"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

venerdì 28 ottobre 2016

nè eroi nè falliti

' Quanto al raccapricciante atteggiamento delle frange intellettualmente più deboli della tifoseria italiana ( si parla di calcio ), giova ricordare che ad esse è totalmente mancata la mediazione culturale che fa la scuola nei confronti dello sport.' Parola di vate, al secolo Valerio Bianchini. Mi trovo quasi sempre in sintonia con il sommo; stavolta ho colto una nota stonata e, un po' per dovere e un po' per orgoglio, non voglio frenare la mia indole ribelle. Sono trent'anni che lavoro nella scuola - o meglio, che ci provo - e non passa giorno, ora, minuto, senza un confronto con gli adolescenti, il più delle volte aspro, sul rispetto dei valori umani e civili. Una battaglia incessante, senza esclusione di colpi, tra lancio di sassi da una parte e bombe atomiche dall'altra. Insegno in una scuola professionale, dove la mission di un insegnante si riduce spesso a portare in salvo, al suono della campana, il proprio deretano. Devi essere buono dentro e cattivo fuori: buono, perché non puoi odiare chi è nel bisogno, cattivo perché devono riconoscere una guida forte e sicura. Non posso sapere, se non al tramonto terreno, quanti giorni di vita - e con me tanti altri colleghi - ho lasciato sul campo per far convivere durezza e comprensione, severità e affetto. La popolazione professionale, sportivamente parlando, è di maggioranza calciofila: per uno spasimante del basket come il sottoscritto, la dantesca legge del contrappasso perfettamente riuscita. Conosco i miei polli e lotto duramente contro la  improduttiva e fuorviante formazione antisportiva di cui sono vittime: simulazioni, vizi, pigrizie, proteste, polemiche gratuite. Repertorio tipico del mondo del calcio e che purtroppo sta avanzando minacciosamente verso altri settori sportivi non più incontaminati. È una maleducazione diffusa, che parte da lontano, che ha in cattivi esempi la propria linfa e che si esprime spesso nell'arroganza verbale e, nel peggiore dei casi, nella violenza fisica. Forse la scuola non fa molto, ma fa la sua parte. Non mi sento un eroe, giammai, ma nemmeno un fallito. E non mi sento responsabile, se non come tutti, - spiacente caro vate - di ciò che dicono e fanno le curve negli stadi. Molti di questi ragazzi le scuole non le hanno viste o le hanno abbandonate in fretta. Piuttosto vedrei meglio una task force con unità d'intenti, dove, oltre alla scuola, anche le famiglie, le istituzioni e le associazioni non deleghino con facilità ma si assumano parte della responsabilità formativa. Perché, per fare un uomo, un uomo civile, ci vogliono tante componenti e, se possibile, in relazione tra di loro. Pensare alla scuola come unica ancora di salvezza significa aver perso ancora prima di giocare. E a Valerio Bianchini, come a tutti, non credo piaccia perdere.


martedì 25 ottobre 2016

gioco pericoloso

Morire di gioco. Anzi, morire giocando. Un paradosso: il gioco è sinonimo di vita, libertà di espressione, salute, benessere, gioia. Eppure avvengono tragedie di continuo e che spesso e purtroppo ci interpellano da vicino. Fatalità o incidenti evitabili? Lo sport attuale ha raggiunto livelli di sostenibilità sempre più elevati: l'enfatizzazione sulla componente atletica richiede inevitabilmente un'idoneità su prestazioni di alto dispendio energetico. La pallacanestro di oggi non è nemmeno parente, per ritmi ed intensità di gioco, a quella che si praticava trent'anni fa: sforzi continui e massimali, pause ridotte, velocità raddoppiata di spostamento dei giocatori e della palla. La famosa certificazione medica agonistica richiesta annualmente all'atleta non è in grado di garantire pienamente che un giocatore sia in grado di iniziare e terminare una partita senza conseguenze: il cosiddetto test sotto sforzo non è minimamente paragonabile alla fatica che deve compiere un atleta in situazione di stress fisico durante un normale match di pallacanestro. Vero anche che gli allenamenti a cui gli atleti sono sottoposti possono rappresentare un buon indicatore di quale sia il livello fisico di sopportazione dei singoli e della squadra. In pratica, se non ci sono segnali di cedimento durante la settimana, impossibile, o quasi, possano comparire in occasione delle dispute agonistiche. La partita, da par suo, può aggiungere una forte componente emotiva con indubbia incidenza sull'apparato cardio-respiratorio. Esiste poi un aspetto, fondamentale e delicato, di pronto intervento: non tutti i campionati, soprattutto giovanili, dispongono di un medico a bordo campo; non tutte le palestre sono munite di defibrillatore e, nel caso lo fossero, non è certo che esista un operatore presente in grado di saperlo usare. Un conto è fare un corso su manichini, un altro trovarsi in una situazione reale con poco tempo a disposizione e con una gravosa responsabilità da gestire con sangue freddo. Le temperature basse di alcune strutture possono diventare un ulteriore elemento di complicazione: non dimentichiamo che il palazzetto di Gorizia - dove Matteo Molent giocò la sua ultima partita - si presentava come un'autentica ghiacciaia. Detto questo, rimango dell'idea che in questi eventi drammatici la componente di casualità sia molto alta. Per quanto si cerchi, come è giusto è logico che sia, di prevenire e intervenire, non sempre è possibile prevedere, agire, risolvere. Non è per sollevare da responsabilità oggettive, che potrebbero anche essere accertate, ma certe cose succedono, e non solo sui campi di basket. È davvero tragico che capiti a ragazzi appena sbocciati alla primavera della vita mentre praticano la cosa più bella al mondo. Purtroppo la signora della morte non fa distinzioni: per lei siamo tutti uguali.

lunedì 10 ottobre 2016

fuoco sacro

Imperscrutabile, avvolto di mistero. Guardato con sospetto, come se fosse un'anomalia, un difetto da correggere. Mi riferisco al fuoco sacro, o sacro fuoco, dove sostantivo e aggettivo possono convivere in un modo o nell'altro, secondo gusti personali o musicalità letteraria. Tutti, indistintamente, abbiamo una caldaia installata nel cuore. Possiamo bruciare, come dice Elisa, e allo stesso tempo freddarci. Possiamo elevare la temperatura ai massimi livelli oppure spegnerci. Dipende, si dice così (che orribile espressione), dall'oggetto delle nostre azioni. Un giocatore, un atleta, dovrebbe ardere sempre, come il roveto di biblica memoria. Mantenendo il controllo della mente, consumandosi di continuo in campo. Rino Gattuso era così. Dino Meneghin era così. Amati e odiati allo stesso tempo, perché quando si è innamorati di una maglia si è inevitabilmente schierati. Chi ha fuoco sacro dentro non guarda alle conseguenze: agisce e basta. Pensa solo a ciò che è giusto fare in quel momento. Non pensa alla vittoria o alla sconfitta, pensa solo a giocare e dare il massimo per se e per gli altri. Non si risparmia, non cerca alibi, non perde tempo a protestare, rimane sul pezzo. Non si avvilisce se le cose vanno male, non si esalta se funzionano. Il suo cuore continua ad ardere e tutto ciò che succede intorno ha un valore relativo. Come allenatori abbiamo l'obbligo di insegnare la tecnica del gioco ma non dispensati dal gravoso compito di tirare fuori tutto ciò che c'è dentro nei giovani che ci sono affidati. Se vedono bruciare noi, bruceranno anche loro. Se noi abbiamo a cuore ciò che facciamo, anche loro non potranno evitare di mettersi a disposizione. Che piangano quando c'è da piangere e che gioiscano quando è necessario: le emozioni non sono altro che il linguaggio del cuore. Che sbottano qualche volta: significa che dentro non c' è il vuoto, che le parole hanno trovato un bersaglio. Non diventeranno campioni, forse, ma in ogni cosa che faranno saranno riconosciuti per tenacia e generosità. Possiamo insegnare ad un robot a fare canestro, ma non a tuffarsi per recuperare un pallone: perché il cervello porta a conservare, il cuore a sacrificarsi. Certe cose non si insegnano. Certe cose si fanno. E non sappiamo bene il perché. 

chi si accontenta non gode

Voglio dare una lettura diversa e provocatoria sul perché i giovani italiani faticano a fare le scarpe ai vecchietti e agli stranieri di turno. Davvero i nostri ragazzi sono così ambiziosi? Davvero scalpitano e spingono per ottenere un posto al sole? Mi tengo il beneficio del dubbio in attesa che i fatti mi diano piacevole smentita. Faccio sport da quando sono nato perciò non posso avere un'idea negativa del termine ambizione che, in questo ambiente, viene spesso accostato, come sinonimo, a competizione. Ambizione e competizione sono le due facce della stessa medaglia che tanta paura fanno ai detrattori del pianeta sportivo: un certo retaggio culturale, tipicamente italiano, spinge ad avere ritrosia verso tutto ciò che comporta conquista, lotta, selezione. Come se il mondo fuori delle palestre o dei campi sportivi ne fosse totalmente immune. Non può esistere sport senza ambizione, nemmeno senza competizione. Chi corre da solo per strada compete con se stesso cercando di spingersi oltre i propri limiti. Chi gioca in una squadra compete con gli avversari per avere la meglio in una disputa di orgoglio e bravura. L'ambizione è il carburante, la molla che spinge l'atleta a raggiungere i propri sogni. Un giovane senza ambizione è come un uccellino che non vuole uscire dal guscio: è qualcosa di incompiuto, paradossalmente per non correre rischi si espone a maggiori pericoli. Se si vuole crescere occorre misurarsi con difficoltà, frustrazioni, conflitti, avversità di ogni tipo: l'immagine di chi arriva in alto senza sgomitare e sbucciarsi le ginocchia o per meriti divini appartiene alle favole e alle proiezioni di romantica memoria. Ho come l'impressione che le giovani generazioni spesso si arrendano prima ancora di iniziare: un utilizzo sconsiderato e comodo della bandiera bianca come autodifesa. Per questo provo un certo piacere nel vedere quelle poche eccezioni alla regola di ragazzi sfacciati che sfidano la sorte affidando i propri sogni alla fatica e al sudore nel tentativo di raggiungere la meta. Per quanto possa sembrare presunzione o arroganza, chi si mette alla prova dimostra di avere l'atteggiamento giusto: nello sport la sfrontatezza è d'obbligo, chi si accontenta non gode. Che male c'è nel provare? Indietro si può sempre tornare, non sempre si può andare avanti.