"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 21 marzo 2015

privilegiato a chi?

Questa storiella - o favoletta che dir si voglia - che uomini e donne impegnati nel mondo dello sport abbiano, per natura e definizione, status di privilegiati rispetto ad altri lavoratori, ha da finire. In fretta e furia. Non si parla, in questo caso, di atleti, tecnici e preparatori di prima classe, che costituiscono una parte infinitesimale del tutto: non ho problemi ad ammettere che lo sport di alto livello abbia forse varcato, nella folle corsa ai rimborsi principeschi, la soglia di legittimità morale, ma allo stesso tempo non ho né potere né diritto di fare i conti in tasca alle aziende che hanno scelto gli atleti per veicolare i propri prodotti. Si parla, dunque, di quell'esercito numerosissimo di addetti, sconosciuti al grande pubblico, che si prodigano quotidianamente nelle palestre e nei campi di gioco e che hanno fatto dell'attività sportiva la ragion di vita e, per molti di loro, la principale se non unica fonte di reddito. Non si sa per quale contorto e recondito motivo - ma in seguito cercherò di spiegarlo se mi riesce - qualunque atleta, allenatore o altre figure operanti nello sport possano aspettare il rimborso dovuto, al contrario di altre categorie lavorative. Insomma, un ritardo nei pagamenti di tre quattro mesi é una cosa normale - si ricordi a proposito l'intervento di Petrucci lo scorso anno sul caso Montegranaro - per cui, poche storie, ci sono altri che versano in condizioni peggiori: della serie, c'è sempre un buon motivo per consolarsi. Questo aberrante concetto, tipicamente italico, é figlio della cultura e mentalitá di crociana memoria che, purtroppo, ad oggi ci portiamo ancora dietro e che non siamo più capaci, per comodità o interesse, a disfarcene. In soldoni, chi usa o si occupa del corpo, svolge un'attività secondaria rispetto a chi, nobilmente, si rivolge ad attività più qualificate per la mente, come la filosofia, la letteratura, l'arte e, modernamente parlando, l'economia. Scendendo ancora più sul piano pratico, chi fa sport si diletta in un'attività funzionale ad altre meno fugaci. Sarebbe interessante sapere quanta piacevolezza provano quei giocatori che devono star fuori mesi ed anni per infortunio, oppure quegli allenatori che vengono esonerati e posti in un cassetto, per non parlare della stragrande maggioranza dei preparatori che saltano da un posto all'altro per tirare fuori uno stipendio. Lavorare in palestra é bello: ditelo a quell' insegnante che si trova trenta piccoli uomini in preda ad una tempesta ormonale o a quell'allenatore che, pensando di correggere, si trova una fronda di adulti pronti a farlo a brandelli per aver toccato, metaforicamente parlando, i pargoli di nuova generazione. É vero, lo sport può essere una cosa bella, ma mai un gioco. Ci sono ore di studio, fatica, ripensamenti, sofferenze. Chi pensa che lo sport basti a se stesso, pensa male. Dare dignità é anche questo: mantenere l'impegno verso chi non ha mai fatto mancare l'impegno. Lo sport é anche lavoro.

sabato 14 marzo 2015

belli come noi

Dell'uomo dal simpatico baffo - diversamente dall'uomo con i baffi, decisamente minaccioso ed inquietante - ricordo soprattutto il grande fosforo e l'irridente sicurezza con cui si beveva, mentalmente, gli avversari. Da tifoso Olimpia - oggi un po' meno, sia per età che per contingenza - mi gloriavo nel vedere questo giocatore, fisicamente ininfluente, dominare il filo e il ritmo della partita a colpi di rubate, palleggi a slalom, passaggi, come si dice oggi, no look. Un genio del parquet, di quelli che ne nascono ogni mezzo secolo. Facile vincere così, vero Dan? Se poi vicino ci metti il pivot più forte d'Italia e altri pezzi da novanta, il piatto é servito. Quella fu davvero una squadra dove il peso specifico dell'intelligenza e della personalità superava di gran lunga il  talento diffuso nei singoli. Non per niente fu la più amata e ricordata negli anni. Vidi dal vero Mike D'Antoni la prima volta contro l'Hurlingham, a Trieste, nella stagione 1980/81. Palazzetto di Chiarbola gremito, già due ore prima della palla a due. In campo un giocatore: i raccattapalle locali che fanno a spinte per passargli la palla mentre si esibisce in un crescendo di tiri dalla distanza - la linea da 3 punti ancora non esisteva - mentre il pubblico non riesce a staccare gli occhi da quell' insolito evento pre partita. Nessun fischio, tantomeno insulti: tutti attratti magneticamente e verosimilmente spaventati da un giocatore speciale, io ventenne in adorazione nel contenere l'entusiasmo per evitare il peggio nella curva degli ultras. Per la cronaca Milano vinse a fatica, D'Antoni giocò malino - come succede spesso in questi casi - Trieste retrocedette quell'anno e l'Olimpia perse lo scudetto. Feci fatica, molti anni dopo, a considerarlo in panchina: lui era un mago in campo, un vero leader, uno che sapeva vincere e che odiava perdere. Le stagioni migliori come allenatore le ha vissute, guarda caso, con quella che può essere considerata la sua reincarnazione pura: Steve Nash, forse l'unico che poteva somigliargli, per tipologia e concetto di gioco. La verità é che in panchina non si è padroni come in campo. Ci hanno messo un po' di tempo ad appendere la maglia, forse troppo. Anche i bambini del minibasket sapevano che con il suo ritiro si sarebbe chiusa un'epoca. Come si dice a Milano, bej cume nunch la mama ne fa pù, s'é rott la machineta e ul papà al fa andá pu! Belli come noi la mamma non ne fa più. 

giovedì 12 marzo 2015

così non è

Pensavo che aiutare la nostra fragile gioventù a temprarsi ed irrobustirsi fosse una buona missione e un valido motivo per dare senso alla propria esistenza. Così non è. Pensavo che fare il proprio dovere fosse il modo migliore per contribuire, in piccolo, alla crescita della civiltà, a tal punto da non derubare ulteriormente uno stato già in ginocchio da sprechi e sperperi. Così non è. Pensavo che dare sfogo al corpo e al movimento fosse una cosa in sé divertente. Così non è. Pensavo che fare fatica, nel limite dell'accettabile, avesse ancora un diritto di cittadinanza. Così non è. Pensavo che giocare, nel senso di mettere due persone o due gruppi in competizione, fosse un'attività affascinante ed attraente. Così non è. Pensavo che la salute fosse ancora un valore con un alto indice di gradimento. Così non è. Pensavo che le discipline più sgradite - senza offesa - fossero italiano e storia. Così non è. Pensavo che un lavoratore che si guadagna la pagnotta sudando fosse meglio di uno sfaticato. Così non è. Pensavo che lasciare un segno nelle generazioni nascenti comportasse un briciolo inevitabile di sana frustrazione. Così non è. Pensavo che agli adulti interessassero giovani educati, forti e creativi. Così non è. Pensavo che ragazzi sani nella mente e nel corpo fossero un grande risparmio per le casse sociali. Così non è. Pensavo che lo sport e l'attività motoria fossero in cima ai pensieri dei nostri governanti. Così non è. Pensavo che le coppe e le medaglie vinte potessero convincere anche i più dubbiosi. Così non è. Pensavo che non vivessimo solo del gioco del calcio. Così non è. Pensavo che i ragazzi, l'ultima speranza rimasta, potessero ribellarsi a questo stato delle cose. Così non è. 
Nessuno mi tornerà indietro così tanti anni di illusione.

sabato 7 marzo 2015

ecco perché non credo alla fortuna

La fortuna nello sport non esiste. Esiste nel gratta e vinci, nella lotteria di capodanno, nella tombola di paese. La fortuna e, di conseguenza, il suo contrario, sono l'ennesimo pretesto per trovare una facile e, mi si lasci dire, banale spiegazione alle vittorie o sconfitte, a seconda di dove le si guardi. É bene dire che non è il caso - o il caos - a governare le sorti di un incontro: trovo più appropriato il termine imprevedibilità, che costituisce il fascino di qualsivoglia contesa agonistica. Possiamo preparare alla perfezione il piano partita e provarlo con ogni minuzia sul campo, ma la successione degli eventi sarà talmente sorprendente da rendere inevitabili adattamenti e manovre inusuali. L'imprevedibilità può essere allenata: ad esempio, variando continuamente situazioni di gioco o utilizzando trucchi strani come attaccare o difendere in vantaggio o svantaggio numerico. É chiaro che se la preparazione segue tracciati predefiniti e ripetuti alla noia, non ci si può lamentare di risultati impari alle attese. I giocatori in campo sono - o dovrebbero essere - anime pensanti, in grado di operare scelte per il bene della squadra: ogni decisione comporta delle conseguenze, perciò fare un passaggio in più o in meno determina la buona o cattiva riuscita di un'azione di gioco. Parlare di buona sorte significa mancare di rispetto a chi lavora quotidianamente per levigare le impurità e trasformare un insieme di giocatori in una squadra sinfonica. Lo stesso concetto vale per il buzzer beater, il cosiddetto tiro da lunga distanza. Chi é allenato per fare canestro da dieci centimetri, può fare canestro da venti metri. Ecco perché l'impresa di Antonia Peresson, nostra concittadina in USA, che ha fatto il giro della rete e dei social network in poco tempo, non è casuale e nemmeno frutto della fortuna: certamente é più facile sbagliare, ma sbaglio o si sbaglia anche da sotto canestro? Non sono stupito di quanto successo, più che altro preoccupato per quel povero maestro d'armi di vecchia scuola che le ha insegnato a tirare e al quale vogliono scippare i pochi meriti rimasti.