente focoso - che faceva paura solo a vederlo. Un giorno mi passó accanto, avevo 14 anni, e mi chiese se mi avrebbe fatto piacere giocare nella Romolo Marchi. Certo che mi avrebbe fatto piacere! Finalmente avrei avuto quell'alieno di Domenico Fantin dalla mia stessa parte e forse avrei potuto giocare qualche finale nazionale. Ma ero tesserato con l'Edera, la vecchia società repubblicana, e Bosari, presidente nonché dirigente tuttofare - perché a quel tempo i presidenti facevano tutto -, mi avrebbe impalato all'istante. In qualsiasi caso, non avrei avuto scampo: decisi di restare, un po' per codardia e un po' per fedeltà, così tornai alle irrimediabili stoppate dell'uomo con le antennine maledendo ogni giorno la scelta, o non scelta, fatta. Mario Ferracini, burrascoso ma indefesso allenatore della squadra, ci riunì in spogliatoio dicendo che avrebbe lasciato andare chiunque ne avesse fatto richiesta: stavo per alzare la mano quando cominció ad elencare gli obiettivi tecnico-tattici della nuova stagione. In sostanza non me ne andai perché fui troppo lento. Così capii l'importanza del tempo: se arrivi tardi, perdi. Questo vale anche oggi, dopo quasi quarant'anni. Malgrado non fossi un fenomeno come giocatore e non avessi mai vinto niente in carriera, conservo gelosamente ancora oggi il mio inattaccabile alibi di ferro: nacqui purtroppo nello stesso anno del giocatore locale più forte mai visto in città. Sfido chiunque a contestare la veridicità di questa tesi. Lombardi non era solo l'allenatore della prima squadra: non perdeva una partita delle giovanili stando in tribuna e, talvolta, quando le cose si mettevano male, ci metteva poco malgrado la mole a scavalcare le transenne del vecchio palazzetto ( quello con un piano solo, dove la domenica si stava pigiati mentre oggi che c'è un piano in più non si capisce a cosa serva ) e prendersi d'autoritá il posto in panchina spostando di peso il malcapitato allenatore nei guai. Se oggi possiamo fare pallacanestro, lo dobbiamo agli uomini che hanno amato prima di noi e come noi questo sport, questa città, questi colori. Grazie a Roberto Ponticiello e al suo lavoro certosino, questa storia non é più leggenda narrata, ma storia vera scritta e impressa nei cuori di ognuno. Malgrado le delusioni, le cadute, i tradimenti, le sconfitte, i rimpianti, siamo ancora qui a lottare e soffrire per la pallacanestro. Un motivo ci deve essere. O siamo masochisti o eternamente innamorati. Forse tutte e due le cose. 

sabato 14 dicembre 2013

sull'attenti

Nessuno mi chiederà nulla. Ma se, nella rara ipotesi che dovesse capitare, un solitario eroe dovesse porgere la fatidica e insolita domanda del tipo: qual'é la cosa più importante da allenare oggi? Per una volta, forse per la prima volta, non avrei esitazioni. Non il tiro. Non il passaggio. Tantomeno il palleggio. Men che mai la difesa. Direi: la concentrazione. Sissignori, perché la concentrazione non é presente in forma genetica, ma si allena. Soprattutto di questi tempi. Ditemi come é possibile rimanere attenti quando, contemporaneamente, la nostra gioventù é in grado di svolgere cinque funzioni in una sola: ascoltare, parlare, guardare, scrivere, pensare. Mentre voi spiegate un esercizio e gli obiettivi da raggiungere, la quasi totalità della squadra ha in testa l'ultimo motivetto, il rossetto della compagna di banco, le immagini dell'ultimo goal di Balotelli, le frasi ingiuriose quotidiane ricevute su faccia libro. Per fortuna, mentre sono in campo, al momento non possono scrivere e ascoltare musica, ma non siamo molto lontani dall'avvento di qualche perverso marchingegno che permetterà di fare più cose. É di questi giorni, quindi fresco di stagione, l'ultimo assalto all'autoritá didattica: un alunno mi si presenta con la giustificazione mentre sulle orecchie sta ascoltando il brano preferito. Gli ho detto di non scomodarsi, così non ha nemmeno ascoltato gli insulti per l'ennesima performance da perfetto lavativo. Questa é davvero la battaglia del secolo: non é la stessa cosa eseguire un esercizio o partecipare attivamente al processo di auto miglioramento. Pretendere la massima attenzione e presenza mentale significa aiutare i giocatori a diventare consapevoli ed autonomi in campo. Ho una debolezza: non sopporto le panchine che teleguidano i giocatori in campo. É come ritardare il processo di crescita, come imparare le tabelline a memoria e non saper spiegare i teoremi. Se vogliamo che un giocatore diventi adulto, occorre che sbagli: certamente va rimproverato, ma non va prevenuto l'errore. La filosofia orientale, meglio di tutti, ci insegna il segreto del qui e ora: gustarsi una cosa alla volta cercando di cogliere in profondità il segreto nascosto in ogni attività dell'uomo. Insegnare ai ragazzi ad essere concentrati pretende, prima di tutto, che noi allenatori si enfatizzi l'importanza di ogni scelta: fare una cosa o farne un'altra non é la stessa cosa, scelte diverse hanno conseguenze diverse. Combattere la distrazione non é un'impresa semplice, ma necessaria se non vogliamo trovarci con giocatori perennemente immaturi o succubi passivi del gioco. Lo dice anche Tavcar: la pallacanestro é un gioco per gente intelligente. La concentrazione é la porta d'ingresso: se rimane chiusa, o se troppe porte restano aperte, il risultato sarà catastrofico.

giovedì 28 novembre 2013

battaglie perse

Mi prende spesso la folle idea di cambiare mestiere. Ormai troppo spesso e non é un segnale confortante. Lavorare con i giovani é affascinante e suggestivo ma, ahimè, decisamente logorante. Ci sono alcuni aspetti sui quali é impossibile incidere: primo fra tutti, il cosiddetto fenomeno della tempesta ormonale, imprevedibile e incontrastabile. Non c'è nulla da fare: quando il corpo esplode, i freni inibitori vanno a farsi friggere. Non è un caso che l'età più pericolosa - ed incosciente - coincida con i primi anni dell'adolescenza o, se si preferisce, con gli ultimi della pre adolescenza. Scolasticamente parlando, terza media e prima superiore. L'organismo é come una locomotiva a piena velocità, mentre la testa é in perenne stand by. Corpo e mente sono fuori equilibrio. La percezione del rischio e delle conseguenze é limitata al minimo sindacale: infatti, gli infortuni in palestra sono all'ordine del giorno. Per non parlare dei danni provocati non solo alle persone, ma anche agli oggetti e agli ambienti. Se andate nelle curve, vi accorgerete che l'età media non supera i 16: finalmente un luogo dove non esistono regole o limitazioni. Oltre agli ormoni, esistono altre variabili, non dettate dal ciclo vitale, che possono allentare o addirittura maggiorare il livello di instabilità. Sopra tutte, la presenza o meno di adulti significativi. É risaputo che in coincidenza con la pubertà cresca naturale l'insofferenza verso ciò che rappresenta l'autorità o la legge. I genitori e gli insegnanti sono i primi bersagli. La mia impressione, ma potrei sbagliarmi - anzi, vorrei sbagliarmi - é che gli adulti, di fronte alla difficoltà del compito e alla durezza della lotta, abbiano deciso di abdicare alle proprie responsabilità educative. I ragazzi sono abbandonati a se stessi, artefici del proprio destino e in assenza di punti di riferimento. Non sono così convinto che la strategia della lontananza o del lasciar perdere sia, alla lunga, così vincente. Il mio campo di battaglia quotidiano, la cucina, non é mai disabitato. Non sono molto simpatico agli abitanti, ritengo però non si debba far passare mai nulla per scontato. Spesso si confonde ciò che é possibile fare con ciò che é giusto fare: pur di passare da bigotto, non mi rassegnerò mai a combattere questi concetti. Anche a scuola e in palestra non ho l'anda di chi potrebbe essere invitato a cena da un momento all'altro: forse dovrei allentare la presa ogni tanto, se non altro in un'ottica di conservazione della salute. Spesso colmiamo, senza presunzione, il vuoto lasciato da altri. Non é di certo conveniente fare gli sceriffi, ma forse é più utile. Nella certezza, comunque, di essere nel campo delle ipotesi e dove gli interventi sono in realtà tentativi maldestri. Una tattica di gioco, in questo campo, non esiste. Spesso, purtroppo, la nostra é una battaglia persa.

giovedì 14 novembre 2013

martiri di gioco



Ora faccio il bigotto bacchettone. Del resto mi ci trovo bene. Insegno. Alleno. Non posso fare a meno della morale. La  predica é la seguente: la violenza non é mai giustificabile. In nessun caso. Anche se la stessa offesa é violenta. Anche se le leggi sono ingiuste. Anche se sono a rischio la famiglia, il lavoro, la stessa vita. Anche se minacciati. Legittima difesa? Parliamone, l'estensione del concetto può spaventare. Guerra giusta? Due parole che non possono sposarsi. Perciò non posso accettare, nella mia mentalità ortodossa, che nelle vicende di Salerno si possa parlare di inevitabile effetto date le cause. Non mi piace nemmeno la legge restrittiva sugli stadi: infatti, ha già mostrato le sue crepe e l'inadeguatezza del caso. Non é un problema di repressione. É un problema di cultura sportiva e di cultura in generale: se vi capita di frequentare qualche adolescente, di qualsiasi estrazione si parli, vi accorgereste dell'abbandono in cui spesso si trova a vivere. Gli adulti hanno abdicato alla funzione educativa e questi sono i risultati: generazioni senza freno e controllo, che danno un senso all'esistenza esercitando la forza intesa come identità del branco. Presi da soli, sono tutti bravi ragazzi di brave famiglie: presi insieme, si trasformano in animali che devono difendere il territorio. Ha ragione Michele Serra quando dice che allo stadio ormai ci vanno solo i blindati in tribuna d'onore e i teppisti in curva: il tifoso normale ha già optato da tempo per la poltrona e l'abbonamento televisivo. Per sconfiggere la violenza ci vuole coraggio: ecco perché contesto l'atteggiamento dei giocatori. Avere coraggio non significa non avere paura: ma se nel nostro nobile passato non ci fosse stato qualche indomito, non potremmo vivere in una società libera - almeno apparentemente -. Deleterio e incomprensibile l'annuncio del dirigente di dimissioni di massa: l'arrendevolezza é l'alimento più sostanzioso per i delinquenti. La storia, non solo e non tanto calcistica, insegna che alla brutalità non si deve cedere. Non potendo rispondere alla violenza con la violenza, per il postulato espresso in alto, non c'è altra strada: fare il proprio mestiere fino in fondo. L'arma spuntata ma più efficace per i calciatori é riprendersi il campo di gioco. A volte, la risposta é più semplice della domanda. Martiri di gioco.

martedì 12 novembre 2013

alibi da parte

Se l'argomento principale di una partita di pallacanestro diventa la direzione arbitrale significa che é in corso una fase degenerativa e, per certi versi preoccupante, del nostro bellissimo sport. Ho sempre pensato agli arbitri come ad una componente essenziale ma non sostanziale del gioco. Non é richiesta perfezione: del resto, esistono giocatori o allenatori perfetti? Casomai sono richiesti serietá, impegno, rispetto. É innegabile, se manca qualcuno con il ruolo di garante delle regole, non è possibile disputare alcun incontro agonistico. Allo stesso tempo, rimango convinto che non sia l'arbitraggio a determinare l'esito di una gara. Sarebbe troppo semplice scaricare su altri le proprie incapacità. Non si capisce come, ad esempio, nessuno sia disposto ad ammettere di aver vinto per merito degli arbitri, mentre il contrario é praticamente sulla bocca e nelle cattive abitudini di tutti, allenatori di grande fama compresi. Questo malvezzo diventa insopportabile e improduttivo soprattutto se riferito a competizioni giovanili. Non mi soffermo sullo spettacolo indecente a cui spesso capita di assistere quando gli adulti presenti in tribuna, pur di proteggere gli inevitabili errori dei piccoli giocatori, danno la peggiore immagine di sé ingaggiando furiose liti con altri spettatori o gridando di tutto ai direttori di gara, spesso giovani ed inesperti. Ciò che interessa e preoccupa veramente sta invece nella cultura dell'alibi che si insinua precocemente nella mentalità delle nuove generazioni. Se un allenatore si occupa degli arbitri e non dei propri giocatori significa che non ha capito nulla: c'é talmente tanto da correggere i propri che non avanza tempo per farlo con altri. L'obiettivo non é vincere a tutti costi una partita, semmai costruire giocatori forti nell'animo e nelle convinzioni. Pensare che la vittoria non dipenda dalla nostra prestazione ma da fattori esterni vuol dire affidare ad altro o ad altri il potere di decidere sulle sorti di un incontro. Un giocatore deve essere in grado, fin dalla più tenera età, di riconoscere i propri limiti: solo adulti saggi possono aiutare i ragazzi in questo difficile e tortuoso percorso dove le responsabilità non vanno cercate altrove ma dentro se stessi. Perdere una partita per guadagnare un giocatore: una partita si può sempre vincere, un giocatore si può perdere per sempre.

giovedì 31 ottobre 2013

tolleranza zero

Mi sono davvero rotto le scatole. Tolleranza zero. Non può esistere che un adolescente rifiuti di fare attività motoria. Nel bel mezzo del vigore fisico. La salute non è solo un diritto, é innanzitutto un dovere. Non è nemmeno un fatto di natura privata o personale: il sedentario danneggia la collettività. Due ore di educazione fisica alla settimana sono come una goccia d'acqua nel deserto: eppure, piuttosto di nulla, andrebbero spese nel migliore dei modi. Risultato? Il più delle volte, con la scusa di aver dimenticato l'equipaggiamento necessario, si rinuncia anche al minimo sindacale. Da giovane e invasato, sovente mi offendevo. Oggi, sono preoccupato. Generazioni molli, che crescono senza aver provato la fatica e che al primo ostacolo allentano la presa. Ci sono cose molto più importanti del benessere corporeo: telefonini, chat, video giochi, cuffiette. Divertimenti, oltre tutto, con costi energetici bassi. Non c'è partita tra una serie di flessioni a terra e l'ascolto di musica a tutto volume: che poi sia un problema per i timpani, é un dettaglio del tutto marginale. Attività pomeridiana? Forse due, tre su dieci. Abbandono precoce e non per colpa degli allenatori: eccessiva durezza fare tre, quattro sedute settimanali per poi fare un'apparizione fugace in campo. La tenacia non è più una virtù. Perciò resistono solo gli eletti, quelli che hanno un posto garantito in squadra. Per gli altri esiste solo l'agonismo virtuale, dove l'unico esercizio ginnico consiste nella coordinazione fine delle dita che si destreggiano fra un tasto e l'altro. Salvo poi, tra qualche anno, spendere una fortuna per rimettere a posto valori sballati o chili assunti. L'attività fisica, oggigiorno, é un'emergenza sociale e non è sufficiente pensare che ciascuno debba cavarsela in autonomia. Certo, purtroppo non esiste un'equazione esatta tra esercizio fisico e benessere: alcuni, malgrado si dedichino con cura e continuità, sono sopraffatti da malattie impreviste e indesiderate. Per quanto dipende dalla volontà, però, é compito di ciascuno tenersi in forma per evitare di dipendere dagli altri. Star bene significa far stare bene. Perciò non ho più intenzione di lasciar correre: da questo momento é lotta senza quartiere. Pensare al proprio corpo non é facoltativo, é obbligatorio. Non è un optional, semmai equipaggiamento di serie.

venerdì 25 ottobre 2013

l'amore non fa danni

La differenza la fa l'amore. Un tempo pensavo diversamente. Pensavo fosse la conoscenza, la lucidità, l'esperienza. Niente di più falso. I giocatori sanno se ci metti amore. Che, chiariamo subito, non significa benevolenza o compiacimento. Un giocatore non vuole essere compatito: vuole giustamente onestà, sapere se trova interesse nella testa e nel cuore dell'allenatore. Dico sempre agli atleti: non preoccupatevi quando venite rimproverati; preoccupatevi casomai del contrario. Come un padre che non ha mai da correggere un figlio: non può essere un buon padre. Correggere è un atto d'amore, perchè comporta sofferenza: soffre il corretto, ma anche il correttore. Non è mai nè facile nè bello entrare in collisione, ma è quasi sempre una procedura necessaria e inevitabile. Purtroppo attraversiamo tempi in cui il rimprovero viene scambiato per offesa e l'indifferenza per rispetto. Ecco perchè in palestra, nelle aule, nelle mure di casa, si sentono sempre meno parole di correzione. E' più comodo, costa meno, comporta meno guai. Così ci abituiamo pian pianino a disinteressarci degli altri, a convivere con l'errore, a vedere cose che non vorremmo vedere ma che accettiamo come ineluttabili. Ho fatto moltissimi errori nell'esercizio della mia professione, ma cerco incessantemente di non smettere di amare quello che faccio. Il giorno che dovesse succedere, sarebbe giusto smettere e darsi ad altro. Se Trapattoni e Ivkovic, settantenni, sono ancora innamorati del loro lavoro, qualcosa sotto ci deve essere. Non dimenticherò mai l'applauso del popolo serbo a Lubiana tributato all'anziano allenatore della nazionale - giovanissima, tra l'altro - : una risposta affettuosa ad un atto d'amore, ad un uomo che non ha dato solo vittorie e competenza, ma anche passione e vitalità ad un movimento che ha scritto la storia della pallacanestro. C'è un sistema infallibile per scoprire se un allenatore è innamorato del proprio mestiere: crede fermamente in tutto quello che fa. Non sono le vittorie, i giocatori bravi o meno, gli esercizi spettacolari a definirne la statura e la qualità. Anzi, proprio nella difficoltà del compito si misura il valore. Più il compito è improbo, più amore è necessario. Chi non vince una partita ma continua ad allenare la squadra come fosse la prima in classifica: ecco, questo è l'allenatore innamorato! La competenza è importante, ci mancherebbe. Competenza e amore fanno bingo. Ma se dovessi scegliere, oggi non avrei dubbi. La competenza può anche fare danni. Ciò che non può fare l'amore.

venerdì 18 ottobre 2013

piccoli analfabeti

Nessun stupore. Nessuna novità. Bocciato l'emendamento sull'insegnamento dell'attività motoria nella scuola elementare (primaria). Non c'è copertura finanziaria. Non ci sono trecento milioni. Siamo ormai avvezzi alle sconfitte su questo terreno: la dimensione formativa, in Italia, occupa l'ultimo posto. Se poi parliamo di formazione corporea, Dio ci salvi! Nella graduatoria degli oggetti in dotazione, il computer viaggia stabile nei piani alti; segue, a debita distanza, il vocabolario. Fanalino di coda, manco a dirlo, il pallone. Il gioco corporeo, attività negletta e non necessaria, diventerà nel tempo l'occupazione di qualche figlio privilegiato, erede degli impallinati e irriducibili amanti del movimento. Il messaggio è molto chiaro: la salute dei cittadini, ed in particolare quella dei bambini, non è una priorità sociale. Ci sono le associazioni sportive, i corsi per tutti i gusti, il tourbillon pomeridiano dove i piccoli utenti, come pacchi postali, vengono scaricati per regalare qualche minuto di tranquillità allo stress quotidiano. Per carità, proposte nobili e spesso all'avanguardia, ma che non possono soddisfare le esigenze di motricità di base di cui i bimbi hanno estremo bisogno. Prima ancora di giocare a calcio o a basket, prima ancora di nuotare, occorre saper correre, saltare, arrampicarsi, scivolare. Scontato? Per niente: fatevi un giretto per la città e provate ad osservare quanti bambini giocano in libertà. Chiedete agli istruttori quali difficoltà incontrano nell'attività quotidiana in palestra: mancano i requisiti, ossia i presupposti senza i quali non è possibile alcun apprendimento. Spesso devono smettere i panni e insegnare ciò che dovrebbe essere già di dominio comune. La mia generazione poteva fare a meno dell'insegnamento motorio: la nostra palestra erano i giardini, le strade, gli alberi; come i ragazzi della via Gluck, imparavamo le abilità naturali sul campo. Certo, eravamo tecnologicamente analfabeti - lo siamo ancora per molti di noi - ma quando abbiamo iniziato a giocare chi a pallacanestro, chi a calcio o pallavolo, non abbiamo dovuto fare gli esami di riparazione: il nostro kit motorio di base era all'altezza della situazione. Le scienze formative - non certo io - affermano che l'apprendimento in età infantile avviene attraverso esperienze concrete, soprattutto nel contatto del corpo con gli oggetti, l'ambiente naturale e gli altri corpi. Il problema non è nelle medaglie olimpiche che pian piano non vinceremo più ( a meno che non troveremo scappatoie di dubbia legalità ); il problema è che avremo, con tutta probabilità, una popolazione con maggiori problemi di salute. Faccio l'insegnante alle superiori e faccio queste affermazioni con cognizione, toccando con mano già i primi segnali di invecchiamento fisico precoce. I trecento milioni di oggi sono una bazzeccola rispetto a quello che si dovrà spendere in riparazione sanitaria. Ma, è risaputo, sarà un problema di altri. Così hanno ragionato anche i loro predecessori trascinandoci in questo burrone dove, risalire, sembra quasi impossibile.

martedì 15 ottobre 2013

allo sport il proprio

Stavolta Balotelli non ha tutti i torti. Cosa c'entra la nazionale con la lotta alla mafia? La sensibilizzazione non spetta certo ad una squadra di calcio e non sarà la maglia indossata da Buffon a scuotere le coscienze. Un giocatore deve fare quello che sa fare meglio: parare, difendere, segnare. Gli azzurri fanno politica dentro il campo: correndo anche quando il fiato manca, buttandosi per terra recuperando un pallone, rischiando la capoccia nei colpi di testa. E poi, parlandosi chiaro, quale atleta, se non vuole andare incontro ad un suicidio mediatico, si metterebbe a sostenere i progetti fraudolenti di cosa nostra in barba alla cultura che tutti desideriamo, fatta di legalità e rispetto. La strumentalizzazione delle nazionali é un aspetto che fatico a concepire: chissà per quale recondito motivo, se Prandelli dovesse dichiarare che la mafia é il demone da combattere, tutti gli italiani dovrebbero supinamente uniformarsi. Un bel teatrino dell'ipocrisia. Trovo poi sconveniente il comportamento di chi, eletto in rappresentanza del popolo, utilizza espressioni inopportune e populistiche ( se non fosse stato Balotelli avrebbe usato le stesse parole? ), e se mi è possibile aggiungere, persino offensive. Se c'è qualcuno che si possa definire viziato sopra tutti, é proprio il parlamentare, o senatore che dir si voglia. Anzi, forse privilegiato é il termine più appropriato in queste circostanze. Scaricare sui calciatori la responsabilità di un eventuale fallimento della politica in materia di contrasto alla delinquenza, mi appare oggi come un ulteriore conferma dell'inefficacia dei governanti. Da un professionista dello sport mi aspetto che sia leale, ossia che sappia accettare la sconfitta con dignità e che utilizzi strumenti legali per ottenere la vittoria. Di un atleta che indossa casualmente la maglietta in pubblico ma che in privato si inietta sostanze proibite per aumentare la prestazione, non ce ne facciamo niente. Ho sempre avuto ammirazione per gli sportivi poco loquaci, ma che in campo, nel loro ambito, attraverso il loro comportamento, avevano sempre molte cose da dire e da insegnare. In questo, forse, il nostro caro Mario può e deve migliorare.

venerdì 4 ottobre 2013

quel tesoro prezioso

Il millenovecentottantotto (1988) é passato alla storia per tre fatti realmente accaduti: nasce Danilo Gallinari, si sposa lo scrivente, il Friuli Venezia Giulia vince il Decio Scuri femminile (l'attuale trofeo delle regioni) per la prima e, se la memoria non mi gioca brutti scherzi, unica volta. Non avrei dovuto sedere su quella panchina: all'ultimo momento l'allenatore designato, Maurizio Zuppi, fu costretto a declinare per motivi di lavoro. Patrizia Galli era l'assistente perciò ci trovammo, improvvisamente, due pordenonesi al comando del timone. Giocammo a Loano, incantevole cittadina della riviera ligure di Ponente: gli onori di casa spettavano a Settimio Pagnini, mitico tecnico dell'universo cestistico rosa, al quale dovetti volentieri prestare la giacca per le premiazioni finali. Un uomo straordinario, che ha dedicato la vita alla pallacanestro e che non ha avuto esitazioni ad abbracciarmi alla sirena finale: in fondo, le regioni piccole vivono intese istintive. La squadra era forte, un fantastico mix di esuberanza ed imprevedibilità triestina unite a solidità e personalitá concordiese: queste ultime passate al nemico confinante seguendo le tracce del bravo e compianto Luciano Valerio, allenatore della serie A2 in città. Qualche nome: fra tutte, Renata Zocco, che farà una carriera splendida nella massima serie, ma anche Brezigar, Rossi, Varesano, Gobbato, Falcomer, Bianco...oggi tutte quarantenni, con altri pensieri per la testa. Vincemmo tutte le partite, in successione Piemonte, Calabria, Liguria. Poi ai quarti Toscana, in semifinale con il Lazio ( ai supplementari ) e in finale con la Lombardia che prevalse sul favorito Veneto. In realtà, trionfammo non solo perché eravamo bravi, ma per altri segreti motivi. Primo, perché era scritto. Secondo, e lo scoprii solo alla fine, perché il nostro fedele accompagnatore, di cui non ricordo il nome ma faceva il tabacchino a Grado, si infiló per sbaglio il gilet color bordeaux a rovescio durante la prima partita e non lo tolse fino al fischio finale - la leggenda narra che perfino a letto l'uomo non si sbarazzò della scaramanzia - appropriandosi pubblicamente di meriti non sportivi ma indiscutibilmente reali. Tornammo a casa orgogliosi e speranzosi di ricevere ufficiali e pubblici riconoscimenti che, ahimè, non ci furono. Solo una medaglietta commemorativa, di cui ho perso noncurante le tracce. Pensavamo erroneamente che l'inabitudine alla vittoria potesse una volta tanto smuovere l'apparato. Tutto quel che resta é una fotografia sbiadita ed una zona nascosta nel cervello dove, qualche volta, fare ricorso per illuminare il buio. Le vittorie sono rare e vanno conservate come un tesoro prezioso.

mercoledì 25 settembre 2013

quei giri sul ferro

Palazzetto stracolmo. Mi chiedo dove abbiano nascosto le bottiglie: sono ad una partita dalla promozione, ma nessuno tradisce euforia. Entriamo in campo con la faccia dei guastafeste: in fondo, non abbiamo nulla da perdere, dobbiamo solo fare la nostra onesta figura e tornare nell'ombra. Non abbiamo paura: i fischi ci rimbalzano e tornano indietro. Gli insulti, sparuti ad onor del vero, ci passano sopra. Fatichiamo, come é giusto che sia. Non c'é discussione su chi sia più forte: loro sono la conferma, noi la sorpresa. Rimaniamo aggrappati, in fondo siamo orgogliosi e vogliamo continuare a stupire. Nel frattempo il pubblico si preoccupa: quella che doveva diventare una cavalcata vincente si sta trasformando in lunga e pericolosa agonia. Arriviamo alla fine punto a punto, ma con una zampata di Stefano "barba" Barbisin - uno dei giocatori più belli e puliti - in senso cestistico ovviamente - visti in circolazione da queste parti, mettiamo il naso avanti. Gli spalti ammutoliscono, si sentono delineatamente le urla della panchina ospite, accarezziamo il sogno di battere la capolista e di ritardare i festeggiamenti. L'addetto al tavolo, malandrino, ferma il tempo: cavolo, non siamo ancora nel basket moderno, i secondi devono scorrere. Sulla rimessa, Fabio Napoli, rubato tra i pali per fare il giocatore di basket, devìa ma non trattiene. Mancano tre secondi, siamo sopra di uno, non possiamo nemmeno fare fallo. Ci aspettiamo un passaggio in area, dove i bravi ed atletici Grion Montagner e Freeman avrebbero potuto disporre facilmente. Copriamo bene l'area ed il pallone va sul perimetro. Lí per lí siamo contenti: non c'é tempo per andar dentro, si può solo tirare. Riceve Pontani, ottimo giocatore per entrare nel pitturato ma non specialista nelle conclusioni da lontano, si alza in sospensione da otto metri con i tentacoli di Marco Stroppa addosso. Succede l'inverosimile: il pallone comincia a girare sul ferro per un tempo indefinito ma interminabile. Non si sente una mosca, forse un bambino che gioca sugli spalti ignaro di quanto stia accadendo. Gli occhi di tutti non si staccano dalla scena: per un attimo la palla pensa di uscire, poi inesorabilmente viene risucchiata dalla retina. Mi tolgo la giacca e la sbatto per terra mentre suona la sirena e d'incanto veniamo sepolti da un urlo animale e liberatorio e annegati da fiumi di alcool che attraversano noncuranti il parquet. Mi dico che é tutto maledettamente scritto e che sarebbe meglio evitarci questo dolore: avessimo perso di quaranta, la sofferenza sarebbe stata minore. Abbraccio i giocatori e cerco inutilmente parole consolatorie: non possiamo lottare contro il destino. Lasciamo il palco ai protagonisti e usciamo fra gli applausi: siamo combattuti tra rabbia e dolore, tra orgoglio e beffa. A volte vorresti uscire dal campo tra gli sputi ma con la vittoria in tasca. C'é chi piange in spogliatoio, chi impreca, chi si morde le mani. Questo é lo sport. O meglio, questa é la pallacanestro: in quei momenti non ci sono gioie più forti, non esistono dolori più grandi. Tutto quello che c'é da provare lo trovi, non c'é bisogno di affannarsi troppo. É sufficiente trovarsi un anno qualunque in una cittadina semisconosciuta del nord est in un campionato di serie D: anche questa è leggenda e come tale va raccontata.

domenica 22 settembre 2013

una gallina domani


Rimango cocciutamente aggrappato al concetto primordiale: non tutti i mali vengono per nuocere. Certo, tutti quanti avremmo voluto usare le carte buone del mazzo, ma non siamo stati gli unici a lamentare assenze importanti. É cosa buona far tornare alla mente, sviati per alcuni giorni da euforia agonistica, alcuni aspetti forse leggermente accantonati: a parte Belinelli, nessun giocatore ha mai partecipato da azzurro o da protagonista ad una fase finale di qualsivoglia livello internazionale. Per pignoleria, aggiungo che Cusin ha praticamente passato in panca l'intero play off di Cantù - a proposito, per la legge del contrappasso il suo allenatore, che a mio modesto parere aveva il gruppo più completo e solido, ha dovuto guardarsi la fase finale in poltrona - Aradori ha giocato di striscio l'eurolega con Cantù e Siena, il sorprendente Cinciarini non ne parliamo, Gentile e Melli troppo chiusi da un roster di prime donne in una Milano spendacciona e confusa, Datome dominante in Italia, pronto con la valigia in mano ad espatriare saltando a pié pari l'agone europeo ( a proposito, buona fortuna Gigi! É impossibile non volerti bene ). Conosciamo tutti la storia: se ci fossero stati Bargnani, Gallinari Mancinelli e Hackett, forse avremmo raggiunto un risultato migliore - non abbiamo controprove, se non altro con una rotazione maggiore non saremmo arrivati in fondo stremati e depressi - ma alcuni giocatori non sarebbero cresciuti e diventati, in soli venti giorni, degni dell'attenzione mondiale. Pianigiani sapeva che prima o poi si sarebbero accese le spie rosse: é successo al termine del terzo quarto con la Lituania e da quel momento la nazionale ha navigato a motori spenti, finendo inevitabilmente la corsa contro i simpatici ucraini, stregati da un santone del basket come Mike Fratello approdato all'est per dare solidità e tattica ad un gruppo di giganti inesperti ma volenterosi. Chiedere, a questo punto, una wild card per i prossimi mondiali, non é una mossa azzardata, tantomeno impertinente. Questo processo di maturazione deve continuare e, se il destino per una volta non ci sarà avverso, potremo vedere accanto ai nostri giocatori migliori non tanto dei comprimari, ma gente ormai abituata alla lotta e agli scontri dentro-fuori. Se c'é stato un problema per la nostra nazionale nel recente passato é proprio nella forbice tra i big e il resto della truppa: da oggi, grazie a questo europeo, il divario si é notevolmente ridotto. C'è solo da aspettare fiduciosi: la semina di questi giorni avrà un buon raccolto. Non ho mai avuto dubbi sui proverbi: se l'uovo di oggi diventa marcio, meglio una gallina domani.

mercoledì 11 settembre 2013

rosa argento


Ho fatto un sacco di sbagli nella vita, ma ho fatto centro nella cosa più importante. In determinate circostanze, devi avere classe o fortuna. Classe ne ho sempre avuta molto poca, perciò ho pochi dubbi: non ho meriti, semplicemente ho pescato il jolly dal mazzo, ho estratto il numero giusto. Io che non ho mai vinto, dicasi una volta, al gioco della tombola - fin da bambino - mi sono aggiudicato il migliore fra i montepremi. La legge non scritta della compensazione: sfortunato nel gioco, fortunato in amore. Due persone che vogliono unire le strade non devono cercare, devono solo aspettare di incontrarsi: non so chi o cosa mi abbia guidato, certamente non mi stancherò mai di provare gratitudine e riconoscenza. Navighiamo distrattamente verso lidi effimeri e fuggevoli mentre ciò che abbiamo a portata di mano ci aiuta ad ancorarci all'essenzialitá del vivere quotidiano. Un sorriso, un abbraccio, una parola di conforto, una sgridata se serve: questa é l'umanità di cui abbiamo bisogno. Finché esiste complicità, finché le dita e le anime continuano ad intrecciarsi, non é vano sperare in un domani migliore. Non è tutto rose e fiori: c'è anche il distacco, la solitudine, l'orgoglio, la gelosia. Anche l'amore più solido deve fare i conti con delusioni, stanchezza, incomprensione, a volte tradimenti: non sono difetti di fabbricazione, solamente la via stretta e impervia per raggiungere vette più alte. Sono venticinque e francamente si sentono tutti: utilizzando una metafora sportiva, non rappresentano un traguardo, semmai una tappa. Una coppia ha costantemente bisogno di due elementi: radici e linfa. Radici ben piantate per rimanere in piedi nonostante i continui sussulti, linfa nuova per non prosciugarsi e dare frutti rigogliosi. "La costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue con il sudore": proprio così, grazie a chi l'ha scritta (I. Fossati), non saprei dirlo meglio.




"Rosa che rosa non sei
Rosa che spine non hai
Rosa che spine non temi
Che piangi e che tremi
Che vivi e che sai
Rosa che non mi appartieni
Che sfiori che vieni
Che vieni che vai.
Rosa che rose non vuoi
Rosa che sonno non hai
Rosa di tutta la notte
Che tutta la notte non basterà mai

Rosa che non mi convieni
Che prendi e che tieni
Che prendi e che dai
Rosa che dormi al mattino e venirti vicino non oso
Rosa che insegni il cammino
Alla sposa e allo sposo
Rosa d'amore padrona
Punisci e perdona
Non chiuderti mai
Rosa d'amore signora
Digiuna e divora
Non perdermi mai"
(F. De Gregori)



martedì 10 settembre 2013

azzurri di rabbia


Mi sono stupito fino ad un certo punto. Non si buttano via anni di vittorie e di grandi soddisfazioni - in veritá anche di grandi delusioni - solo per assenze illustri o per destino avverso. Nella nazionale di questi giorni pulsa il cuore nobile di chi l'ha preceduta: la tradizione non si cancella, l'orgoglio si eredita a grandi dosi. Nello sport non esiste condizione migliore: giocare leggeri, senza aspettative e pressioni, senza la maledetta necessità di dimostrare qualcosa a qualcuno. Poi ci sono i giocatori, forse ingiustamente sottovalutati: due di questi hanno contratti oltre oceano, gli altri si sono fatti le ossa approfittando di campionati e squadre che si stanno - mi sia concesso il neologismo - destranierizzando. Come ho già avuto modo di dire, non tutte le crisi vengono per nuocere. L'Italia in pratica gioca con un centro - il nostro e bravo Cusin - che non prende mai posizione spalle a canestro ma porta blocchi in continuazione e taglia perennemente a canestro. Gli altri giocano penetra e scarica mantenendo vantaggio con i passaggi: sembra di vedere la Jugoslavia di Djordevic di qualche anno fa. Pianigiani non aveva e non ha alternative: fino adesso il giochino ha fruttato l'imbattibilitá e forse la pallacanestro più godibile di tutto l'europeo. Paghiamo un pó a rimbalzo e vicino al nostro canestro, ma le statistiche dicono chiaro che siamo quelli con l'attacco migliore. Qualcuno, pescando nel mondo dei se e dei ma, azzarda che la squadra se fosse stata al completo avrebbe vinto la manifestazione a mani basse: non ne sono per niente convinto, se siamo a punteggio pieno é perché questi giocatori sono stati in grado di mutare pelle e di moltiplicare la propria energia per meritarsi il giusto rispetto. Ora arriva il difficile: non siamo più la sorpresa del torneo e le nazionali di valore e solidità aumenteranno la qualità del gioco; se poi la rabbia che ci ha condotto fin qui dovesse placarsi, tutto ciò che di buono abbiamo fatto andrebbe perduto in un amen. Coraggio azzurri, avete ragione di essere offesi: nessuno, o molto pochi, credevano in voi. Ora, che tutti credono, fateci ancora orgogliosi di voi: potete anche prenderci a parolacce, se vi fa piacere. A noi basta vedervi vincere.

giovedì 29 agosto 2013

maglia e fantasia

Sarò anche bastian contrario, ma questa nazionale non mi dispiace. Tipicamente italiano partire con un pronostico negativo: lo svantaggio ci ha fatto sempre tirar fuori risorse impensate. Non ci mancano creatività e determinazione: sapremo, come capita spesso, tirar fuori conigli dal cilindro e cambiar pelle a seconda delle circostanze. È il momento di dimostrare che nessuno é indispensabile e che il movimento non dipende solo dalle star d'oltreoceano. Teniamo distanti gli alibi che hanno come esito nefasto quello di allentare la presa e di scoraggiare i reduci. Se posso osare, mi incuriosisce, tecnicamente parlando, la necessità fatta virtù di mescolare i ruoli: vedere giocatori di natura esterni giocare spalle a canestro e difendere sui lunghi avversari mi fa pensare ad una squadra giovanile, dove tutti si mettono a disposizione per la causa comune. Non conta chi sei, ma quello che fai per la squadra. Non é detto che la mancanza di centimetri sia necessariamente una debolezza: certo, ci sarà da sgomitare e combattere, ma anche gli altri dovranno preoccuparsi di strani accoppiamenti e adeguarsi ad un gioco non propriamente classico. Di sicuro sfidare i carri armati in campo aperto sarebbe un suicidio: per fortuna esistono mille altri modi per opporsi al nemico. Il fattore mentale sarà determinante: se il gruppo si dimostrerà solido e unito, l'Italia potrebbe essere la grande sorpresa dell'europeo. Noi, comodamente seduti in poltrona,  - a proposito, per fortuna c'é la Rai, tocca proprio dirlo - non chiederemo miracoli, né ci strapperemo i capelli se non dovessimo raggiungere grandi obiettivi. Ci piacerebbe però vedere una squadra che non si dá per vinta, che gioca senza paranoie, che lotta su ogni pallone senza riserve e senza remore, che ha amore per la maglia. Coraggio, azzurri: é vero che é stata un'estate maledetta, ma usiamo la fantasia per trasformarla in opportunità. Spesso, anzi quasi sempre, il raccolto avviene quando meno te l'aspetti.

sabato 24 agosto 2013

parametri e affini

Sui parametri dico la mia. Il concetto di fondo é apprezzabile: premiare i sodalizi che investono risorse umane e materiali sul settore giovanile oltre che la necessità di porre freno ai saccheggi e tutelare così le piccole società che vengono private dei talenti migliori.  Fin qua tutto limpido e chiaro: i problemi iniziano quando si passa dalle dichiarazioni d'intenti all'applicazione pratica. I NAS (nuovi atleti svincolati) prevedono che venga corrisposta, al compimento del 21^ anno, una cifra tot alle società che hanno reclutato (15% del totale) il giocatore e che lo hanno formato ( restante 85% ) in base alla categoria di appartenenza, a decrescere dalla A1 fino alle categorie regionali. Il sistema ha funzionato per qualche anno, ma ora comincia a mostrare le crepe, ingranditesi in concomitanza con la crisi economica che attanaglia il paese. Le imprese, costrette ai ripari se non a chiudere, hanno disinvestito nello sport con le conseguenze che tutti vediamo: molte società, anche prestigiose, sono costrette a rinunciare o, nei migliori dei casi, a ricominciare da categoria più basse. I parametri diventano un ulteriore onere spezza gambe: solo per fare un esempio, una B Nazionale, come Pordenone, se vuole tesserare cinque atleti svincolati deve versare 30.000 euro. La soluzione sarebbe pronta: giocare con gli atleti di propria produzione. La storia però insegna che sono pochissimi i casi in cui un club che vuole fare un campionato di un certo livello - diciamo nazionale - sia in grado di disporre esclusivamente di giocatori fatti in casa: inoltre, ci sono zone in Italia dove sarà impossibile, per varie ragioni, avere una squadra formato locale. Chi lavora nei vivai é consapevole che per un giocatore che approda in prima squadra ce ne sono almeno altri nove che subiscono un altro destino: molti smettono, contemporaneamente all'accesso universitario, altri scelgono di divertirsi in categorie minori. Quello che doveva diventare il filtro magico di tutti i mali, in realtà si è trasformato in un boomerang devastante: detto fuori dai denti, per come stanno le cose oggi converrebbe fare solo settore giovanile e guardarsi bene dal mettere in piedi una squadra senior. Alcuni correttivi andrebbero fatti: mi sfugge il senso del parametro per i campionati regionali. Ci sono società che si auto tassano per pagare l'allenatore, figurarsi se sono in grado di sostenere ulteriori costi. Molti ragazzi che hanno superato la fatidica soglia d'età si sentono dire che non c'è posto: meglio mettere in panchina un quindicenne locale. Esiste una percentuale che la federazione trattiene per ogni transazione, e nel caso di scomparsa della società si incassa l'intero parametro: non sarebbe il caso di ridistribuire queste risorse alle società davvero virtuose, che si accollano spese ingenti per allenatori, trasferte, partecipazioni a campionati nazionali o tornei prestigiosi? La novità é che i NAS faranno ingresso nel basket femminile: non sarebbe stato il caso di fare valutazioni più attente in un territorio già segnato dall'emorragia di  squadre e tesserate? Non è mai stato facile tradurre le idee in buone azioni: ciò malgrado, l'esperienza di questi anni dovrebbe insegnarci qualcosa. Correggere la rotta non è un segnale di resa, semmai di bravura nel leggere i tempi. Se una difesa non funziona, ne usiamo un'altra: questo ci ha insegnato il basket. 

venerdì 23 agosto 2013

una piramide a rovescio

Ci stracciamo vesti e capelli per i flop mondiali, in ordine di tempo nuoto e atletica. In realtà la vicenda é più complessa e non é correlata ai tempi odierni. Alberto Tomba, Federica Pellegrini, Pietro Mennea, sono stati e sono la grande copertura di un movimento che fatica a crescere: campioni dotati di un dna speciale, non certo prodotti della programmazione scientifica. Per fortuna - o purtroppo, non saprei valutare - ogni tanto nascono qua e lá sul suolo italico dei capolavori di madre natura che ci fanno dimenticare in fretta le frustrazioni subite in campo internazionale. Dietro agli atleti di punta, poco o niente: nessun problema, aspettiamo pazientemente il fenomeno di turno per brindare ai nuovi successi. Non ho l'ultima pagina con le soluzioni, mi limito ad osservare: ad essere sinceri, l'Italia raccoglie anche troppo rispetto a ciò che semina. Siamo l'unico paese, o tra i pochi, che considera l'attività motoria come un corollario della vita umana: basti pensare alla scuola elementare, oggi definita primaria, dove l'apprendimento avviene, nella maggior parte dei casi, senza il coinvolgimento del corpo. I cortili scolastici sono delle piastre di cemento nude e crude e i tempi di ricreazione e gioco ridotti all'osso: non ne faccio una colpa alle maestre, hanno imparato a fare miracoli. È un problema concettuale: esiste la religione, la lingua straniera, ma non la motricità. Poi ci chiediamo perché i bambini sono in sovrappeso o come mai gli istruttori sportivi debbano partire dall'alfabeto   motorio. Trent'anni fa non era necessario: oggi, con l'avvento della nano tecnologia, e con le paranoie genitoriali, diventa necessario un intervento massiccio. Non va molto meglio alle medie e superiori: con due ore settimanali, spesso contratte da trasporti e difficoltà logistiche, non è possibile andare in profondità. La scuola e gli insegnanti sono la prima risorsa di reclutamento, formazione e indirizzamento per gli atleti: non a caso, la neo campionessa mondiale dell'alto, la russa Shkolina, giá giocatrice di basket, ha iniziato a saltare grazie ai suggerimenti del professore di educazione fisica. É impensabile possedere alti livelli di prestazione sportiva se non esiste un grande impegno nell'attività di base: l'Italia sembra una piramide rovesciata, l'attenzione é quasi interamente rivolta in alto. Vado controcorrente: vorrei tanto non ci fossero medaglie a Rio, chissà che non si aprano gli occhi. Chissà che la piramide torni al suo posto.

lunedì 19 agosto 2013

passi di eternità


Camminare in montagna é come rubare alla vecchiaia. Ogni passo, un'ora in più. Devo ancora trovare un trucco migliore per guadagnarmi l'eternitá. Quando si parla di paradiso sulla terra non si può fare a meno di pensare ai paesaggi, le vallate, le distese d'erba, i ruscelli, le cascate. La montagna ha un altro pregio: accoglie molte specie animali, soprattutto ogni tipologia umana, dalla classica alla più eccentrica. Non è come il mare, dove le persone sono conformi ad un preciso modello. Cosí si può incrociare di tutto, é sufficiente possedere un pizzico di curiosità ed un certo spirito di osservazione. Ci sono quelli con il pettorale: non è difficile distinguerli, ti sorpassano accelerando il passo lasciandoti di stucco; i super accessoriati, quelli che abbondano di oggetti sconosciuti e, al più, inutili: zaini porta cani, bastoncini telescopici, occhiali specchiati da sintomatico mistero. I peggiori sono i tecnologici: vuoi mettere mandare un messaggio o un mms da 2000 metri d'altezza? Per non parlare dei suoni, nella maggior parte dei casi inascoltabili, nel bel mezzo della boscaglia silenziosa. Gente che urla, sbraccia e si arrabbia mentre di fronte si staglia un dipinto naturale: pazzesco, ma vero! Sono sempre più convinto - ahimè ecco la sparata di retroguardia - che i cellulari siano strumenti di morte: farsi raggiungere in vacanza dai casini quotidiani é equiparabile a darsi delle sassate sui testicoli: parlo per i maschi, naturalmente, risparmio il paragone alle femmine. Non stavamo meglio quando, per sentire i nostri cari, riempivamo di gettoni le cabine telefoniche? Altra razza inconfondibile, i frequentatori dei rifugi, soprattutto della cucina: costoro non mangiano per camminare, ma camminano per mangiare. Dulcis in fundo, ci sono quelli come me: dilettanti allo sbaraglio, si beccano la pioggia quando arriva e si bruciano al sole. Si curano le vesciche e le scottature di sera, con grande dignità soffrono in silenzio e ripartono il giorno dopo. Nello zaino manca sempre qualcosa: sbadati, con le borracce sempre vuote e le scarpe piene d'acqua. La montagna é una grande mamma: accoglie tutti nel suo abbraccio e, per fortuna, non fa distinzioni. Ci perdona tutto: eccessi, negligenze, superficialità, distrazioni. Nel frattempo continua la mia illusoria scalata verso l'immortalitá: non posso fermare il tempo, tutt'al più posso viverlo. Fino in fondo. 

venerdì 16 agosto 2013

diserzione


Avrei dato un pezzo della mia carne per giocare in nazionale. Come giocatore, le possibilità erano inesistenti. Come allenatore, esigue. Come si possa rifiutare di giocare per il proprio paese è un mistero che non mi è dato di capire: rispettabile nella logica della libertà di scelta, esecrabile se considerato come gesto egoistico. Non esistono giustificazioni valide, non ci sono alibi, non c'è ragione che tenga: chi non si presenta o chi non sente attaccamento alla maglia è in torto marcio, a prescindere. Se non altro, per rispetto a quelle migliaia di ragazzi/e che avrebbero sbavato solo per la gioia di un provino e dovranno accontentarsi di un divano ed una televisione per esaudire i propri sogni. Non c'è stanchezza, non c'è recupero, non c'è infortunio: fosse per me, dovrebbero togliermi di forza dal campo. Quelli che guardano - e sono molti - si aspettano da quelli che giocano - e sono pochi - ginocchia sbucciate, lividi alle braccia, sudore sulla fronte. C'è un paese, una storia, una cultura, una scuola, da difendere: non è una guerra, sia ben chiaro, ma c'è in gioco la dignità e gli ideali di un popolo, la propria identità, i valori condivisi. Sono tra quelli che si commuovono quando si alza la bandiera e viene intonato l'inno di Mameli: non sono reazionario, forse patriottico, perciò mi sento fiero quando donne e uomini italiani si fanno onore in campo internazionale. Sarebbe come se cinquanta milioni di cuori battessero, almeno per una volta, all'unisono: come se, una volta tanto, non ci vergognassimo di appartenere a questa terra. Indossare la maglia azzurra è un privilegio che viene concesso a pochi eletti: per questo motivo, tutti noi comuni mortali ci aspettiamo il massimo dell'impegno e della determinazione. E' una sciocchezza pensare che le fortune delle nazionali possano debellare o, almeno, lenire, le sofferenze della gente: è altrettanto vero, però, che vedere i giocatori battersi con cuore e anima non può peggiorare lo stato delle cose. Ci sono nazioni, come la Spagna, che stanno dominando nelle discipline di squadra: è solo una questione tecnica? Un frutto del caso? Non sono così convinto: spesso, in questi casi, la differenza è data dalla forza del gruppo che si riconosce nel sentimento comune. Non lo chiamerei nazionalismo, ma amore verso il proprio paese. Gli italiani hanno sempre fatto grandi cose quando hanno amato l'Italia: non è questo il momento di tirarsi indietro. La diserzione in campo sportivo, sebbene non punibile, non può essere accolta.

mercoledì 14 agosto 2013

palla al cesto


Quando si parla di differenza tra basket maschile e femminile siamo tutti d'accordo: le ragazze, ad esempio, non sono in grado di schiacciare e non stoppano sopra il ferro. I ragazzi sono in genere più forti muscolarmente perciò la palla circola più veloce - quando circola - e i movimenti dei giocatori sembrano apparentemente più dinamici. Fin qui i dati indiscutibili: se Bolt, l'uomo più veloce della terra, sfida la Fraser, la campionessa del mondo, non c'è storia. Il cronometro é implacabile: c'è un secondo di differenza tra i due. Per fortuna non tutti gli sport si misurano a tempo o con i centimetri: nelle discipline di squadra, ad esempio, entrano in gioco altri fattori che determinano il raggiungimento o meno degli obiettivi. Strategia di gioco, capacità di sopportazione del dolore, orgoglio, forza di volontà, controllo emotivo, coesione, sono solo alcune delle variabili che condizionano il risultato finale. Avendo vissuto entrambe le esperienze come allenatore, posso garantire che su molte di queste incognite le donne sono nettamente superiori ai maschi. È risaputo, tra l'altro, che mediamente le ragazze possiedono abilità coordinative migliori dei colleghi: non mi risulta, infatti, che esista la ginnastica ritmica o il nuoto sincronizzato maschile. Essere diversi esclude a priori una classifica meritoria: se dovessimo giudicare il basket femminile in sovrapposizione a quello maschile, sarebbe inevitabile il deragliamento e la stoltezza. La pallacanestro rosa va giudicata per quello che è: non a caso esiste un pallone più piccolo. Piuttosto fatico a capire un trattamento peggiore a livello retributivo, ma, é risaputo, non vale solo nello sport. Se poi si vuol parlare di spettacolo, tutto é relativo: a qualcuno piace il wrestling, personalmente lo trovo ridicolo. Il fascino del gioco non risiede nelle schiacciate o nelle giocate sopra il ferro, semmai nell'abilità di una squadra nel trovare la soluzione migliore nei tempi e spazi giusti. Ho visto partite maschili inguardabili, dove la fisicitá e l'esasperazione difensiva delle squadre annullano il talento e la fantasia: di questo passo, le partite finiranno 30-28 dopo i tempi supplementari. Da allenatore, la sofferenza é identica: perdere al maschile o al femminile fa lo stesso effetto. Un brutto effetto, comunque. Le notti bianche le ho passate sia di qua che di lá.



















giovedì 8 agosto 2013

l'ultima discesa


Non è esagerato, eri un campione. Un grande campione. Settemila lanci in una disciplina dove, ammetto, non mi sarei mai avventurato nemmeno per tutto l'oro del mondo. Era il tuo amore, il tuo gioco, la tua vita. Ci siamo visti solo qualche giorno fa, quando, stavolta per lavoro, mi hai cambiato la caldaia. Salire sul tetto fino al camino, un giochetto da ragazzi. Io, tranquillamente in basso a guardarti, tu, in alto sorridente, quasi a schernire la mia inquietudine. Dividevamo una passione segreta: l'aromaterapia, meglio detta aufguss, dove tu facevi il maestro ed io l'allievo. Una parentesi di benessere dentro il caos quotidiano: da te ho imparato che l'arancio e la cannella, mescolati insieme, danno una fragranza impareggiabile. Dall'ultimo viaggio in Francia ti ho portato le essenze che mi avevi chiesto, in particolare la lavanda, quella vera, che si differenzia dal lavandino per altitudine e tipologia del fiore: in realtà, quei campi sterminati di viola che riempiono gli album fotografici e richiamano migliaia di giapponesi non sono altro che una riuscita imitazione dell'originale. Naturalmente hai ascoltato la mia lezioncina botanica spacciandoti per ignorante: la tua delicatezza era proverbiale. Quelle boccette sono l'unica cosa che hai di me: non mi hai dato tempo per pareggiare la ricchezza di cui mi hai fatto partecipe. Non riesco a crederci, Vasco, e non mi dò pace: il tuo compagno fidato e di sempre, colui che ti accompagnava tra le correnti, proprio lui ti ha voltato le spalle. Hai dato la vita per il paracadute e lui se l'é presa: maledetto gioco del destino, eri giovane e avevi ancora molte cose da fare. Continuo a pensare che siamo appesi ad un chiodino: ci danniamo l'anima per restare in questo mondo, ma siamo impotenti di fronte all'imprevedibile. Caro amico, era una piacevole abitudine scendere dal cielo. Ora dovrai salirci, per forza e per sempre. Come un palloncino, alzeremo lo sguardo per non perderti mai di vista: hai ancora molte cose da insegnarci. 

giovedì 1 agosto 2013

campioni si nasce


Federica Pellegrini e Tania Cagnotto hanno molte cose in comune. Fascino, copertine,  medaglie, ma soprattutto l'inclinazione alla lotta. Dietro a quei visi e corpi aggraziati si nasconde una solidità mentale ineguagliabile dai comuni mortali. Il neologismo garista calza a pennello per queste atlete di valore superiore alla norma: non si spiegherebbe, altrimenti, come da una preparazione frettolosa ed approssimativa possano saltare fuori risultati di altissimo livello. Entrambe uscite con le ossa rotta da Londra, hanno scelto di alleggerire lo zaino e di presentarsi all'appuntamento mondiale senza pretese ed aspettative: da qui saltano fuori le uniche soddisfazioni azzurre, eccezion fatta per la brava  e indomita Grimaldi nel nuoto libero. Sorge il dubbio, anche agli scienziati che si occupano di metodologia: vale proprio la pena sottoporre gli atleti a carichi di lavoro continuativi ed estenuanti? Il povero Scozzoli, presentatosi a bordo vasca tra i favoriti, é annegato tra pressioni mentali e sfinimento fisico: la verità, pur non conoscendo direttamente i fatti, é che non si dá mai sufficiente importanza allo scarico. Va dunque rimessa in discussione l'intoccabile teoria dell'allenamento? Calma e sangue freddo. Non scherziamo: l'americanina Ledecky e la stellina lituana Meilutyte, entrambe classe 1997, hanno confessato di vivere esclusivamente in funzione del nuoto e di non avere altre distrazioni quotidiane. Forse è più sensato parlare di preparazione individualizzata: alcune atlete, vedi Cagnotto e Pellegrini, sono talmente baciate dal talento che possono permettersi di gareggiare senza un avvicinamento adeguato. Anche Alberto Tomba aveva queste caratteristiche: passava la sera a festeggiare e la mattina seguente sbaragliava la concorrenza. Siamo in presenza, però, di campioni. Ed i campioni sono rari, si contano sulle dita. Non sono atleti da imitare, in quanto irraggiungibili. Rino Gattuso, ad esempio, non avrebbe mai potuto giocare a calcio se non avesse fatto sacrifici immensi: tecnicamente rivedibile, si faceva amare da tutti per coraggio ed abnegazione. Perciò è meglio non farsi illusioni: i privilegi, da sempre, sono per una stretta minoranza. Esistono i campioni, pochi, e le macchine, gli altri. Si può vincere in entrambi i modi, ma i percorsi sono totalmente differenti. Campioni si nasce, macchine si diventa. Achille era un artista; gli altri, combattenti addestrati alla guerra.

lunedì 29 luglio 2013

forma o sostanza

Tra i sostenitori dell'indispensabilità dei titoli per esercitare e quelli convinti che sia sufficiente aver dato prova delle proprie abilità, preferisco gli ultimi. Dividere i capaci dagli incapaci in base ad un pezzo di carta o alle stellette é ingiusto e pretenzioso. Non dico che la formazione sia inutile, lontano da me questa bestemmia. Dico solo che non esiste una graduatoria in bravura che abbia come criterio selettivo il raggiungimento dell'agognato pezzo di carta -  in campo sportivo - la fatidica tessera o patentino. Sarebbe come dire che Inzaghi non è in grado di allenare il Milan perché non ancora in possesso dei requisiti formali. Semmai non è in grado di allenarlo perché non ancora pronto. Tra l'essere pronto e conoscere la materia c'è una bella differenza: non è certo il superamento di un esame che decreta la qualità di un tecnico, semmai la capacità effettiva dimostrata sul campo. Ricordo anni fa il polverone sollevato nei confronti dell'approdo di Maifredi alla Juventus: la lobby degli allenatori scatenò una polemica nei suoi confronti, reo di non avere i presupposti necessari ma capace di esprimere un gioco rivoluzionario e frizzante a tal punto da conquistare i favori di Boniperti. In soldoni spiccioli, la forma batte la sostanza. È come dire ad un ragazzo brillante e creativo di aspettare l'esame di stato per scrivere un libro o dipingere un quadro. Quando sento dire che per fare l'allenatore mentale é necessario un laureato in psicologia, mi viene la pelle d'oca: magari uno di quelli che non ha mai praticato sport in vita sua ma che conosce perfettamente cosa succede ad un atleta prima, durante e dopo la gara. Non esiste giudice più imparziale del campo stesso: Ettore Messina non é il migliore perché possiede una tessera ad honorem, casomai possiede quella tessera perché é di fatto il migliore. Chi ha le capacità, non ha bisogno di un titolo per affermarsi; chi non le ha, non ha bisogno di una tessera o un patentino per mascherarsi. Non ho mai posseduto - udite udite - la  qualifica di istruttore minibasket: questo non significa che un diciottenne, regolarmente e formalmente idoneo, sia più preparato del sottoscritto. Posso capire che per esercitare - sic! - siano necessari i requisiti, ma non mi si racconti per cortesia la favoletta dell'orso: la bravura non è virtuale, si misura nella nuda e dura realtà delle nostre sperdute palestre.

giovedì 25 luglio 2013

porte e portoni

La selezione nello sport é da sempre un argomento scottante e di ampia discussione, anche nel nostro piccolo orticello. Esiste davvero un momento, un imbuto, un confine tra il diritto sacrosanto al gioco e la necessità di produrre atleti per la sopravvivenza del gioco stesso? È sempre difficile, se non impossibile, stabilire un'età, un sbarra, oltre la quale lo sport, da puro e sano divertimento, si trasforma in impegno e responsabilità. Trovo un po' assurdo, se non comico, pensare ad un'investitura ufficiale dove le reclute vengono messe al corrente che il tempo del gioco e del sollazzo viene sostituito prontamente da allenamenti sfiancanti. C'è, per fortuna, chi si diverte ancora a quarant'anni e chi, purtroppo, é già stufo a dieci. Non c'é una regola precisa, non esistono linee di demarcazione nette. Non mi è mai piaciuto pensare al mini basket come ad un'isola felice dove i bambini, protetti dagli eccessi dell'agonismo, vivono in uno stato di pace e incolumità  perenni: seppur piccoli, possono già fare esperienza che non tutto nello sport é latte e miele. Ci sono le regole da rispettare, le sconfitte personali e di squadra da metabolizzare, le frustrazioni inevitabili, gli istruttori da sopportare. Allo stesso tempo, non è scritto da nessuna parte che chi ha fatto una scelta di maggior impegno debba smettere di divertirsi e provare piacere: i miglioramenti individuali e le vittorie in genere ripagano con gli interessi tutte le fatiche quotidianamente affrontate. C'è una variabile che gioca un ruolo rilevante: spesso le aspettative e le pressioni degli adulti si intromettono artificiosamente e minacciosamente all'interno del processo naturale evolutivo. I bambini e i ragazzi sono giudici imparziali e sanno valutare se stessi meglio di altri: tutti hanno giustamente diritto a fare sport, ma non è detto quella disciplina o in quella particolare società sportiva. Non tutti sono e diventeranno agonisti: questo non pregiudica minimamente la possibilità di fare pratica motoria. Purtroppo in Italia la separazione fra attività agonistica e amatoriale é vissuta in modo traumatico: se non sei un fenomeno, se non hai talento, é meglio lasciar perdere. Non c'è niente di più sbagliato: esistono migliaia di modi per tenersi in forma e per provare soddisfazione nel fare movimento. L'idealizzazione del campione ricco e famoso ci ha portato in un vicolo cieco: o si fa agonismo o non si fa niente, con i risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi. A quel bambino o a quel ragazzo, ingiustamente scartati, direi di non disperarsi più di tanto: ci sono mille altri modi per divertirsi. Si chiude una porta, si spalanca un portone. Ad esempio, Se Hakeem Olajuwon non avesse abbandonato il calcio, non sarebbe diventato uno dei pivot più forti di sempre.

lunedì 22 luglio 2013

gratitudine


" personalmente dedico questa vittoria
  ed un pensiero
  agli allenatori italiani delle giovanili
  che ormai lavorano rimettendoci
  e che hanno costruito questi ragazzi "

Pino Sacripanti - coach nazionale under 20

domenica 21 luglio 2013

vivi e vegeti


Si potrebbe titolare così: quando meno te l'aspetti. Oppure: gli azzurri son tornati. Ancora: la vittoria del cuore e del coraggio. Io preferisco questo, forse più banale e scontato, ma di certo più significativo: non sprechiamo questo oro! Mentre il campionato italiano perde pezzi di valore giorno dopo giorno con il conseguente allontanamento graduale e inevitabile dei club piú titolati dai piani alti del vecchio continente,  dodici ragazzi salgono sul trono europeo e lanciano un urlo contro la depressione e la lamentatio perpetua ed estenuante. Questo senso di inferiorità che sembrava attanagliarci e relegarci ai margini del basket che conta, d'un tratto svanisce nei sorrisi e nei pianti di una pattuglia che oltre a sfidare il pronostico, é riuscita a zittire un palazzo gremito di tifosi avversari, tra l'altro sportivissimo e competente. È il giusto tributo al lavoro sapiente e silenzioso degli allenatori che hanno plasmato questi giocatori: hanno insegnato tecnica e fondamentali, ma anche altre virtù senza le quali non è possibile arrivare in alto. È il giusto tributo ad un allenatore che, smesso i panni di una stagione durissima e stressante come la serie A italiana, si è calato nell'avventura della nazionale giovanile: Sacripanti é davvero il valore aggiunto di questa squadra. Ed é anche il giusto tributo a quelle società che hanno avuto il coraggio, o la necessità, di mettere alla prova i giovani di belle speranze: se c'è un motivo per cui essere felici della crisi incombente, lo abbiamo trovato in queste scelte, spesso spericolate, ma estremamente produttive. Landi e Imbró hanno avuto minutaggi importanti in A: sebbene il pubblico colto ed esigente di Bologna non fosse molto contento dei risultati della squadra, questi due promettenti giocatori hanno potuto maturare esperienze importanti ad alto livello. Come non ricordare i nostri talenti regionali, Ruzzier e Tonut, pedine fondamentali in lega due a Trieste. La scelta di maturare negli states di Della Valle si é dimostrata quanto mai azzeccata: chi avesse dubbi sull'amor patrio di chi emigra all'estero, é stato servito. Questo trionfo europeo ci insegna che la strada intrapresa é quella giusta: i budget si riducono? Occasione buona per lanciare subito in prima squadra i giovani che meritano di giocare: del resto, non è niente altro che quello che fanno da sempre gli altri Paesi in Europa. Non buttiamo questo oro giù per il water. Sarebbe un crimine imperdonabile. Cogliamo il messaggio che questi ragazzi ci hanno trasmesso in campo e sul podio: siamo vivi, siamo pronti, siamo senza paura, metteteci alla prova, non resterete delusi! E, soprattutto, proprio ora, noi non possiamo dimenticare: Mario Delle Cave, questa medaglia é anche tua!

lunedì 15 luglio 2013

in carrozza


Sono preoccupato di non esserlo. In epoche diverse, con entusiasmo e testosterone ai massimi livelli, avrei di sicuro contaminato persone e cose nel raggio di qualche chilometro. Sarà l'avanzamento di età, che qualche amico sgarbato non accenna a nascondere, oppure l'abitudine al peggio, forse la malattia più insidiosa e devastante di questi tempi sbandati. Lo scandalo diventa normalità e la normalità diventa scandalo: ce ne frega qualcosa se Galliani fa il bagno con la pancia verso l'alto? Eppure, é di sicuro più importante di un ragazzo qualunque che si schianta su un platano. Perciò sono stupito di non essere agitato se mi trovo fermo al palo. Non è normale che un allenatore non sia in palestra: come diceva qualcuno, siamo fatti per usare la voce, non la penna. Ho amato davvero questa città e questo lavoro per molti anni tant'è che mi ritrovo con un cuore mangiato ( cit. ) e con una sacca piena di bellissimi e indimenticabili souvenir. Nel bilancio consuntivo, ci sono molte voci in rosso, ma anche grandi e indimenticabili soddisfazioni: chi fa questo mestiere sa che il nostro vero compito non è vincere, ma far vincere. E non esiste vittoria più importante se non quella di aiutare un bambino a diventare un uomo. Da sognatore, pensavo con presunzione di avere il potere di trasformare le cose: in realtà, le cose si trasformano da sole, noi siamo solamente viaggiatori davanti ad un finestrino. Non abbiamo meriti nei successi, nemmeno colpe nei fallimenti. Nell'impotenza c'é delusione, ma anche libertá e consolazione. Le strade si dividono, non è la prima volta, forse nemmeno l'ultima. C'è sempre tempo e modo per tornare. Partire é un pó morire, dice una canzone popolare: speriamo non sia così, cominciano a farmi impressione queste parole. Nel frattempo ho rifatto la valigia: non si sa mai, forse il treno da qualche parte si fermerà. Altrimenti, mi godrò il paesaggio.

domenica 7 luglio 2013

full time full power?



L'ingaggio full time di Simone Pianigiani da parte della federazione vale almeno qualche breve riflessione. La qualità non è in discussione: non c'è al momento miglior allenatore in Italia per condurre la nazionale verso un pronto riscatto dopo alcuni anni di magra. Ciò che lascia parzialmente perplessi é la tipologia del contratto: a tempo pieno, appunto, con costi considerevoli e, soprattutto, nella direzione di un maggiore accentramento decisionale e operativo. Non passa giorno che il necrologio cestistico non annoveri qualche decesso da parte di società - alcune con blasonato trascorso - o rinunce ai campionati di pertinenza. I costi elevati di iscrizione, tasse gara, trasferte, ingaggi e premi di reclutamento e formazione stanno facendo strage anche presso realtà dove la pallacanestro ha avuto grande impatto e tradizione. È proprio necessario e conveniente, in questa fase di forte recessione, compiere uno sforzo finanziario considerevole come quello proposto al nostro commissario tecnico? Attenzione: non mi soffermo sui meriti - sui quali ho pochi dubbi - ma sull'opportunitá dell'operazione. Ci sono molti allenatori, bravi e affermati, che faticano a lavorare o che si devono accontentare di poche briciole: anche questi meriterebbero maggiore rispetto. Un conto se é un club a decidere l'entitá di un contratto, un altro é la federazione, alle cui spese contribuiscono tutte le società d'Italia, compresa la più piccola e sconosciuta. Non trovo molto congruente vedere l'allenatore della nazionale con un contratto principesco mentre molte società spariscono dalla geografia del basket. Un altro aspetto problematico, forse più importante, é relativo all'accentramento delle funzioni. Avere un allenatore a tempo pieno significa da una parte poter seguire con maggiore attenzione ed efficacia il movimento e il progetto nazionali, comprese le giovanili; dall'altra, però, sebbene non manchino collaboratori ed assistenti, é inevitabile una riduzione nella partecipazione alle scelte strategiche da parte di tutte le componenti in gioco, principalmente delle realtà di base. Potrei sbagliare, ma mettere troppi poteri nelle stesse mani può dare come esito un allontanamento da quello che è il mondo della pallacanestro reale. Anzi, visto che ormai il contratto é firmato, sarei davvero felice di essere smentito.

venerdì 21 giugno 2013

basket pulito


Non entro in merito al risultato tecnico: deontologia e ortodossia professionale non  permettono di pensare che il titolo di Siena non sia meritato. Siamo giustamente cresciuti nella sana convinzione che non esista verità più assoluta dei numeri che appaiono sul tabellone elettronico. Ciò che sconcerta invece, e in parte offende, è successo fuori dal campo. Lancio di oggetti, agenti in stato di guerra, giocatori minacciati, arbitri colpiti. Non è questa la pallacanestro che amiamo e che vogliamo. Il fanatismo bellico tipico degli ultras da stadio dovrebbe rimanere fuori da tutti i palazzetti. Vero é che spesso il pubblico diventa il braccio armato di menti che, inconsciamente o meno, favoriscono e a volte accentuano un clima pesante e sospettoso. Certamente la squalifica prima comminata e poi ritirata di due giocatori senesi non va nella direzione della trasparenza e risolutezza nelle decisioni. Così come alcune dichiarazioni infuocate di dirigenti e presidenti non aiutano di certo a spegnere gli animi bollenti. Ci vorrebbe maggiore moderazione sia nelle scelte che nelle affermazioni: ciò che si dice e si fa, soprattutto a certi livelli di responsabilità, non può non avere conseguenze. Le parole e i gesti vanno pesati, in particolar modo quando in gioco c'è qualcosa di importante, come uno scudetto. Pensare che Siena potesse godere di qualche appoggio nei piani alti ha prodotto, in realtà, un effetto boomerang: i detentori hanno tratto maggiore vigore, gli sfidanti si sono sbrodolati negli alibi. Certamente, quello che succede in Grecia nelle finali scudetto non è nemmeno paragonabile ad alcuni episodi, fortunatamente isolati, di casa nostra. Ma non è consolante: il nostro campionato, già afflitto dal contenimento dei costi e dal conseguente impoverimento tecnico, non può perdere ulteriore appeal nei confronti dello spettatore vero, quello che si reca al palazzo per vedere la propria squadra vincere ma anche per godersi lo spettacolo. Il nostro magnifico sport, per sopravvivere, ha bisogno che i bambini/e riempiano le tribune e che possano innamorarsi dei loro eroi/eroine. Noi abbiamo avuto la fortuna di vedere in città, da piccoli, giocatori come Fultz, Masini, Lister: é ancora da quella volta che ci dobbiamo riprendere dalla cotta.

martedì 11 giugno 2013

cose nostre



Mi ero ripromesso di smettere, ma la tentazione è superiore alla prudenza. Trattare le faccende di casa è sempre pericoloso: stare sul palco e recitare dal vivo non è più comodo di stare in platea a guardare ed applaudire. Perciò, spostando il cannocchiale verso il basso, non posso dire di essere soddisfatto del panorama che mi circonda. Questa mania di ricorrere agli allenatori fuori porta non mi convince: non certo e non tanto per invidia – panchina che scotta! – quanto per sano ma incontrollabile orgoglio. Davvero questa città non è in grado di avere un condottiero locale? Se Pianigiani da buon senese ha vinto un’enormità di scudetti da profeta in patria, com’è che non riusciamo qui da noi a fare la stessa cosa? Di sicuro non tutti nascono Pianigiani; di sicuro, qui in città, non si disputa la A1. E’ proprio necessario un allenatore professionista? In realtà, se fossi nei ragazzi locali, visti i chiari di luna, penserei principalmente a studiare o a trovarmi un’occupazione. Non siamo ai tempi di Lombardi e Pellanera, al classico anno zero: quei due hanno portato una mentalità nuova, un diverso approccio all’insegnamento. Da quel laboratorio tecnico, oltre a tanti buoni giocatori, sono usciti svariati allenatori che hanno fatto fortuna in città e altrove. Non ho nulla con gli allenatori che vengono da fuori, ci mancherebbe, ma oggi ci sarebbero le potenzialità per arrangiarci artigianalmente. Del resto, basta guardare alle realtà confinanti per percepire una maggiore fiducia nel prodotto locale. Non conosco il nuovo allenatore e non mi permetto di esprimere giudizi. Naturalmente è il benvenuto. Mi permetto invece di chiedere due cortesie. La prima, non si dimentichi mai di chi l’ha preceduto. Troppo spesso, chi arriva per ultimo, si prende dei meriti che andrebbero quantomeno spartiti. Lo stesso concetto può valere anche per le colpe. La seconda, se sono vere le prime dichiarazioni di amore verso i giovani, li faccia giocare e se ne freghi delle sconfitte e delle critiche: il lavoro che è stato fatto in questi anni non deve essere vanificato. Meglio, a parer mio, una retrocessione che porta sviluppo piuttosto che una salvezza o una promozione che danno disfacimento. Ora basta. Sapevo che mi avrebbe preso la mano. Prometto che non parlerò più di cose nostre per un bel pezzo. Mi risulta, oltretutto, che non manchino le opinioni. La mia, in fondo, conta poco; o meglio, conta solo per me.

lunedì 10 giugno 2013

senza paragone


È un gioco divertente ed innocuo. Paragonare giocatori di ere diverse ha tolto qualche ora di sonno ad addetti ai lavori e semplici appassionati. In questa amena contesa dialettica, non ci sono né vinti né vincitori. Tutti hanno in testa i loro idoli e nessuno é disposto a fare spazio ad altri nella hit parade della pallacanestro mondiale. Francamente, si tratta di un esercizio inutile: ogni giocatore è figlio del suo tempo, perció non comparabile fra epoche distinte. Non si possono confrontare Adriano Panatta e Rafael Nadal, entrambi vincitori del Roland Garros: altro tennis, altra velocità della palla, altri spostamenti. Panatta giocava quasi sempre a rete, Nadal gioca esclusivamente da fondo campo. Se mi è permessa una licenza da emerito ignorante in materia, preferivo il tennis del romano de Roma: meno scontato e noioso, più spettacolare e fantasioso. Se Adriano non avesse avuto quell'aria pigra e disinvolta, avrebbe vinto molto di più. Di Nadal mi piace la mentalità e l'indole alla sopportazione: una macchina costruita per fermarsi solo dopo la vittoria. Vale lo stesso nel basket: non si possono mettere insieme Michael Jordan e Le Bron James, oppure Larry Bird e Kobe Bryant. Tutti a modo loro sono stati dominanti, ma ciascuno é notevolmente diverso dagli altri per gestualità tecnica, capacità tattica, qualità atletiche. Personalmente, e non l'ho mai nascosto, ho un certo debole per i giocatori che usano la tecnica come arma principale. In questo senso, Kevin Durant mi sembra un alieno in un regno ormai dominato dalla potenza e dall'esasperazione fisico-atletica. Sono preferenze soggettive che lasciano il tempo che trovano: non sarà mai possibile far giocare insieme campioni di diversa generazione, se non nella nostra immaginazione o nelle competizioni virtuali. Una cosa é certa: abbiamo tutti in mente il dream team delle Olimpiadi di Barcellona. Non c'è mai stata una squadra di pallacanestro con più alta concentrazione di fenomeni. Nella Croazia che vinse la medaglia d'argento c'era un certo Drazen Petrovic che, a detta di molti, e anche mia, é stato il giocatore più forte che il nostro continente abbia mai creato. Sono vent'anni che non c'è più e che ci manca: meritó il rispetto degli americani in un'epoca in cui gli europei si contavano sulle dita. Chissà cosa avrebbe fatto Belinelli se fosse andato oltre oceano a quei tempi: non lo sapremo mai. Forse, chiederselo, è persino sciocco.

lunedì 3 giugno 2013

nuove da udine


Prescindendo dall'ottima e ormai collaudata organizzazione della Micalich band - impeccabili, come sempre - aggiungo sottovoce alcune riflessioni sul campionato giovanile più importante in Italia. Non tutti i giocatori più interessanti della nazione erano presenti a Udine: ciò non toglie che le sedici squadre che si sono date battaglia siano l'espressione più alta e veritiera della pallacanestro attuale. I punteggi mediamente bassi sono indice di un livellamento generale del talento offensivo ma anche di un accresciuto tono difensivo dovuto essenzialmente alle qualità fisico-atletiche dei giocatori. Non si può praticare questa disciplina se non si è, prima di tutto, buoni atleti. L'arbitraggio, a questo punto, ha una grande responsabilità: può decidere di assecondare questo nuovo corso, riducendo la fiscalità sugli inevitabili contatti, oppure intervenire spezzando il gioco e riportando l'aggressivitá difensiva alla normalità. Non è facile per un esterno entrare in area senza riportare danni: andando di questo passo, l'evoluzione naturale del gioco sarà un allontanamento verso il perimetro con utilizzo abnorme di tiro oltre l'arco. Nel pitturato entreranno solo i cloni di LBJ, ossia macchine da guerra umane capaci di resistere ai feroci tentativi di proteggere il ferro. Le due squadre meritatamente finaliste sono le uniche a possedere giocatori di sicuro avvenire a livello nazionale e oltre. Che il talento sia concentrato nelle mani di pochi club evidenzia due fattori, tra l'altro complementari: sono sempre meno le società che investono sui giovani e sono sempre meno i giovani interessanti in Italia. Non è il caso di fare confronti storici, ma non molto tempo indietro ci sarebbero state almeno altre sei sette squadre come Bologna e Venezia. Quello di quest anno é stato forse il primo campionato in cui si conoscevano le finaliste prima ancora di vedere tutte le squadre all'opera. A Lignano, giusto cinque anni orsono, Gallinari e Aradori, non due qualunque, uscirono ai quarti di finale con Casalpusterlengo. In questo contesto di austerity, non si è vista nemmeno l'ombra di una squadra regionale. Come dire, c'é chi  sta ancora peggio. Pordenone ha avuto almeno il merito di provarci: possibile che non si riesca a creare un gruppo, non importa dove, che riesca a rappresentare la  scuola  friulvenetogiuliana in Italia? Altrimenti ci dobbiamo accontentare di vedere i nostri talenti giocare altrove: Candussi, Turel, Maghet, Alibegovic, Di Prampero, per dirne alcuni. A pensarci bene, non sarebbe un brutto quintetto.