"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 31 dicembre 2015

porgi l'altra guancia

Porgi l'altra guancia. Assurdo. Impossibile. Posso concepire l'amore per il prossimo, la solidarietà verso chi soffre. Qui mi viene chiesto di rimanere impassibile, di non reagire alle offese. Chi é quella donna o quell'uomo che riesce a praticare la nonviolenza non solo come metodo, ma come atteggiamento dell'anima. Forse Madre Teresa, Gandhi, Martin Luther King. Io non ci riesco. Non ce la faccio a perdonare il male. La cattiveria che ci arriva addosso invece di depositarsi si infrange e rimbalza fuori: forse questa é una spiegazione  - non certo l'unica - dell'infelicità umana. Chi ha pronunciato queste parole era pazzo? Ci ha sopravvalutati? O forse era solo un bravo oratore a caccia di facili consensi? Eppure le donne e gli uomini che hanno lasciato un'impronta indelebile -  non lo dico io ma la storia - sono quelli che hanno scelto di vivere in pace con gli altri ma, soprattutto, con se stessi. Quando c'è un cuore sano e pulito non c'è spazio per il rancore: se c'è amore per se stessi, non c'è odio per gli altri. Tutti noi conosciamo queste verità in superficie, ma in profondità siamo vulnerabili e preferiamo obbedire agli istinti primordiali. Purtroppo, per natura  siamo più orientati ad ottenere la ragione piuttosto che a vivere bene. Porgi l'altra guancia, cioè fai in modo che il male che ti è stato fatto non si trasferisca altrove, ma si perda nei rivoli nascosti e inutili dell'anima. É un'impresa titanica, ma é anche l'augurio che mi faccio. Ed è anche l'augurio che vi faccio.

lunedì 28 dicembre 2015

dietro la linea gialla

Rimango sinceramente esterrefatto. Leggo su piazza virtuale - anche locale - resoconti di presunte e mirabolanti prodezze da parte di bambini ( o giù di lì ) già campioncini in erba e capaci di eroiche gesta sportive tra coetanei. É l'ultimo ritrovato di violenza - mascherata da adulazione - perpetuata dal mondo degli adulti nei confronti dei minori. I genitori proprio non ce la fanno a stare dietro la linea gialla: in tribuna urlano, a casa parlano ( spesso sparlano ), ora addirittura scrivono. C'è da preoccuparsi, e non poco: crescendo con una percezione deformata della realtà - perché, parliamoci chiaro, a quell'età nemmeno Gallinari era un fenomeno - l'effetto che si ottiene è inevitabilmente catastrofico. Quando si accorgeranno di essere stati ingannati, quei bambini, ormai adolescenti, ci metteranno poco a rinnegare tutto quanto e cercare altrove soddisfazioni veritiere. Le parole, dovremmo saperlo, sono più potenti di qualunque spada: possono accarezzare, incontrare ed alleviare, ma anche illudere, fuorviare e generare malintesi. Dire ad un bambino che ha compiuto una vera impresa nell'aver vinto contro i simili del paese accanto - che, magari, hanno cominciato proprio ieri a fare sport - , significa non aver compreso quale sia il messaggio autenticamente formativo da usare in questi casi. Chiediamoci seriamente se la penuria di giocatori di alto livello - intendendo atleti al termine del percorso giovanile - sia dovuta anche  - certamente non solo - ad un'esaltazione sconsiderata delle capacità tecniche che conduce come esito ad un abbassamento delle motivazioni a migliorare. Poi, non ultimo, c'è il rispetto per i perdenti, elemento per nulla secondario. Chi ha subito una sconfitta, in particolare se giovane d' età, non sente necessità di ulteriori commenti. Una sconfitta, come una vittoria, parlano da sé, non hanno bisogno di aggiungere parole. Fosse per me, vieterei non solo gli articoli, ma anche i tabellini e le menzioni individuali: i risultati delle squadre sono visibili sui siti ufficiali delle singole federazioni. Sono consapevole, non è un discorso particolarmente natalizio, ma quando ci vuole ci vuole.

martedì 22 dicembre 2015

un anno da non so dove

Un anno. Chissà che risate dal non so dove nello spiare noi poveri mortali preoccupati di futilità e invano affannati a far quadrare conti che non tornano mai. Chissà se nel non so dove ti è capitato di incontrare i nostri angeli - Matteo Luca Andrea - che come te hanno lasciato questo mondo troppo in fretta e con intere pagine di domande che attendono ancora risposta. Un anno. Chissà se nel non so dove esistono il tempo e lo spazio, chissà, se dalle tue parti, é passato davvero un anno. Chissà se nel non so dove i miei genitori possono sentirmi, se è possibile recuperare il tempo perso, perché non sono bastati quasi cinquant'anni per dirsi e perdonarsi tutto. Chissà, forse il non so dove non si trova così lontano, forse siete nei nostri pensieri, nei gesti, siete al nostro fianco nella lotta quotidiana contro il marcio che cresce dentro e fuori di noi. Chissà, forse siete artefici impalpabili della faticosa e lenta trasformazione dei cuori da pietra in carne. Forse, se il mondo non è ancora sprofondato negli abissi, lo dobbiamo a voi, anime silenziose che vegliate sui nostri passi incerti. Un anno. " Caterina, se ancora per un attimo potessi averti accanto " sembra scritta apposta per chi ancora non riesce a spiegare e a darsi pace per la tua assenza temporale. Chissà, forse non te ne sei mai andata, forse sono i nostri occhi che non sono in grado di vedere il tuo sorriso e il tuo immancabile libro. Forse sono le nostre orecchie che non riescono più a sentire la tua fine ironia e le tue idee stravaganti e creative che ci hanno fatto e ci fanno navigare nel mare della tranquillità. Dal non so dove, insieme a tutti gli altri angeli, vigila su di noi, creature fragili e fallibili. 

sabato 19 dicembre 2015

indispensabile un corno

Va fatto un ragionamento nudo e crudo sull'indispensabilità. A maggior ragione oggi, che il talento lo si vede al binocolo e che la quantità di giocatori bravi si riduce considerevolmente. C'è il rischio, più o meno consapevole, che si creino dei mostri al posto di campioni. Il veleno somministrato a piccole dosi, basato sulla totale accondiscendenza, prima o poi farà effetto: l'adulato, non appena scoprirà l'inganno - 'forse non sono il fenomeno che tutti pensavano che fossi' - cadrà in un pozzo profondo senza aver speranza di risalita. É quello che più o meno succede ai giovani atleti cosiddetti promettenti: non escono mai dal campo, se non per cause di forza maggiore, non sono redarguiti (se vanno cazziati questi, figurati gli altri!), sono trattati con i guanti bianchi, ci si premura costantemente dello stato di salute perché, se dovessero marcar visita, sarebbero guai seri. Così, per riempire il taccuino di vittorie, ci si dimentica del primo e vero obiettivo con i giovani: guidarli alla maturità piena, fatta di consapevolezza ed autonomia, dove i limiti non sono peccati mortali ma elementi funzionali al miglioramento. In realtà, in questi casi chi subisce maggiori danni non é il giocatore in difficoltà che vede a malapena il campo - anche se la sofferenza di restare seduto in panchina per quasi due ore non é paragonabile al peggior insulto - semmai il predestinato che trovando davanti a sé praterie di libertà concessagli non può conoscere il confine tra ciò che é giusto e non giusto fare nelle diverse situazioni di gioco. L'indispensabilità, a prima vista placebo, diventa un boomerang fatale quando il gioco si fa duro ed é necessario avere atleti abituati non solo alle vanità della gloria temporanea, ma anche alla frustrazione imprevista ed inevitabile. Mi vengono in mente migliaia di giocatori che a livello precoce giovanile fanno sfracelli e che non appena raggiunta la fase della maturità agonistica non riescono a compiere il passo decisivo: tutta colpa del fisico? O della tecnica? O forse di una inabitudine a soffrire e sopportare, figlia di tanti, troppi anni passati sotto i riflettori senza aver mai provato la gavetta, la solitudine, il rimprovero, l'esclusione? Non si può non essere d'accordo con la Piccinini sulla disanima dei giovani atleti d'oggi: siamo però proprio sicuri che le responsabilità siano a totale carico dei giocatori? Non è che per caso, la vita troppo facile e spedita degli anni precedenti abbia inquinato le attese, le resistenze, le solidità? Nessuno é indispensabile, tutti sono utili: sembra un luogo comune, oggi invece è l'unica via percorribile per la salvezza dello sport. E forse non solo.

giovedì 19 novembre 2015

mente superiore

Da tempo ormai si accenna ovunque ad una dimensione nuova dello sport, dove l'aspetto fisico prevale su quello tecnico. Giocatori come Rivera o Marzorati, per capirsi, non avrebbero posto nella nuova mappa agonistica delle discipline di squadra. É una teoria che mi trova parzialmente d'accordo: fermo restando che un buon giocatore debba essere un buon atleta, c'é una terza componente che, nell'era post moderna delle scienze sportive, può fare la vera differenza. Ci si riempie la bocca di qualità tecniche e fisiche, ma si dimentica colpevolmente il punto dove tutto ha origine: la mente. A mio parere, un giocatore bravo tecnicamente ed equipaggiato fisicamente con scarsa struttura interiore non potrà mai giocare ad alti livelli, mentre é possibile che succeda l'inverso. Dal mio osservatorio - pur sempre ristretto ma sufficientemente rappresentativo - colgo una certa lacunosità nei giovani atleti odierni - anche se soggetti simili non mancavano anche in passato ma in percentuale minore - nell'affrontare mentalmente nei modi giusti l'evento sportivo, particolarmente agonistico. Ansie ingiustificate, aspettative eccessive, fragilità ed incertezze palesi che influiscono sulla prestazione individuale e, di conseguenza, di squadra. Sembra mancare, per così dire, una certa durezza psicologica, quell'energia interna che aiuta a superare le difficoltà e che costituisce il carburante indispensabile per elevare il livello motivazionale ad apprendere nuove cose. Le risposte più frequenti " non sono capace " oppure " non ce la farò mai " sono testimonianza vocale e reale di una debolezza costitutiva sul piano della volontà e determinazione. Quasi una visione fatalista per cui solo alcuni predestinati potranno accedere alle stanze del successo, sottovalutando il potere che é in ciascuno di auto determinarsi. La soglia del dolore, fatta eccezione per le poche mosche bianche, si é notevolmente abbassata: un normale infortunio si trasforma spesso in tragedia ed é difficile se non impossibile incontrare ancora qualche atleta che anteponga il risultato sportivo al proprio stato di salute. Il problema é che anche un leggero risentimento o un lieve malore viene percepito come ostacolo insormontabile, come se il giocare in 'perfette condizioni' fosse imprescindibile per scendere in campo ( discorso particolarmente rivolto ai maschi ). La percezione della sofferenza é soggettiva, ma può essere allenata: se veniamo invitati a fare una bella vita comoda, sarà difficile tenere duro o non mollare quando le situazioni, non solo sportive, lo richiederanno. Possiamo avere bicipiti quadrati, una tecnica sopraffina, ma tutto questo arsenale serve a poco in presenza di un' evidente debolezza mentale. Rispetto ad un tempo, gli atleti vanno allenati nella testa: é lì che si aprono le pieghe fatali della fiacchezza, rassegnazione, svogliatezza. É lì che si devono compiere gli sforzi più grossi se si vuole seguire la strada del successo. Ed é il compito più difficile, perché il nemico non é l'atleta, ma tutto ciò che gli ruota intorno.

martedì 10 novembre 2015

vittoria stupefacente

È finita. L'epoca dello sport come esclusiva scialuppa incorruttibile capace di portare in salvo ciò che rimane di questa fragile umanità. L'illusione di un'isola felice, intaccata, protetta dal male, é svanita, da tempo ormai. L'idea di un mondo a parte, bello in sé ed impermeabile, dove il contemplato corrisponde a realtà, non esiste più. Come in un film di 007: non sappiamo più di chi fidarci. L'eroe che abbiamo applaudito e per cui abbiamo pianto diventa l'orco da cui dobbiamo fuggire. Il muro che sembrava abbattuto da qualche parte resiste. Scandalizzarsi, ormai, diventa insufficiente, se non complice. Chi lavora in questo campo, non può più fare finta di niente: dall'allenatore della nazionale a quello del paesino sperduto di montagna. É necessario fuggire dai luoghi comuni, in fretta: é così da sempre, non cambierà mai, lo sappiamo tutti. Tutti lo sappiamo, ma continuiamo a starne fuori, rassegnati ed impotenti. É giunto il momento, invece, di scendere in campo e dire chiaramente ai nostri utenti - che siano bambini o adulti - che non esistono scorciatoie o trucchetti, che non ci sono cose al di fuori della propria mente cuore e gambe per inseguire la vittoria, che tutto ciò che si é va innanzitutto accettato ed eventualmente modificato attraverso la volontà e l'applicazione quotidiana. La vittoria a tutti i costi, con tutto ciò che ne consegue, andrebbe annoverata nelle tipologie moderne di doping: quando, per vincere - o meglio, per non perdere - una gara insignificante ( ad esempio, il palio dei rioni ), siamo disposti a tutto, anche a sacrificare emozioni e sentimenti di alcuni o a ricorrere a strumenti e metodologie discutibili, non si è molto distanti da chi fa uso di steroidi per salire sul podio alle olimpiadi. Siamo solo su un piano espositivo diverso e probabilmente non ci saranno retaggi con la legge ma solo con la coscienza. Vincere é bello, ma può diventare una dipendenza, come qualsiasi droga comune: può accecare la mente e le scelte conseguenti, indurre a non distinguere fra ciò che andrebbe o non andrebbe fatto, cambiare le nostre abitudini da costruttive a distruttive. In fondo, per quale motivo se non per vincere gli atleti si dopano? La vittoria, che sia ai campionati del mondo o a quelli del quartiere, ha sempre la stessa attrattiva: dipende da noi - formatori sportivi? non trovo migliore etichetta - trovare la ricetta e le dosi giuste. Se saremo troppo ingordi, chi ci segue si abbufferà. Ed una volta tanto dovremo imparare a mandare a quel paese chi ci dirà che saremo valutati per le vittorie. Saremo invece valutati per gli atleti e gli uomini che avremo contribuito a crescere.

giovedì 5 novembre 2015

Ettore eroe invincibile?

Dalla vicenda Petrucci-Pianigiani, pur assistendo da lontano e a differenza di Dan Peterson, non ricavo messaggi confortanti. A noi, gente di palestra abituata a dirsi in faccia le cose, non piace molto il politichese ed il contorsionismo diplomatico: sarebbe stato meglio e più credibile dire pane al pane e vino al vino. Ho sentito spesso in passato il Presidente usare lodi sperticate verso l'allenatore della nazionale ( ormai ex ) definendolo come l'uomo giusto per risollevare le sorti cestistiche della nazione: mi chiedo, é un tiro entrato od uscito a far cambiare repentinamente opinione? O ci sono altri interessi in gioco? O ci si è raccontati frottole per tanti anni? La proverbiale impopolarità mi impone ancora una volta di schierarmi contro la logica: non ho nulla contro Ettore Messina, ci mancherebbe, ma Pianigiani avrebbe dovuto terminare il suo lavoro. Sono stati fatti sforzi impressionanti per avere un allenatore a tempo pieno che si occupasse anche di programmazione giovanile: ora avremo due tecnici super pagati - perché non credo che il buon e bravo Ettore, giustamente, faccia questo solo per amor patrio - ed un preolimpico gravosissimo se organizzato tra le mura amiche e dall'esito fortemente incerto ( é sufficiente un super allenatore per vincere? E se poi dovesse fallire anche Messina, che facciamo, chiamiamo Popovich? ). Aggiungo due amare considerazioni: mettendo in un angolo Pianigiani a proseguire il percorso con le nazionali giovanili, necessariamente ed inevitabilmente ci sarà un ridimensionamento proprio in una fase storica dove l'intervento verso le generazioni future dovrebbe essere primario: onestamente, non riesco a scorgere all'orizzonte ( certo l'età non aiuta la vista ) qualcuno che possa somigliare a Gallinari, il quale ha ricordato a tutti nella malinconica e sincera intervista post Lituania di non essere più quel giovane talento di cui tutti andavamo fieri ormai qualche anno fa. Secondo: non vedo come un allenatore a perdere ( nel senso con il destino segnato ) possa investire tempo, mente, cuore verso qualcosa che sa di dover abbandonare. Credo che la testa di Simone, in questo momento, sia comprensibilmente verso impegni futuri che, a rigor di logica, lo porteranno lontano dalla penisola. Il compromesso non è mai un buon affare: tutti vogliamo vincere, caro Presidente, non solo lei, ma non ad ogni costo. Pensare alla nazionale sganciata dalla base, é come credere che uscirà la spiga senza gettare la semente. I due più forti giocatori italiani sono figli d'arte: non si potrà sempre ricorrere al DNA. Ultima confessione: se fossi stato Ettore Messina avrei declinato: ma io sono io e lui é lui. Qui si che c'è una bella differenza. 

martedì 3 novembre 2015

un fisico bestiale

Ogni giorno che passa, allenare diventa sempre più difficile. Non solo e non tanto perché un genitore scriteriato spara al negozio gestito dal mister del figlio. Un fatto gravissimo che desta soprattutto clamore, ma quanti mini episodi silenziosi si consumano all'interno di palestre e campi di gioco? Ne sa qualcosa chi lavora abitualmente nella formazione sportiva dei/le ragazzi/e. Probabilmente uno dei motivi per cui molti abbandonano la professione - o per meglio dire passione, visto che il 99% degli implicati svolge tale pratica in forma quasi amatoriale - preferendo altre attività gratificanti, lontane dai guazzabugli quotidiani messi in scena da adulti insoddisfatti che finalmente trovano una faccia, un nome, un fatto su cui scaricare rabbia repressa. Il mestiere - o vocazione, o missione, a seconda dei casi - dell'allenatore é profondamente cambiato nel corso degli anni: negli anni '60-'70, quando lo scrivente ebbe il battesimo del fuoco, la palestra era un luogo sacro e inviolabile e chi dirigeva le operazioni era visto come un santone virtuoso e non raggiungibile. La verità é che quelli come me - dilettanti allo sbaraglio e promossi con i gradi sul campo - commisero un sacco di errori - assolutamente più gravi degli attuali - ma nessuno si permise mai di interferire o di mettere in discussione l'operato degli istruttori. Un esempio? Quando un ragazzino si comportava male, il minimo della pena consisteva nell'espulsione e rientro al proprio domicilio: nessuno, dico nessuno, si presentava successivamente a protestare per l'accaduto. Nei giorni nostri, un fatto del genere rientrerebbe negli articoli di stampa oltre che del codice penale ( pensiamo al povero e bravo Guido Saibene che per aver messo le mani sulle spalle al giovin di turno si è guadagnato la gogna mediatica e l'esonero, grazie all'intercessione dei nuovi padrini, i procuratori ). Oggi, anno 2015, le palestre sono aperte a tutti: durante gli allenamenti, é consuetudine la presenza massiccia sugli spalti di adulti intenti a carpire ogni parola e mossa del malcapitato: perciò frasi misurate, correzioni velate, punizioni sparite e, alla fine, il classico nugolo di clienti in fila pronti ad esprimere opinioni, lamentele, situazioni problematiche, aggiornamenti scolastici. Il paradosso é che gli allenatori odierni sono molto più preparati di quelli di un tempo, eppure sono più criticati ( lo stesso paradosso andrebbe rivolto ai giocatori: come mai con tecnici più bravi non sono migliori dei colleghi di un tempo? ). Dicono che i tempi sono cambiati e che ci si deve adeguare: ok, dico io, ma chi mi garantisce che siano cambiati in meglio? Chi si mette a spiegare che ci sono dei ruoli, dei confini, che esiste un rispetto, una dignità, che gli errori sono ammissibili e che soprattutto vanno attribuiti in tutte le direzioni? Ha ragione Luca Carboni, ci vuole un fisico bestiale. 

giovedì 22 ottobre 2015

un pane per amor di Dio

L'ultima buffonata corrisponde al bonus di 500 euro per gli insegnanti: chi ha la mia età si ricorda " un pane per amor di Dio ", quando si consegnavano le scatoline in Chiesa piene di tintinnanti monetine per i bambini poveri. Non ho mai sopportato l'elemosina da giovane quando ne avevo bisogno, figurarsi adesso che sono adulto. Perché di carità, in senso spregiativo, vera e propria si tratta, con tanto di presa per i fondelli. C'è un contratto del comparto pubblico fermo ormai da 10 anni: cosa ci si inventa? Si tira fuori dalla grande tasca erariale un obolo nazionale e lo si allunga ai bisognosi: così, almeno per un po' di tempo, smetteranno di lamentarsi. Come nel feudalesimo, quando il gran signore di turno, nascendo il primogenito, si faceva improvvisamente prendere da impeto solidale. Ma la vera beffa é un'altra: questi soldi devono essere spesi solo in un certo modo e, per giunta, rendicontati, con tanto di ricevute fiscali, scontrini e fatture. Addirittura, se non saranno spesi come richiesto, verranno restituiti. " Così gli insegnanti potranno andare a teatro! " così è stato detto, tra squilli di tromba, tappeti rossi e sguardi soddisfatti. E se con quei soldi volessi fare la spesa? Oppure pagare l'erasmus dei figli? O la benzina che mi porta da una scuola ad un'altra? No, solo aggiornamento, teatro, libri, addirittura cinema ( mi chiedo: se vado a vedere 007 o Indiana Jones, tengo lo scontrino? ). Non sono mai stato e non sono tutt'ora di sinistra, destra, centro; non mi interessa nemmeno correre dietro a battaglie opportunistiche, da qualsiasi postazione vengano. Non ci vuole però una mente particolarmente raffinata per capire il significato di questa manovra: visto che lavori poco (?) e che soprattutto ti formi poco (?) ora ti controllo per vedere se fai davvero il tuo dovere, dato che (presunzione?) non lo fai abbastanza. E poi, dare i soldi per il teatro non é un riconoscimento pubblico che questa categoria, di fatto, non se lo può permettere? E ancora, siamo proprio sicuri che gli insegnanti fino ad oggi non andassero a teatro? Sinceramente trovo particolarmente irritante che qualcuno mi dica cosa fare del denaro: piuttosto, non darmelo, come si è fatto sempre ci si ingegnerá a trovare le soluzioni. Per caso, ai tanti vitalizi elargiti agli uomini in politica viene chiesto di spenderli in opere di bene? Forse mi sono perso qualcosa, ma al momento non risulta. Perciò, per quanto mi riguarda, io non li ho chiesti e non li spenderò: continuerò ad aggiornarmi e andare a teatro comunque. Invece mi batterò per quelli che sono dovuti e che attendono risposta da anni, per quelli che non hanno bisogno di pezze giustificative, semmai di giusta considerazione e, di conseguenza, attuazione. 

giovedì 8 ottobre 2015

crém de la crém

Dopo parecchie primavere ( autunni, inverni) trascorse/i in trincea, mi sono fatto una mezza idea del perché l'insegnante di educazione fisica - o scienze motorie, ultima beffarda definizione valida più in apparenza che in sostanza - sia particolarmente inviso all'ambiente scolastico, studenti naturalmente esclusi. In una parola: invidia. Invidia? Si, invidia. Per prima cosa, l'aspetto esteriore: in genere - anche se circolano illustri eccezioni - il docente di ginnastica - non è così che Battiato chiama le ore di lezione in palestra? - si presenta sufficientemente in forma, con il sorriso stampato in faccia ( quasi a dire che la vita grama ha risparmiato una piccola fetta di eletti ) e la battuta quasi sempre pronta in bocca. Molti si chiederanno: ma cos'hanno da ridere questi? E come si permettono di ironizzare sulla scuola? Ma soprattutto, guarda come passano il tempo libero, a scolpire il corpo invece che a nutrire la mente e l'anima. Esiste poi tutta la gamma di privilegi didattici: non c'è aula, bensì palestra ( che poi sia piccola, sporca e buia non importa, sempre di palestra e non di aula si tratta ), non ci sono compiti da correggere, lezioni da preparare ( ma chi lo dice? ), non fanno i coordinatori di classe ( pensa te che fortuna ) e in genere non si occupano della governance organizzativa ( ma qualcuno ha mai chiesto qualcosa? ). Soprattutto - e questo é il punto maggiormente dolente - occupano i pomeriggi nelle varie società sportive dove guadagnano caterve di soldi (?) e sprecano energie preziose che potrebbero essere dirottate in attività congeniali e affini, come la lettura, lo studio, l'aggiornamento ( e chi dice che non sia fatto? ) e chi più ne ha più ne metta. Ultimo peccato, ma non ultimo, questa lobby mette in testa idee strane ai ragazzi, incoraggiandoli a svolgere attività sportiva quando invece, rappresentanti delle istituzioni, dovrebbero indurli a prendersi carico, in primo luogo, dei doveri scolastici con tutto ciò che ne consegue, perfino l'abbandono se tale esercizio dovesse distrarli dall'obiettivo principale. Sento parlare di scuola moderna, al passo con i tempi: la mia sensazione é che il famoso dualismo corpo mente di crociana memoria non sia del tutto sparito dalle nostre scuole, anzi stia tornando prepotentemente in auge. Continuiamo a riempire la testa dei nostri ragazzi, chissenefrega se poi non riescono a percorrere nemmeno tre minuti di corsa perché il peso non glielo permette. Belli i discorsi sul valore della salute, di cui tutti si riempiono la bocca: peccato che, alla resa dei fatti, se si facesse un referendum sull'educazione fisica a scuola - e di questo ne sono certo, con mano sul fuoco - verrebbe abrogata per lasciare spazio ad argomenti più validi e necessari, come i computer, l'inglese, l'economia. Naturalmente non verrebbe permesso ai ragazzi di esprimere il parere. Continuiamo a valutare le persone per ciò che sanno, non per ciò che sono: e nella sfera dell'essere, esiste anche un buon rapporto con il proprio corpo. Detto ciò, gli insegnanti di ginnastica sono belli, magri, sorridenti, ricchi: perché dovrebbero lamentarsi? Crém de la crém....

sabato 3 ottobre 2015

agonismo puro/2

Scendo sul pratico. Dalla purezza dichiarata a quella esercitata. Mettiamo caso mi sia affidata una squadra di ragazzi/e di primo pelo, quindi totalmente digiuna a livello tecnico: ho due strade davanti, diametralmente opposte, quella più immediata e meno dolorosa di limitare i danni dove, tra furbizie ed alchimie pseudo tattiche, riesco ad ottenere risultati in apparenza sorprendenti oppure quella più impervia e sofferta di insegnare da zero l'ABC della pallacanestro sapendo in partenza che non sarà possibile per lungo tempo offrire la benché minima resistenza all'urto degli avversari. In pratica, la differenza sta nel dare una misura alla sconfitta: perdere con un distacco minore per qualcuno è già una mezza vittoria. Scelte che hanno delle conseguenze: nel primo caso i giocatori sono a servizio dell'allenatore, nel secondo l'allenatore é al servizio dei giocatori. Esistono purtroppo due aspetti dell'era moderna che in genere condizionano in negativo le scelte dei tecnici: il concetto deviato comune - nato chissà dove - che il coach valga per i risultati che ottiene. Nulla di più falso: l'unico vero criterio di valutazione, se ce ne fosse uno, sta nella produzione di giocatori - a tutti i livelli, compresi le minors - e non solo per i campionati top. Per fare giocatori ci vuole molto tempo ( quindi il giudizio viene necessariamente ritardato ) e il premio in genere va condiviso con tutti quelli che ci hanno messo le mani. L'altro tallone d'Achille sta nella presenza sempre più massiccia e invadente delle famiglie, che appena vedono risultati deludenti, trovano il capro espiatorio nel bersaglio più facile. Purtroppo il punto di osservazione dei genitori é ridotto ad 1/12 del problema: per questo allenatori e famiglie non potranno mai andare d'accordo, anche facendo mille riunioni straordinarie notturne. Il secondo esempio é l'inverso: mettiamo caso che mi capiti una squadra con giocatori di qualità e che possa avere ambizioni di successo. Anche in questo caso posso operare scelte diverse: continuare ad insegnare la pallacanestro - perché, checché se ne dica, c'è sempre da imparare - tentando di portare i giocatori ad un livello più alto oppure usare le loro caratteristiche intrinseche per ottenere il massimo da ciascuno. Se uno non sa tirare, pazienza, non ho tempo per insegnargli, cercherò di sfruttare la sua verve difensiva nei momenti di bisogno. Se uno è alto e grosso ma con le mani di piombo, andrà bene per fare blocchi e tagliafuori: non importa se il suo campionato, a fine corsa, sarà inesorabilmente tra i dilettanti. È così via: in pratica, il risultato finale sta al di sopra di tutto, dove le lacune di ciascuno diventano perdite inevitabili e le capacità specializzazione al servizio dell'obiettivo. Naturalmente uno scudetto appiccicato sulla maglia vale più di tante tacite sofferenze. Mi rendo conto, é difficile restare puri nello sport: tutti quanti, bene o male, prima o poi, ci siamo macchiati. Nessuno é sotto accusa, ci mancherebbe: vista però la penuria di giocatori di qualità sulla penisola, forse qualche domanda ce la dovremmo fare tutti. Io per primo: inseguendo la vittoria, abbiamo smesso di insegnare?

martedì 29 settembre 2015

agonismo puro

Abbocco volentieri all'amo lanciato da Federico Danna in questi giorni sul fallo tattico non ritenuto antisportivo che ormai sta spadroneggiando anche in ambito giovanile. Condivido tutto, anzi mi sento di portare la riflessione a livelli quasi estremi. L'impressione é che la pallacanestro in età evolutiva abbia perso la tipicità che la contraddistingue e che la differenzia - non certo contrappone  - a quella adulta. Non si devono perdere di vista gli obiettivi: un conto é formare giocatori, un altro ottenere risultati immediati. Quasi sempre - se non addirittura sempre - queste due dimensioni - chiariamoci, entrambe nobili e degne di rispetto - si respingono, come se il raggiungimento dell'una precludesse quello dell'altra. Il libro della pallacanestro giovanile in Italia é piena di pagine: squadre che hanno vinto tanto ma che non hanno sfornato granché ed altre che hanno vinto poco ma che hanno regalato intere generazioni di giocatori. Non é detto che la pallacanestro, anche nelle regole, debba essere la stessa a tutti i livelli: ad esempio, giocare 24 secondi nelle giovanili non ha fatto altro che accrescere la frenesia di gioco assottigliando le idee di collaborazione e mettendo di fatto in crisi il fondamentale del passaggio, di cui tutti oggi reclamiamo l'assenza. Gli americani, che non sono gli ultimi arrivati in questa disciplina, si guardano bene dall'unificare i tempi di gioco tra NBA/WNBA e college M/F - attualmente 30 secondi, fino all'anno scorso addirittura 35 (a mio parere, molto meglio!). Se dovessi definire quale debba essere la singolarità della pallacanestro giovanile, userei il termine purezza. Che non significa assenza di agonismo, tutt'altro: competizione vera, dove il risultato é importante ma non è il valore assoluto. Dove la vittoria non é l'unico metro di misura o l'unico idolo d'oro a cui sacrificare tutti quei valori su cui si basa la formazione di un atleta. Le gare sono al servizio dei giocatori, non i giocatori al servizio delle gare. Per purezza intendo l'essenza della didattica: ai ragazzi/e va insegnata la grammatica del gioco che consiste nel fornire gli strumenti necessari per prevalere sugli avversari. Tutto ciò che esula da questo concetto non é altro che la ricerca, non del tutto pulita ed incolpevole, di sotterfugi, scorciatoie, trucchetti, per nascondere i propri limiti avendo come fine ultimo ed esclusivo la vittoria a tutti i costi. In questo rientra il caso presentato da Federico in questi giorni, ma ce ne sono altri: il buttarsi a terra al primo contatto, il continuo condizionamento degli allenatori sugli arbitri, l'utilizzo sfrenato del tatticismo a scapito della tecnica. Invece di lavorare per colmare le lacune, si nasconde tutto sotto il tappeto attraverso furbizie ed alchimie. Non c'è molto tempo per lavorare in palestra? Bene, non va sprecato, va usato esclusivamente per insegnare a giocare a pallacanestro. I risultati non arrivano? Pazienza, il tempo é galantuomo: non c'è niente di più appagante che sentir dire, anche da un solo giocatore, di essere diventato migliore grazie alla pallacanestro. 

venerdì 18 settembre 2015

brodino preolimpico

Dell'Europeo hanno ormai già parlato quasi tutti, compresi alcuni famigliari che non riconoscono nemmeno un campo di basket da uno di volley. Se non altro, per due settimane, perfino il calcio é passato in secondo piano: effimera illusione, tra un po' tutto tornerà alla normalità. A vedere pallacanestro, rimarremo i soliti quattro gatti, che non hanno niente a che fare con quelli di Trapattoni. Vi stupirò dicendo che a me Pianigiani é piaciuto di più in campo che davanti al microfono: quasi in stato depressivo, lamentoso oltre misura, con espressioni facciali e verbali poco inclini all'ottimismo. Infortuni, arbitraggi, carenza di vissuto agonistico: caro Simone, se avessi perso con Da Tome in campo, com'è successo con la Turchia, cosa avresti detto? Non mi pare che la Spagna se la passi meglio, eppure é arrivata in fondo. Preparazione e conduzione delle partite, grazie agli ottimi collaboratori, quasi impeccabili: forse ci voleva un po' meno braccetto corto nel dare maggior respiro alle prime linee, considerando che Melli Cusin e Aradori non più tardi di due anni fa in Slovenia giocarono da protagonisti in una nazionale sorprendente e che si trovò stremata nel finale del torneo. Una nazionale bella da vedere, diverse dalle edizioni precedenti: solitamente votata al sacrificio e abituata a galleggiare grazie ad un campionario di astuzie tattiche, stavolta talentuosa in alcuni elementi e capace di sfidare alla pari e a viso aperto squadroni blasonati e tradizionalmente vincenti nel continente. Non a caso la seconda squadra nel torneo per punti segnati, dopo la Serbia. Difficile - e qui convengo con lo staff tecnico - cambiare pelle a giocatori abituati a spremere maggiori energie nella metà campo offensiva: la sconfitta nei quarti é figlia di questa coerenza tecnica, purtroppo abbiamo trovato chi ha fatto più canestro. Parlare di scarsa organizzazione difensiva é un esercizio stucchevole quanto inutile: Belinelli non è Llull e Bargnani non é Radulica, si possono avere concetti chiari ma poi la differenza la fanno corpo, gambe e volontà. Giocando i quattro moschettieri - escluso Cinciarini in staffetta con Hackett - più di trenta minuti a partita, difficile se non impossibile mantenere grande intensità per l'intero incontro su tutti i lati del campo. Ciò che non capisco, più di tutto, é l'insofferenza verso la critica. Tutti d'accordo che le chiacchiere da bar di memoria calcistica non dovrebbero fare irruzione nel mondo immacolato - davvero? -  della pallacanestro, ma non vedo perché un allenatore, anche di base e di settore giovanile, non possa esprimere un'opinione. Non si tratta di essere tutti commissari tecnici, é un fatto di pregnanza culturale partecipare alla discussione di ciò, che in realtà, é patrimonio di tutti e non solo degli addetti. Sarebbe come dire che non si possono discutere i parlamentari perché noi, comuni cittadini, non ne abbiamo né diritto né competenza. Nei compiti di un personaggio pubblico c'è anche quello di accettare che qualcuno possa essere in disaccordo sulle scelte fatte. Viviamo forse sotto una tirannia tecnica? Quando il contradditorio verrà a mancare sarà un giorno triste per la pallacanestro. Intanto ci prendiamo il brodino  preolimpico: forse non è quello che tutti sognavamo, ma come dice il capitano, é già un passo avanti. Senza dimenticare le parole di estrema ed efficace trasparenza con cui quella persona vera che risponde al nome di Danilo Gallinari si é congedata dal pubblico: " mi sono rotto le palle di perdere, gli europei non si giocano tutti gli anni e per tutti gli anni passano ". Hai ragione, noi ti vediamo ancora ragazzetto partire con la faccia d'angelo verso il grande sogno americano. Forse di tempo, per fare qualcosa di grande, non ne é rimasto poi così tanto. Di un italiano in finale, come premio di consolazione, non ce ne facciamo più niente: dalla prossima ne vogliamo 12!

mercoledì 26 agosto 2015

auf wiedersehen


I figli se ne vanno, come i nostri bisnonni. Altri moventi, ma i sorrisi e i pianti sono quelli, gli stessi. Se ne vanno in cerca di qualcosa, che qui non hanno, non trovano. Fanno quello che noi, con un misto di viltà e pigrizia, non abbiamo avuto il coraggio di fare. Con la presunzione di avere l'america in casa, ci siamo costruiti l'illusione di bastare a noi stessi. Siamo rimasti e vediamo loro partire. Siamo contenti perché li vediamo contenti, ma siamo trepidanti perché qualcosa ci verrà a mancare. Ci mancherà la lotta corpo a corpo quotidiana, la fatica del comprendersi, la voglia di perdonarsi dopo essersi feriti. Avranno forza e resistenza? C'è la tecnologia, ma non la percezione. Potremo parlare e vederci, forse più di quanto si faccia normalmente, ma non ci si potrà toccare, abbracciare, salutare come si deve. Qualcuno lo chiama destino: io, malato di incoerenza, ribelle di vocazione, con i capelli lunghi e incolti non vedevo l'ora di andarmene ed ora non vorrei che se ne andassero. Si è compiuto il mio destino? Ma è giusto ciò che è giusto: scegliere una strada, incamminarsi, togliere le pietre d'inciampo, insistere e sudare fino ad arrivare a destinazione. Forse è per questo che, inconsapevolmente, malgrado tutto, continuiamo a spingerli: perché la nostra meta ci sta un po' stretta o forse perché abbiamo sensazione che quella raggiunta non sia giusta. Come i nostri predecessori, avranno valigie, speranze, timori. Per quanto può contare la vicinanza,  seppur virtuale, nessuno potrà sostituirsi nell'agire e prendere decisioni. ' Ognuno è solo nel cuor della terra '. Ma il destino è altrove e al destino non si comanda. Il distacco é ciò che ci fa diventare adulti. Auf wiedersehen, meine tochter. Gute fahrt und viel glück. 

lunedì 24 agosto 2015

rosa azzurro

Non sono indiziato a tracciare bilanci, ma occupandomi di pallacanestro femminile é impossibile non segnalare un'estate ricca di soddisfazioni per le nazionali giovanili. In una fantomatica e virtuale classifica a punti - quinto posto under 20, quarto under 18 e bronzo under 16 - l'Italia si posiziona al terzo posto assoluto dietro solo a Spagna e Francia, vere dominatrici della pallacanestro rosa nel continente. É un risultato di grande portata, che premia il nobile lavoro nei club - svolto spesso in condizioni limite - , lo sforzo formativo dei Centri Tecnici Regionali e l'ottima rifinitura a cura di sapienti tecnici del Settore Squadre Nazionali. Sono abbastanza navigato da sapere che questo debba essere un punto di partenza e non di arrivo: non ci si può permettere di abbassare la guardia, tantomeno di accontentarsi. Abbiamo precedenti illustri in merito, basti pensare all'argento di Atene del 2004 della maschile dove alle celebrazioni e fasti iniziali fecero seguito anni di vacche magre e cocenti delusioni. Non va perso di vista l'obiettivo primario: formare giocatrici di alto livello in grado di giocare in campo internazionale. I titoli giovanili sono importanti, ma ancor di più creare le premesse per un indolore ricambio generazionale, tale da mantenere una certa costanza di rendimento con la nazionale A. Le nevralgie non vanno trascurate: reclutamento basso, numeri ridotti, competizioni poco probanti, moria di giocatrici e dispersione di allenatori. Non guardare in faccia la realtà porterebbe in dote conseguenze inevitabili: la consapevolezza che il corpo non sia guarito e che abbisogni di continue cure ed attenzioni é la premessa indispensabile per un futuro libero da brutte sorprese. Ciò nonostante, questa estate meravigliosa - non certo meteorologicamente - ci consegna due belle certezze: che la strada intrapresa, sebbene all'inizio, é forse quella giusta e che alle nostre ragazze non manca certo l'orgoglio di essere italiane. Mi sembra di averlo già detto: dove non c'è fisico e talento, saltano fuori altre virtù. Cose che stanno dentro. Cose che non si insegnano.

venerdì 14 agosto 2015

problemi di vista


Abbiamo bisogno di altri occhi per gustare fino in fondo la bellezza che ovunque ci circonda. I nostri sono stanchi ed assuefatti, troppo distratti, impiegati in faccende inutili se non dannose. Accompagnare diventa un esercizio catartico: ciò che da soli non riusciamo più a vedere riprende vita attraverso le espressioni e le emozioni di chi fa l'esperienza per la prima volta. Nel linguaggio fisico ci troviamo di fronte ad un riflesso: nel mondo reale a nuove e affascinanti riscoperte. Siamo troppo accecati dal risentimento - giustificato a volte, ben inteso - per apprezzare ciò che abbiamo attorno e che ci è stato consegnato - spesso colpevolmente immemori - a titolo gratuito. Forse che ci siamo meritati piazza dei Miracoli o la Basilica di San Marco? Il Ponte Vecchio o il Cupolone? Abbiamo un patrimonio infinito ma cerchiamo ricchezze altrove. Siamo troppo accecati da vitelli d'oro per cogliere il privilegio che ci è toccato in sorte. Siamo un popolo di lamentosi e insoddisfatti ( molte rivendicazioni, per carità, sono persino plausibili ) ma abbiamo un po'  perso l'equilibrio giudiziale e, in certi contesti, invertito la scala di valori. Arrabbiarsi fa male alla vista: rende miopi, nel senso che si perde di vista l'orizzonte; e pure presbiti, non mettendo a fuoco le cose che ci stanno attorno. Non saranno gli abitanti a salvare il paese: chi verrà con occhi nuovi, puliti, incantati, ci rimetterà in carreggiata. Forse.

sabato 8 agosto 2015

italianitá

Quando penso all'italianità nello sport non può non venirmi in mente El Alamein: non mi si fraintenda, non è mia intenzione né interesse inneggiare all'eroismo bellico, ma ciò che fecero gli italiani in quel frangente assomiglia molto a quello che devono fare le nostre squadre nazionali per meritare rispetto internazionale. Qualcuno disse coraggio contro acciaio: bottiglie incendiarie contro carrarmati di ultima generazione. Un'impresa disperata: infatti, morirono migliaia di compatrioti mentre i tedeschi, vista la malaparata, si dettero alla fuga. Gesta che strapparono addirittura l'ammissione di Churchill: " se gli italiani avessero avuto i nostri mezzi, avrebbero vinto ". Non sorprendano queste parole e immagini, richiamate da un pacifista e dilettante scribano: lo sport, come insegna l'antica Grecia, non è altro che la sublimazione della guerra. L'obiettivo, per quanto ci si sforzi ad alleggerire i termini, é più o meno lo stesso: prevalere sull'avversario e costringerlo alla resa. Con mezzi legali, naturalmente, ma senza risparmio di colpi. L'Italia sportiva é identica a quella in battaglia: mezzi leggeri e tanta arguzia che, nel tempo, si è trasformata, nel gergo agonistico, in bravura tattica. Nel confronto corpo a corpo non abbiamo scampo: a parte i paesi mediterranei come il nostro, gli altri ci sovrastano per altezza e massa. Ne sanno qualcosa i pallanotisti che, affrontata la Serbia nel suo terreno preferito, ossia i muscoli, sono usciti dalla vasca con le ossa rotte. Possiamo avere la meglio solo se manteniamo la nostra identità: scaltrezza, rapidità, generosità, compattezza, fantasia. Ogni volta che l'Italia ha vinto qualcosa di importante, dai mondiali di calcio agli europei di basket, lo ha fatto mettendo in mostra non tanto un gioco dominante - a parte la scherma dove siamo marziani - quanto particolare, dove imprevedibilità e organizzazione hanno messo alle corde solidità e potenza altrui. Il valore aggiunto sono i comandanti - ops - volevo dire gli allenatori, che tutti ci invidiano nel mondo. Costretti a fare nozze con i fichi secchi, cresciuti nei laboratori dove le alchimie sono d'obbligo per la sopravvivenza, sono i più bravi nel leggere le situazioni e a trovare in tempi rapidi rimedi miracolosi. Solo i supponenti non hanno coraggio di cambiare e l'italiano vero é tutto fuorché presuntuoso. Le parole di Tania Di Mario, che se ne intende di nazionale, sono le migliori che si possano dire in questi casi: " a volte non vincono i più forti, ma quelli che ci credono ". Proprio così: Italia, se vuoi vincere, non smettere di crederci.

venerdì 7 agosto 2015

centrifughe d'agosto


Presunzione o necessità? Ogni ora che passa mi allontano dal mondo e il mondo si allontana da me. Non é solo questione etica, di bene o di male, ma anche fisiologica, di allergia epidermica. Ci sono gesti, un tempo forse tollerabili, che superano la soglia di sopportazione: faccende di natura privata date in pasto al pubblico e altre di natura pubblica risolte comodamente in privato. É certamente presunzione: credere all'isolamento come forma di realizzazione é un imperdonabile atto di sfrontatezza. Ma è anche necessità: se non mettiamo freno all'invasione saremo condannati a quello che Pasolini definiva il male d'epoca, oggi ancora più attuale, ossia l'omologazione. Clausura e ascetismo sembravano scelte di comodo, comunque estreme e impraticabili. Estrarsi  dal mondo oggi diventa indispensabile: prendere le distanze e guardare da un punto più alto dove le persone e le situazioni appaiono, per assurdo, contestualmente più nitide. Un conto é vedere, un altro osservare. Vedere é un fatto biologico, osservare significa comprendere e, ad un livello più alto, compatire e, per chi ne è capace, perdonare. Non voglio entrare nella centrifuga: subirò gravi perdite, ma è un prezzo che sono disposto a pagare. Alla mia età posso permettermi di rallentare. Quando ero giovane, convinto dalla potenza del dio del fare, pensavo che il moto perpetuo fosse l'unica ragione di vita e che il cambiamento avvenisse grazie alla frenetica successione di azioni. Ora ho imparato anche a stare fermo: forse il mondo non cambierà comunque, ma io non sarò certamente peggiore di quanto sia già.  

domenica 2 agosto 2015

pala o piccone

Qualsiasi costruzione costa lacrime e sangue. Ad esempio, " la costruzione di un amore non ripaga del dolore, è come un'altare di sabbia in riva al mare ". Vale indistintamente per beni materiali e immateriali. Così è per un grattacielo o per un ponte, come per un progetto formativo o per la programmazione di un settore giovanile. Ci vuole tempo, pazienza, fiducia. Il tempo é un valore variabile, può essere più o meno lungo, ma la fretta in genere é nemica del consolidamento. Pazienza e fiducia, invece, sono elementi indispensabili: bisogna credere in ciò che si fa anche quando non si vede luce ed evitare accuratamente i dispensatori di morte, coloro che non fanno mai mancare scoraggiamento e incitamento alla rinuncia. Demolire, invece, costa molto meno. In termini di tempo, ma anche di investimento morale ed emotivo. Si sta presto ad abbattere, basta chiedere consiglio ai bambini che della distruzione ne fanno un gioco. I bambini li capisco, le emozioni fanno parte dell'immaginario creativo. Devo ancora capire invece, alla mia quasi veneranda età, per quale motivo gli adulti ricorrano spesso a questa sorta di sadismo autoflagellante. Necessità di affermazione? Volontà di distacco dalla storia? Così ci inventiamo nuovi termini o nuove mode, crogiolandoci nella pia illusione di possedere qualità generative: in realtà nulla si crea, siamo solo inconsapevoli ripetitori di chi ci ha preceduto. In nome della modernità, abbiamo fatto sparire oggetti dalle case, palestre o uffici pensando che questo ci avrebbe aperto a nuovi orizzonti: in verità, sento molta nostalgia per le panche e i quadri svedesi che oggi servirebbero come allora. Sull'altare di una falsa idea di progresso, abbiamo sacrificato  e buttato a mare una miniera di conoscenze, persone e cose che ci avrebbero aiutato ad orientarci meglio in questi tempi malati, dove fatichiamo a riconoscere il falso dal vero. Ecco perché non trovo nulla di divertente, anche a livello sportivo locale, quando si specula sul nulla che sta avanzando. Non c'è bisogno di profeti di sventura, semmai di qualcuno che, rimboccandosi le maniche, senza fretta e con fiducia, riprenda a costruire dove altri hanno già posato le pietre. Partendo dalle fondamenta, non dal tetto. Pala, non piccone. 

sabato 18 luglio 2015

allarme azzurro

Inevitabile riflessione sugli europei under 20. Se non altro per la vicinanza. Ha ragione Sacripanti a sentirsi soddisfatto della propria squadra: se non avessimo fatto un vero e proprio miracolo con i francesi, saremmo qui a discutere di una probabile retrocessione, cosa peraltro capitata a vittime illustri, vedi Russia Croazia, Grecia. Gli azzurri  non potevano onestamente dare di più: costretti a giocare sempre al limite, hanno pagato dazio quando le forze, soprattutto mentali, hanno lasciato il posto all'inevitabile crack nervoso. Un gruppo di qualità mediocre con alcune punte dimostratesi carenti in leadership: inoltre, sono davvero tantissimi anni che, a livello giovanile, non si riesce a produrre - senza offesa per gli attuali e volenterosi esponenti - un giocatore interno di valore internazionale del livello, che so, di Marconato o Chiacig, solo per citarne alcuni. Le prime quattro posizioni sono occupate, guarda caso, dalle nazionali con i centri di maggior interesse e prospettiva. Fatta l'analisi, serve una diagnosi. Non credo ci faccia bene continuare ad insabbiare la testa con discorsi puerili paragonabili ai vini d'annata: non ci sono anni buoni e meno buoni, é da un po'  di tempo che gli staff della nazionale, tra i migliori al mondo, sono costretti a fare nozze con i fichi secchi. La verità, come è già stata rivelata da più parti, é che il movimento cestistico nazionale non è più in grado di creare giocatori di alto livello. Qui capiamoci subito: non sono gli allenatori bravi a mancare, semmai programmazioni mirate alla costruzione di giocatori di qualità. Ad eccezione di alcune isole felici, si va perpetuando in Italia, con risultati a lungo termine deleteri, una pericolosa enfatizzazione del risultato di squadra a discapito, spesso e volentieri, della promozione e sviluppo dei singoli talenti. Esempio lampante: per vincere, soprattutto in età precoce, é quasi sempre sconveniente utilizzare i giocatori più alti, rei di non possedere doti di coordinazione e rapidità. A lungo andare, questa operazione, consapevole o meno, ritarda i tempi di maturazione con la possibilità concreta, purtroppo già verificatasi, che alcuni non giungano mai alla definitiva consacrazione agonistica. Il centro titolare di questa nazionale proviene dai college dove, guarda caso, si lavora in modo continuo e sistematico sul miglioramento tecnico e fisico del giocatore. Si fa presto a dire " bisogna farli giocare ": non c'è nessun allenatore così stupido al mondo che lasci in panchina chi merita di stare in campo. Purtroppo, molti dei nostri giovani più interessanti, quando arriva il momento, faticano a diventare adulti, non solo in chiave sportiva. La formazione tecnica non deve mai essere solo in funzione della competizione agonistica - concetto che può valere in prima squadra per intenderci -: semmai é la competizione agonistica che deve essere in funzione della crescita di ogni singolo giocatore. Ecco perché rimango dell'idea, sulla falsariga dei college, che sia necessario un campionato per l'età cosiddetta del passaggio, non di certo giovanile come l'under 20 dove in genere i talenti migliori non giocano per ovvi motivi, permettendo ai grandi club di iscrivere una seconda squadra nei campionati minori. É allarme rosso e chi vuol bene alla pallacanestro italiana deve smetterla di far finta di nulla. Una chiamata alle armi che non prevede disertori: giocatori come Gallinari e Bargnani in giro non se ne vedono, perciò o ci accontentiamo del risultato, speriamo positivo ai prossimi europei, coprendo le pagine ed i video di vanagloria oppure ci diamo da fare perché come dicono molti - e non è retorica - la nazionale é un bene di tutti.

mercoledì 15 luglio 2015

irrilevante ai fini del risultato

Quella di Berruto - spedire a casa i giocatori della nazionale rientrati oltre l'ora stabilita - è stata una mossa sconveniente e impopolare. Sconveniente perché in queste cose, visto il valore degli atleti e di questi tempi poi, quasi sempre é il correttore a rimetterci le penne. Inoltre, per chi prende le decisioni in alto, é più facile trovare un allenatore che quattro buoni giocatori. Impopolare, perché una bravata a Rio viene contemplata dai più come fatto logico e inevitabile: si può rimanere impassibili di fronte al fascino di una città così ricca di suadenti distrazioni? Invero, il coach della nazionale di pallavolo ha fatto quello che altri, nei secoli dei secoli, non hanno avuto il coraggio di fare. Tutti conosciamo svariati aneddoti su giocatori delle nostre nazionali, famosi e non, pizzicati in atteggiamenti non certo professionali: leggende più o meno metropolitane che hanno fatto il giro della penisola e che sono rimaste sepolte grazie anche all'omertà - forse espressione troppo forte? - diciamo all'opportunismo di non voler rinunciare ai pezzi più pregiati della scacchiera. In molti hanno fatto finta di non vedere stabilendo una conseguente scala di valori dove il risultato ha priorità assoluta su qualsiasi altro aspetto. La nazionale é solo la punta dell'iceberg - e quindi ad esposizione massima - di quello che sta diventando un malcostume diffuso: concedere deroghe e privilegi a giocatori ritenuti indispensabili per vincere. L'aspetto educativo ha lasciato il posto a quello prestazionale: le regole non valgono per tutti, o almeno valgono fino a quando é possibile evitare la sconfitta. Ecco perché sto con Berruto: perché abbiamo bisogno di gesti forti ed esemplari, perché guardando la nazionale - il livello agonistico e dimostrativo più alto - tutti possano riconoscere reciprocità, correttezza, onestá. Perché chi va in nazionale deve sapere che la prima forma di rispetto é dovuta alle decine di giocatori rimasti a casa che avrebbero fatto carte false per salire sul carro. Per una volta, il coach ha dato più importanza alle regole comuni, sbattendosene delle conseguenze sul campo. Perderà, oggi, probabilmente. Ma per me, almeno, ha già vinto, ancor prima di cominciare a giocare. Irrilevante ai fini del risultato.

giovedì 25 giugno 2015

dio dei canestri ascolta

Chiedo al dio dei canestri - come lo chiama Max Menetti - di rompere gli indugi e di schierarsi apertamente. Sappiamo che tutte le storie che hanno un buon finale devono passare per il ferro ed il fuoco della tribolazione, ma sarebbe alquanto difficile se non impossibile sopportare l'idea che si sia arrivati fin qui per vedere Cenerentola, dopo aver sofferto follemente, cadere sconsolata a terra ed il suo sogno andare in mille pezzi. Sono di parte, lo ammetto. Forse anche con un certo rigurgito patriottico, anche se non offensivo, anzi, verso le milizie straniere. Sassari é una città di sport e di sportivi, l'avamposto di un'isola bellissima che non può e non deve separarsi dal grande basket. Ma ho come l'impressione - certamente non suffragata da basi scientifiche - che per Reggio questa sia, se non l'unica, una delle poche occasioni - come già detto saggiamente dal suo capitano - per lasciare il segno nella storia della pallacanestro. Non si poteva immaginare conclusione migliore: sono sincero, quando ho visto Milano uscire pensavo ad una serie al ribasso - forse lo stesso pensiero ha colto di sorpresa la stessa squadra sarda - ora invece ritengo che questa sia la più bella finale da molti anni a questa parte, considerando il dominio incontrastato di Siena una delle pagine più noiose. Non capita tutti i giorni di vedere giocatori giovani, anche stranieri, di formazione italiana in campo battersi per un traguardo così importante: sembra di essere nostalgicamente tornati ai tempi del max due per squadra. Reggio non ha imposizioni, né quote da rispettare, ha messo in campo i ragazzi, li ha fatti giocare ed ora riceve il giusto compenso; forse questa é la strada, in tempi di ristrettezza, che anche altri dovrebbero intraprendere. Una bella iniezione per la nostra nazionale che ha bisogno di gente allenata alle battaglie vere, non di figuranti chiamati in causa nei momenti di calma piatta. Dio dei canestri, ascoltaci. Basta tabellate, supplementari al cardiopalmo, rimonte clamorose. Per una volta, decidi da che parte stare. E se proprio dovrà essere finale mozzafiato, nessuno meglio di te può sapere cosa fare.

mercoledì 24 giugno 2015

parole non fatti

Non ho mai smesso di credere nel potere performante della parola. Ecco perché sono spesso accusato di fare discorsi, a volte persino logorroici. Sembra strano per chi ha fatto del corpo e suoi derivati la ragione professionale oltre che di sopravvivenza. Eppure non c'è ripetizione asfissiante di un gesto che valga più di una parola giusta o sbagliata. C'è un linguaggio del corpo, indubbiamente, spesso molto indicativo e persuasivo più di qualsiasi frase detta: ma la parola resta insostituibile, compassionevole e lenitiva a volte, tagliente e punitiva in altre. " Ne uccide più la lingua che la spada " recita il Siracide. Quante stragi abbiamo commesso, spesso inconsapevolmente, con frasi inopportune e piene di rancore. Quanti miracoli, invece, quando abbiamo usato parole nei tempi e modi giusti. Proviamo a pensare: se tutto ciò non fosse vero, perché mai spendiamo un sacco di tempo, come allenatori ad esempio, negli spogliatoi, a chiamare time out o ad intercalare in ogni attimo di svolgimento della gara stessa. Come mai l'insegnamento, non solo scolastico, si basa ancora sulla parola, sebbene così tanto criticata e oggi supportata, ma mai sostituita, da altri mezzi, in genere audiovisivi. Come mai un genitore, se vuole riprendere o correggere, ricorre ancora alla sana sgridata. Anche i messaggi sui cellulari sono parole, anche ciò che viene scritto sui social. La parola pronunciata non virtualmente tra persone in carne ed ossa ha però un valore diverso: posso guardare gli occhi di chi parla e ascoltare il tono della voce. Capire se c'è frode o onestá. Leggere nell'animo di chi pronuncia se c'è volontà di costruzione o distruzione. Anacronisticamente, si usano a volte parole dure per amore ed altre leggere per odio. La parola non vale in sé, ma da dove nasce. "Lasciate che la voce nella vostra voce parli all'orecchio nel suo orecchio; poiché la sua anima custodirà la verità del vostro cuore " dice il Profeta Gibran. Parole, non fatti. Che possibilmente partano e arrivino al cuore. Che abbiano il potere di cambiarci e di cambiare.

martedì 16 giugno 2015

reggiano dop

Reggio Emilia é la favola che tutti vorremmo raccontare. E ascoltare. L'umile Cenerentola che batte tutte le rivali e riesce a sposare il principe. Non è un colpo di fortuna. Nemmeno un caso. É il frutto di un lavoro partito parecchi anni fa e che solo ora rimbalza agli onori della cronaca per una finale scudetto meritata ma, guarda caso, non cercata con insistenza ansiogena. Parliamoci chiaro: non è una piazza povera, come si potrebbe supporre, ma i soldi sono spesi con oculatezza e, soprattutto, investiti sui giovani. Dove sotto l'egregia maestria di Andrea Menozzi, responsabile tecnico, sono usciti fior di giocatori che ora popolano i campionati maggiori e minori. Continuo a pensare - e nessuno riuscirà a farmi cambiare idea - che la qualità di un vivaio non si misura dai titoli vinti ma dai giocatori sfornati: purtroppo, la storia insegna che non sempre questi due aspetti vanno a braccetto. L'ingordigia per il raggiungimento di risultati immediati, soprattutto in età precoce, diventa spesso il nodo corsoio per tanti atleti talentuosi che, invece di progredire nella formazione tecnica necessaria al salto di qualità, si fermano di fronte alla porta del successo. Reggio Emilia ha vinto poco a livello giovanile, pur reclutando giocatori da tutta Italia e, ultimamente, anche in Europa. Malgrado ciò, oggi ha quattro giocatori, prodotti del vivaio, presenti stabilmente in prima squadra, protagonisti non comparse di questa inedita ma affascinante avventura. Che dire, poi, di questo bizzarro mix perfettamente riuscito tra giocatori di inesperienza - soprattutto italiani - e stranieri, reduci di mille battaglie, ma ancora affamati di vittorie, capaci con il loro esempio di contagiare tutti verso un traguardo non impossibile. Reggio Emilia é l'esempio lampante di come programmazione a lungo termine, uomini giusti, bilanci ponderati possano riscuotere non solo simpatia, ma generare vero successo: qui non stiamo parlando di quote, parliamo di connazionali che stanno in campo e mettono fieno in cascina e che per una volta tanto non sventolano asciugamani. Merito di chi li ha scelti e preparati alla battaglia. Ecco perché, e non me ne vogliano i simpatici sardi - che con pieno merito hanno punito la supponenza milanese e addolorato il mio ormai sconsolato cuore - spero proprio che la favola abbia davvero il lieto fine che ci si aspetta.

domenica 14 giugno 2015

come bambini


Il brusco passaggio dalla fanciullezza all'adolescenza sarà uno degli argomenti più gettonati che vorrei affrontare faccia a faccia con il re dei re, ammesso che ci sia tempo e opportunità per farlo. Perché? Perché rinunciare ad occhi puliti e spalancati di curiosità? Perché appassire un fiore variopinto e gravido di essenze profumate? Perché passare da parole del tipo 'che bello' ad altre come 'che schifo' 'che noia' 'chissenefrega' solo per citare le più pulite. Credo fosse proprio il figlio dell'onnipotente a suggerire di ritornare come bambini. Che cos'è allora? Una prova? Una fregatura? Un assurdo e imprecisato invito a non evolversi? Ho un ricordo straordinario della mia infanzia: gioco, spensieratezza, sorriso. Problemi non mancavano, forse più grossi di quelli odierni, ma riecheggiavano lontani, come i temporali estivi notturni. La nostra corazza protettiva era fatta di sogni, colori, immaginazione. Se gli adulti di oggi sembrano diversi da quelli di ieri, i bambini restano gli stessi. É come se fosse un'età protetta, immune da contaminazione. Per questo sono sempre più convinto che saranno loro a salvarci, a ricordarci quali sono le vere cose che contano, a riportarci sulla retta via. Perché sono gli unici ad essere rimasti puri. É un po' di tempo che non frequento bambini: sarà per questo che sto peggiorando. Quando ero bambino, pensavo di imparare ma in realtà stavo insegnando. Ora che sono adulto, penso di insegnare ma in realtà dovrei imparare. Forse siamo fatti al contrario, come ci ricorda Fitzgerald nel curioso caso di Benjamin Button, che nacque vecchio e morì bambino. Troppe domande, per uno che ha girato la boa.

giovedì 28 maggio 2015

soccergate

Corruzione, scommesse clandestine, partite truccate, doping, violenza negli stadi. Ce n'è abbastanza perché il calcio chiuda baracca e burattini. Non siamo ingenui, non è l'unico ambiente sportivo contaminato, ma é certamente il più accreditato. E non siamo nemmeno sorpresi, visti i precedenti. A dirla tutta, chi come il sottoscritto vive di sport dovrebbe sentirsi particolarmente offeso e indignato: non mi aggrada per nulla mangiare nella stessa tavola a fianco di banditi avidi e senza scrupolo. Sport e politica, due mondi ontologicamente diversi e che dovrebbero tenersi scrupolosamente a distanza: ogni volta che si sono incontrati e stretti la mano sono emersi guai e scandali. La domanda è la seguente: davvero lo sport necessita di un governo? E se la risposta fosse affermativa, quali strumenti esistono per evitare il degrado morale e il tornaconto personale? A cambiarmi l'umore vengono in soccorso le immagini di tanti bambini/e che correndo dietro ad un pallone inseguono un grande sogno riempendo la vita di emozioni ed amicizie. Oppure di tanti allenatori - sconosciuti al grande pubblico - che non hanno ancora spento l'ideale di insegnare la tecnica del gioco perché è il vero valore in cui credere. L'unico argomento che spinge a non considerare l'idea drastica che si debba abolire il gioco del calcio sta proprio in questi prati di periferia di cui nessuno parla e dove non esiste altro interesse se non l'apprendimento. Se vogliamo salvare il calcio, e lo sport in generale, dobbiamo tornare alle origini: il superamento dei propri limiti attraverso l'esercizio e l'affinamento del gesto sul campo. Tutto ciò che è stato artificiosamente costruito sopra ha poco se non nulla a che vedere con ciò che costituisce l'essenza dello sport. Una certa enfatizzazione mediatica, é giusto dirlo, ha spostato l'attenzione da uno sport reale, quello che dovrebbero praticare tutti, ad uno virtuale, privilegio di una ristretta elite, generalmente poco esemplare verso le nuove generazioni. Con il risultato che molti ragazzi preferiscono assistere - e spesso scommettere con tragiche conseguenze - a questi spettacoli mondovisivi -  le nuove arene universali - piuttosto che mettersi in gioco e vivere lo sport come personale stile di vita. Non è un caso che il governo del calcio abbia fatto affari sporchi con le televisioni: dove c'è tanta trippa, tutti hanno un buon piatto. Attenzione: siamo sicuri che la riserva sia inesauribile?

venerdì 22 maggio 2015

lo sport é uno solo

Giustizia é stata fatta ma la questione resta aperta. Belloli, che ha commesso un fatto gravissimo non solo per le parole pronunciate ma per la posizione di rilievo occupata, non è purtroppo né il primo né l'ultimo ad avere pensieri distorti e discriminanti. Lo sport al femminile ha subito e continua a subire disparità evidenti di trattamento non solo economico, ma anche di visibilità mediatica e di attenzioni culturali e politiche. Per non parlare del pregiudizio, frutto di ignoranza  e spesso di morbosità maschile, che vuole le donne confinate nelle discipline che vietano il contatto fisico e che esaltano la grazia e l'eleganza nei movimenti: ad esempio, senza offesa, ginnastica ritmica, pallavolo, tennis. La demenzialitá ha toccato il punto più alto nell'assurda e falsa credenza che alcuni sport di squadra - vedi pallacanestro, calcio e da un po' di tempo rugby - siano colpevoli di sformare il corpo femminile e renderlo simile a quello maschile. La mia esperienza ondivaga come allenatore mi ha fatto sedere spesso su panchine di squadre femminili e posso affermare con una certa convinzione che le ragazze che giocano a pallacanestro scelgono di praticare questa disciplina perché diversa dalle altre. La stessa cosa credo che valga per il calcio, per gli sport di combattimento e per le specialità più faticose dell'atletica. Ho visto maschi terrorizzati all'idea di entrare in contatto con altri e femmine che non vedevano l'ora di mettere le mani addosso ad un'altra. Ho visto ragazze allenarsi con i maschi e resistere stoicamente a mille angherie perché amavano quello che stavano facendo. Non esistono sport maschili e sport femminili. Esiste lo sport, praticabile da questi e da quelle. Cosa significa - purtroppo intercettato spesso dalle mie orecchie - che il basket femminile non è basket? Rispetto a cosa? Rispetto a quello maschile? Certo, le ragazze non schiacciano, non tengono il pallone in mano, non volano dal tiro libero al ferro. É un dato di fatto incontrovertibile. Posso solo dire che quando ho insegnato a giocare ai maschi e alle femmine ho usato gli stessi esercizi e le stesse parole; lo stesso bastone e la stessa carota; ho avuto identici successi e bocconi amari. Per me la pallacanestro é una sola. Se poi guardiamo ai risultati sportivi, riferendoci al suolo patrio, non ci si sta molto a verificare che grazie allo sport femminile riusciamo spesso a salvare le spedizioni olimpiche ed internazionali. Momenti fuggevoli di gloria. Pochi ricordano che una medaglia al collo, soprattutto per una ragazza, significa anni di rinunce e sacrifici. In cambio forse una fotografia e una passerella sullo schermo. Poi, inesorabile, torna la quotidianità e il Belloli di turno a spezzarne i desideri.

giovedì 14 maggio 2015

togliere per aggiungere

Per fare un uomo o una donna, più che aggiungere, occorre togliere. L'immagine che per prima viene in mente é quella della potatura. Potare che é l'esatto opposto di tagliare. Tagliare implica la chiusura di una relazione, l'abbandono totale e affettivo dell'oggetto/soggetto. La potatura é un gesto in apparenza violento - visto che comunque genera sofferenza e separazione - ma che in realtà presuppone un atto d'amore. Si pota un ramo perché porti maggiore frutto. Qualunque educatore - che sia genitore, insegnante, allenatore - non può prescindere da questo principio: l'evoluzione umana, logicamente intesa in tutte le sue dimensioni, non risponde a criteri di linearità  ma necessita di fasi di rottura e di alternanza tra interruzione e ripresa. Pensare che si possa crescere senza l'intervento, a volte frustrante e doloroso, di una fonte adulta esterna, é davvero impensabile se non impossibile. Potare non significa danneggiare, semmai pulire o, meglio, purificare da atteggiamenti che non favoriscono lo sviluppo in senso pieno. Ho davanti gli occhi un'infinità di sguardi di adolescenti che non hanno fatto esperienza della cura degli adulti: rami freschi cresciuti a dismisura e fuori controllo al punto da diventare un grave pericolo per se stessi e per gli altri. La noncuranza educativa ha degli effetti devastanti sulla società e tutti quanti ne stiamo già pagando il conto. Anche il potatore vive il suo piccolo dramma: non è né comodo né conveniente occuparsi degli altri cercando di smussare comportamenti devianti o correggere condotte sbagliate. Entrare in conflitto é faticoso e doloroso e lascia comunque dei segni indelebili ad entrambe le parti in gioco. C'è una regola? L'amore, nel senso che qualunque gesto, parola o sguardo deve avere come fine il compimento del bene. Le persone che abbiamo davanti colgono a livello subliminale e di pelle se c'è un tentativo di manipolazione nei loro confronti o se l'intervento risulta pulito: nel primo caso avremo tagliato senza ritegno e senza possibilità di recupero, nel secondo avremo potato per dare maggiore slancio e vitalità. Togliere più che aggiungere. Anzi - e non è un gioco di parole - togliere per aggiungere.

giovedì 23 aprile 2015

talento o bravura?

É il termine di gran lunga più pronunciato, e ahimè abusato, in campo sportivo. Il talento, per i greci e gli ebrei, era una moneta. Nella famosa ed intrigante parabola evangelica si è trasformato in metafora. Il talento é un dono, in pratica una dote congenita e speciale, qualcosa che si possiede senza meriti né conquiste. C'è chi ne ha di più e chi di meno, in realtà impossibile esserne del tutto sprovvisti. Nello sport il vero talento é merce rara: sono pochi gli atleti che possono raggiungere livelli elevati senza ricorrere ad esercitazioni asfissianti e ripetitive. Molti giocatori di pallacanestro che frequentano i piani alti - quasi tutti direi - hanno costruito la carriera mattone dopo mattone levigando e pulendo i propri errori con lavoro massacrante e continuo. Lo stesso compianto Drazen Petrovic, forse il più forte giocatore europeo di tutti i tempi a pari merito con Sabonis, se avesse avuto talento non avrebbe chiesto le chiavi della palestra corrompendo il custode per esercitarsi all'alba di ogni santo giorno e migliorare così la propria tecnica di tiro. Maradona, invece, poteva permettersi di saltare gli allenamenti e di presentarsi in campo anche con qualche chilo di troppo ed essere comunque determinante. Perciò, soprattutto quando ci riferiamo ai giovani, dobbiamo pesare molto bene le parole: primo per evitare dannose e facili illusioni, secondo per non sminuire il lavoro prezioso che sta dietro alla costruzione lenta e faticosa di un giocatore. Essere capaci di fare determinate cose in campo non significa automaticamente essere giocatori di talento: più appropriato parlare di predisposizione al miglioramento, che é una dote importante ma trattasi di altro aspetto. Alberto Tomba aveva talento - oltre ad una grande dose di narcisismo -: nato in piena pianura padana, ha messo in fila tutti quanti, compresi quelli che già all'asilo si spostavano sugli sci. Ne avete visto un altro? Di questi ne nascono uno ogni secolo. Per fortuna, aggiungo, altrimenti che ci starebbero a fare gli allenatori? Purtroppo il talento in se non basta: quanti l'hanno preso e sono andati a sotterrarlo? Il talento va scoperto e fatto fruttare: non si può rifiutare un regalo. Non si può fare torto a se stessi e nemmeno agli altri: io ad esempio, comune mortale, se fossi stato Balotelli, di certo avrei cercato di non gettare alle ortiche quel dono. Ecco perché Oriali, come dice Ligabue, rappresenta il nostro vero eroe: perché è quello che ci assomiglia. Un bravo giocatore, con il talento della fatica: si può dire?

sabato 18 aprile 2015

puledri e purosangue

Mi hanno stuzzicato - come spesso accade - le parole di Don Padovese, ormai cittadino benemerito. " Lasciate liberi i cavalli ": come dire, largo ai giovani. L'idea è affascinante, spazio a uomini/donne e idee nuovi. Diamo un giro di aria fresca a questa società statica e ammuffita. In politica, sul lavoro, nello sport, c'è bisogno di una mano di vernice con colori forti e caldi. Se potessi abbandonare la mia trincea quotidiana e fare posto ad una giovane leva carica di entusiasmo e di buoni propositi, credetemi, lo farei molto volentieri. Poi - come spesso accade - mi prende un impeto di orgoglio senile che si rifiuta di accettare l'equazione giovane:nuovo=adulto:vecchio. Percorrendo a ritroso gli anni cosiddetti ruggenti scopro di essere stato, nel modo di concepire e vivere determinate scelte, più conservatore di quanto lo sia adesso. Cosa significa essere giovani? É un dato biologico, ossia una combinazione di ormoni? Una tappa dell'esistenza? Un modo riconoscibile di vivere? Ha ragione Michele Serra quando dice che é in corso una feroce battaglia tra generazioni per il controllo della società? Io credo, invece, che la trasformazione possa avvenire in modo graduale e pacifico. Ciò che è già stato non è da buttare e ciò che dovrà essere non é necessariamente frutto di totale innovazione. Tutti quanti abbiamo imparato da grandi maestri che ci hanno preceduto e abbiamo l'obbligo di tenere in vita l'eredità che abbiamo ricevuto. Nulla si perde, tutto si trasforma. Il passato non è nostalgia, ma cancellarlo significherebbe costruire sulla sabbia anziché sulla pietra. Lo dico con convinzione, e non me ne vergogno, non mi piacciono certi appelli un po' populistici sulla necessità di fare spazio, a tutti i costi, alle nuove generazioni. L'immagine dell'accompagnamento mi risulta più familiare e adatta: nessuno si costruisce da solo, c'è bisogno di una guida appassionata e attenta. La riconoscenza é forse il valore a cui dovremmo fare maggiore ricorso in questi tempi. Ciò che siamo, nel bene e nel male, lo dobbiamo a chi ci ha preceduto. Per tornare all'espressione iniziale, liberiamo i cavalli, ma i puledri hanno bisogno dei purosangue per correre. Alcuni dei miei maestri, purtroppo, non ci sono più. E mi mancano. Anche se, come mi ricordano spesso i miei figli, ormai sono vecchio. Cosa voglia dire, ancora non mi riesce di capire.

sabato 11 aprile 2015

non c'è verità

Si sprecano i luoghi comuni: tutti siamo responsabili, ognuno di noi poteva fare di più e via dicendo. Così laviamo i sensi di colpa e quietiamo l'anima. Oppure caccia al colpevole, ad una spiegazione, come se ci trovassimo di fronte ad un giallo dai contorni misteriosi. L'unica verità che conosco: un ragazzo, allo sbocciare della vita, non c'è più; i suoi familiari, i suoi amici, non si danno pace e non trovano risposte. Anch'io, da adulto, da insegnante, non mi do pace e non trovo risposte. Non voglio nemmeno cercarle. Troppo facile. La verità che stiamo cercando é quella che non esiste. Non sappiamo a quali meccanismi risponde la psiche umana e in che modo le emozioni possano impadronirsi della mente al punto da soggiogarla. Quello che so - ma non ha nessuna pretesa di indagine tantomeno di spiegazione - é che i ragazzi, malgrado la faccia dura le parole irripetibili e il fare spesso oltraggioso, nascondono una fragilità umana di dimensioni impressionanti. Più che aprire i computer o leggere i messaggini, forse dovremmo darci da fare su questo fronte. Cosa c'è dietro questa corazza protettiva, questa armatura spinosa inaccessibile? I ragazzi si difendono, ogni giorno ed ogni ora, da chi e da cosa? Poi, quando ne hanno la possibilità, attaccano, spesso in branco, e lasciano il segno, forse marchiando un'esistenza incolore e monotona. Spaccano, insultano, aggrediscono, si tolgono la vita: gesti estremi, forse estreme grida di allarme. C'è un vuoto da colmare, ma come? Le pacche sulle spalle sono state sostituite dai cuoricini virtuali e le parole di consolazione da messaggi incompleti e freddi: non c'è fisicità nei rapporti, non ci sono occhi che parlano né orecchie che guardano. Ciò che manca é la vicinanza: non solo parole, ma intese, abbracci, a volte, se ci vuole, anche scappellotti. Chi ha detto che i ragazzi non vanno corretti? Spesso sono proprio loro, con messaggi subliminali, ad implorarci di fermarli ed indicare la linea da non oltrepassare. É un duello faticoso, tra prendere e lasciare, fare e disfare, concedere e vietare. Noi adulti abbiamo tutti un compito ed una responsabilità: esserci quando serve. Concesso sbagliare, proibito abbandonare il campo. 

sabato 21 marzo 2015

privilegiato a chi?

Questa storiella - o favoletta che dir si voglia - che uomini e donne impegnati nel mondo dello sport abbiano, per natura e definizione, status di privilegiati rispetto ad altri lavoratori, ha da finire. In fretta e furia. Non si parla, in questo caso, di atleti, tecnici e preparatori di prima classe, che costituiscono una parte infinitesimale del tutto: non ho problemi ad ammettere che lo sport di alto livello abbia forse varcato, nella folle corsa ai rimborsi principeschi, la soglia di legittimità morale, ma allo stesso tempo non ho né potere né diritto di fare i conti in tasca alle aziende che hanno scelto gli atleti per veicolare i propri prodotti. Si parla, dunque, di quell'esercito numerosissimo di addetti, sconosciuti al grande pubblico, che si prodigano quotidianamente nelle palestre e nei campi di gioco e che hanno fatto dell'attività sportiva la ragion di vita e, per molti di loro, la principale se non unica fonte di reddito. Non si sa per quale contorto e recondito motivo - ma in seguito cercherò di spiegarlo se mi riesce - qualunque atleta, allenatore o altre figure operanti nello sport possano aspettare il rimborso dovuto, al contrario di altre categorie lavorative. Insomma, un ritardo nei pagamenti di tre quattro mesi é una cosa normale - si ricordi a proposito l'intervento di Petrucci lo scorso anno sul caso Montegranaro - per cui, poche storie, ci sono altri che versano in condizioni peggiori: della serie, c'è sempre un buon motivo per consolarsi. Questo aberrante concetto, tipicamente italico, é figlio della cultura e mentalitá di crociana memoria che, purtroppo, ad oggi ci portiamo ancora dietro e che non siamo più capaci, per comodità o interesse, a disfarcene. In soldoni, chi usa o si occupa del corpo, svolge un'attività secondaria rispetto a chi, nobilmente, si rivolge ad attività più qualificate per la mente, come la filosofia, la letteratura, l'arte e, modernamente parlando, l'economia. Scendendo ancora più sul piano pratico, chi fa sport si diletta in un'attività funzionale ad altre meno fugaci. Sarebbe interessante sapere quanta piacevolezza provano quei giocatori che devono star fuori mesi ed anni per infortunio, oppure quegli allenatori che vengono esonerati e posti in un cassetto, per non parlare della stragrande maggioranza dei preparatori che saltano da un posto all'altro per tirare fuori uno stipendio. Lavorare in palestra é bello: ditelo a quell' insegnante che si trova trenta piccoli uomini in preda ad una tempesta ormonale o a quell'allenatore che, pensando di correggere, si trova una fronda di adulti pronti a farlo a brandelli per aver toccato, metaforicamente parlando, i pargoli di nuova generazione. É vero, lo sport può essere una cosa bella, ma mai un gioco. Ci sono ore di studio, fatica, ripensamenti, sofferenze. Chi pensa che lo sport basti a se stesso, pensa male. Dare dignità é anche questo: mantenere l'impegno verso chi non ha mai fatto mancare l'impegno. Lo sport é anche lavoro.

sabato 14 marzo 2015

belli come noi

Dell'uomo dal simpatico baffo - diversamente dall'uomo con i baffi, decisamente minaccioso ed inquietante - ricordo soprattutto il grande fosforo e l'irridente sicurezza con cui si beveva, mentalmente, gli avversari. Da tifoso Olimpia - oggi un po' meno, sia per età che per contingenza - mi gloriavo nel vedere questo giocatore, fisicamente ininfluente, dominare il filo e il ritmo della partita a colpi di rubate, palleggi a slalom, passaggi, come si dice oggi, no look. Un genio del parquet, di quelli che ne nascono ogni mezzo secolo. Facile vincere così, vero Dan? Se poi vicino ci metti il pivot più forte d'Italia e altri pezzi da novanta, il piatto é servito. Quella fu davvero una squadra dove il peso specifico dell'intelligenza e della personalità superava di gran lunga il  talento diffuso nei singoli. Non per niente fu la più amata e ricordata negli anni. Vidi dal vero Mike D'Antoni la prima volta contro l'Hurlingham, a Trieste, nella stagione 1980/81. Palazzetto di Chiarbola gremito, già due ore prima della palla a due. In campo un giocatore: i raccattapalle locali che fanno a spinte per passargli la palla mentre si esibisce in un crescendo di tiri dalla distanza - la linea da 3 punti ancora non esisteva - mentre il pubblico non riesce a staccare gli occhi da quell' insolito evento pre partita. Nessun fischio, tantomeno insulti: tutti attratti magneticamente e verosimilmente spaventati da un giocatore speciale, io ventenne in adorazione nel contenere l'entusiasmo per evitare il peggio nella curva degli ultras. Per la cronaca Milano vinse a fatica, D'Antoni giocò malino - come succede spesso in questi casi - Trieste retrocedette quell'anno e l'Olimpia perse lo scudetto. Feci fatica, molti anni dopo, a considerarlo in panchina: lui era un mago in campo, un vero leader, uno che sapeva vincere e che odiava perdere. Le stagioni migliori come allenatore le ha vissute, guarda caso, con quella che può essere considerata la sua reincarnazione pura: Steve Nash, forse l'unico che poteva somigliargli, per tipologia e concetto di gioco. La verità é che in panchina non si è padroni come in campo. Ci hanno messo un po' di tempo ad appendere la maglia, forse troppo. Anche i bambini del minibasket sapevano che con il suo ritiro si sarebbe chiusa un'epoca. Come si dice a Milano, bej cume nunch la mama ne fa pù, s'é rott la machineta e ul papà al fa andá pu! Belli come noi la mamma non ne fa più. 

giovedì 12 marzo 2015

così non è

Pensavo che aiutare la nostra fragile gioventù a temprarsi ed irrobustirsi fosse una buona missione e un valido motivo per dare senso alla propria esistenza. Così non è. Pensavo che fare il proprio dovere fosse il modo migliore per contribuire, in piccolo, alla crescita della civiltà, a tal punto da non derubare ulteriormente uno stato già in ginocchio da sprechi e sperperi. Così non è. Pensavo che dare sfogo al corpo e al movimento fosse una cosa in sé divertente. Così non è. Pensavo che fare fatica, nel limite dell'accettabile, avesse ancora un diritto di cittadinanza. Così non è. Pensavo che giocare, nel senso di mettere due persone o due gruppi in competizione, fosse un'attività affascinante ed attraente. Così non è. Pensavo che la salute fosse ancora un valore con un alto indice di gradimento. Così non è. Pensavo che le discipline più sgradite - senza offesa - fossero italiano e storia. Così non è. Pensavo che un lavoratore che si guadagna la pagnotta sudando fosse meglio di uno sfaticato. Così non è. Pensavo che lasciare un segno nelle generazioni nascenti comportasse un briciolo inevitabile di sana frustrazione. Così non è. Pensavo che agli adulti interessassero giovani educati, forti e creativi. Così non è. Pensavo che ragazzi sani nella mente e nel corpo fossero un grande risparmio per le casse sociali. Così non è. Pensavo che lo sport e l'attività motoria fossero in cima ai pensieri dei nostri governanti. Così non è. Pensavo che le coppe e le medaglie vinte potessero convincere anche i più dubbiosi. Così non è. Pensavo che non vivessimo solo del gioco del calcio. Così non è. Pensavo che i ragazzi, l'ultima speranza rimasta, potessero ribellarsi a questo stato delle cose. Così non è. 
Nessuno mi tornerà indietro così tanti anni di illusione.

sabato 7 marzo 2015

ecco perché non credo alla fortuna

La fortuna nello sport non esiste. Esiste nel gratta e vinci, nella lotteria di capodanno, nella tombola di paese. La fortuna e, di conseguenza, il suo contrario, sono l'ennesimo pretesto per trovare una facile e, mi si lasci dire, banale spiegazione alle vittorie o sconfitte, a seconda di dove le si guardi. É bene dire che non è il caso - o il caos - a governare le sorti di un incontro: trovo più appropriato il termine imprevedibilità, che costituisce il fascino di qualsivoglia contesa agonistica. Possiamo preparare alla perfezione il piano partita e provarlo con ogni minuzia sul campo, ma la successione degli eventi sarà talmente sorprendente da rendere inevitabili adattamenti e manovre inusuali. L'imprevedibilità può essere allenata: ad esempio, variando continuamente situazioni di gioco o utilizzando trucchi strani come attaccare o difendere in vantaggio o svantaggio numerico. É chiaro che se la preparazione segue tracciati predefiniti e ripetuti alla noia, non ci si può lamentare di risultati impari alle attese. I giocatori in campo sono - o dovrebbero essere - anime pensanti, in grado di operare scelte per il bene della squadra: ogni decisione comporta delle conseguenze, perciò fare un passaggio in più o in meno determina la buona o cattiva riuscita di un'azione di gioco. Parlare di buona sorte significa mancare di rispetto a chi lavora quotidianamente per levigare le impurità e trasformare un insieme di giocatori in una squadra sinfonica. Lo stesso concetto vale per il buzzer beater, il cosiddetto tiro da lunga distanza. Chi é allenato per fare canestro da dieci centimetri, può fare canestro da venti metri. Ecco perché l'impresa di Antonia Peresson, nostra concittadina in USA, che ha fatto il giro della rete e dei social network in poco tempo, non è casuale e nemmeno frutto della fortuna: certamente é più facile sbagliare, ma sbaglio o si sbaglia anche da sotto canestro? Non sono stupito di quanto successo, più che altro preoccupato per quel povero maestro d'armi di vecchia scuola che le ha insegnato a tirare e al quale vogliono scippare i pochi meriti rimasti.
  

domenica 22 febbraio 2015

il nuovo mondo - 5

In volo verso casa. Emergenza finita in Georgia: la temperatura può risalire mentre le squadre locali di pallacanestro potranno riassaporare nuovamente la vittoria. Su sei milioni di abitanti non è stato difficile individuare in due maschi alfa - uno originario del nord, l'altro lombardo veneto - il virus che 
attanaglia da alcuni giorni la metropoli nel ghiaccio e nella disperazione. Viviamo una mescolanza di emozioni: felicità di restituire alla gente la serenità che si merita, tristezza nel lasciare posti e ricordi non facilmente dimenticabili. Il contatto con la NBA é stato francamente deludente: un carosello infinito di distrazioni dove il gioco vero lascia il posto alla ricerca ossessiva dello spettacolo. Toronto comunque é una squadra di livello, ben allenata e che merita la posizione che occupa: l'impressione é che agli Hawks interessasse poco sbattersi per mantenere l'imbattibilitá casalinga. Torno così con delle conferme: il basket dei college é mille volte più interessante e coinvolgente, se non altro per la ricerca premurosa dell'armonia nel gioco a scapito dell'individualità. Gli stessi giocatori di talento, se vogliono sfruttare appieno le qualità, devono attenersi scrupolosamente ai dettami dell'organizzazione tattica. Nulla é lasciato al caso e tutto viene studiato, prima a tavolino e poi sul campo: l'improvvisazione é utilizzata con cautela, per non inquinare l'ordine costituito. Alla veneranda età di cinquantatré anni suonati posso finalmente dire di aver toccato con mano e visto con i miei occhi, almeno per qualche istante, ciò che fino a ieri avevo solo immaginato e sognato. Agli allenatori di qui invidio soprattutto un aspetto, a parte l'immensa preparazione e il lauto stipendio: la disponibilitá del tempo. Nemmeno gli allenatori di serie A italiana possono avere a disposizione i giocatori per tutto il giorno e per tutti i giorni, lezioni a parte. Sessioni video, colloqui individuali e di gruppo, preparazione fisico atletica, allenamenti di squadra che durano tre ore. Una vera e propria full immersion dove i giocatori, oltre ad imparare a giocare, inevitabilmente si trasformano in un corpo unico al quale appartenervi con fierezza e abnegazione. É ora di svegliarsi, il sonno è finito. Ci aspettano palestre anguste e buie, tempi stretti, giocatori da motivare, palloni sgonfi e insufficienti, genitori deliranti. Ci aspetta il solito tram tram quotidiano: trasformare la zucca in carrozza. Ma noi siamo maghi, come Merlino siamo capaci di mettere tutto in una sola valigia: come quella che ho in mano, piena di souvenir da acquisto compulsivo, ma anche di bei momenti trascorsi tra veri amici con una passione in comune: la pallacanestro, lo sport più bello da Pordenone ad Atlanta.

venerdì 20 febbraio 2015

il nuovo mondo - 4

Ormai è ufficiale: dopo la terza sconfitta consecutiva qui a Tech non vedono l'ora che noi si faccia armi e bagagli per un rapido rientro in patria. Temperature polari e risultati negativi hanno persuaso anche il più cordiale e paziente tra gli staff americani a cercare nell'intrusione italica il vero flagello da combattere. Oggi si è giocato in rosa: un riconoscimento speciale per un'allenatrice mancata causa il brutto male e un monito per una prevenzione più attenta e puntuale. Tutte le squadre, a turno, indossano la pink divisa almeno due volte nel corso della stagione: a noi abituati a far durare pantaloncini e magliette per parecchio tempo, spesso double,  questo eccesso appare quasi come un insulto alla morigeratezza ma da queste parti cambiare look viene visto come cosa buona e giusta. Lo stesso merchandising ci guadagna: cosí ci adeguiamo volentieri, rubiamo qualche maglietta ricordo e scordiamo abbastanza in fretta le nostre povere origini. Siamo orgogliosi di avere una giocatrice italiana a ottomila chilometri di distanza da casa che si fa valere tra le giovani più promettenti al mondo: é difficile e curioso pensare che tutto sia nato nella vecchia palestra dove attualmente, ed ormai da un bel po' di anni, mi guadagno da vivere. Nel frattempo la personale lotta con il gelo assume contorni sempre più drammatici: lo stesso nativo canadese, malgrado fiera resistenza, ammette la verità delle circostanze. La nostra ammirevole guida con abnegazione trascorre la gran parte del tempo al volante sia per proteggerci dalle intemperie che per darci una visione d'insieme della metropoli georgiana. Domani tocca alla NBA: abbiamo trovato biglietti in cima alla montagna ma nessuno ci avrebbe fermato pur di vedere le due squadre più in forma del momento. C'è un problema: siamo ad Atlanta e abbiamo un compagno di merende nato a Toronto. Mi guarderò in giro e deciderò in fretta se dare retta al cuore o alla mente: il criterio è semplice, tiferò per chi mi garantirà maggiore protezione.  

mercoledì 18 febbraio 2015

il nuovo mondo - 3


Strade e pioggia ghiacciate. Per fortuna che siamo al sud. Scuole chiuse per maltempo: giriamo in incognito, non vorremmo rientrare tra le cause di un fenomeno avverso così insolito in Georgia. Il pensiero va alle spiagge e al sole della Florida, che abbiamo dolorosamente e precipitosamente abbandonati: passare in poche ore dai bermuda alla sciarpa comporta una certa dose di frustrazione e faticoso adattamento. Il mio compagno di stanza preferisce il freddo: non c'è da stupirsi, le sue origini sono canadesi e i zero gradi di Atlanta gli fanno il solletico. " Voglio vedere oggi se avete a cuore questa squadra ": così é iniziato l'allenamento pomeridiano, con il coach in mezzo al campo, la squadra stretta in cerchio, gli occhi catturati e le mosche che non volano. L'aria è pesante e la tensione si taglia a fette: del resto, dopo due sconfitte fotocopia in volata, non c'è molto da stare allegri. È in pericolo la qualificazione alla fase successiva: occorre vincere due su quattro, qui la matematica conta, non ci sono poesie da recitare. I maschi sparring partner si sbattono per difendere con le mani addosso spingendo a rimbalzo, le ragazze devono stare al gioco altrimenti le gradinate del palazzetto - decisamente pendenti e alte -  attendono inesorabili. Centocinquanta minuti di intensità fisica e mentale: non ci sono pause, non ci sono scuse, non ci sono facce, non ci sono risposte. Solo intervalli di tiro libero, tra i colpevoli dell'ultima sconfitta a Miami. Domani un brutto cliente, Notre Dame, una delle favorite per il titolo: un'impresa impossibile, se non altro l'occasione giusta per dare segnali di vita. Lo staff di Georgia Tech é super gentile e disponibile: chissà se, dopo l'ennesima sconfitta, manterrà lo stesso aplomb o se ci inviterà ad anticipare il rientro in patria, non dopo averci offerto, of course, il volo di ritorno.

domenica 15 febbraio 2015

il nuovo mondo - 2


In volo per seguire il team. Per la gente di qua uno scherzo. Per noi come andare a Palermo. Ma Miami é Miami perciò nessuno fiata. Da meno cinque a più ventitré, come scendere dal Monte Bianco a valle: questo é un altro buon motivo per lasciare, almeno per qualche ora, il campo base in Georgia. Ritmi pazzeschi, del resto il capo banda é uomo abituato a centellinare ogni secondo di vita: non gli si può dare torto, c'è sempre tempo per riposare. Qui tutto é esagerato: dai palazzetti alle strade, dalle pietanze alle auto, dalla ricerca sfrenata di immagine alla programmazione maniacale. L'america mostra i muscoli e noi possiamo solo contemplare e subire. Gli allenamenti decisamente più istruenti della partita. Qualche differenza? Otto canestri, a coppie per tirare i liberi. Soprattutto il rumore vocale: tutti urlano, dagli allenatori alle giocatrici. Ci sono persino gli sparring partner: cinque ragazzini buttati giù dal letto per correre, pressare tutto campo e saltare a rimbalzo. La ricompensa? Potersi allenare con la NCAA. Un allenatore apposito per spiegare gli schemi della squadra avversaria da riprodurre nella mini partitella. Mi sono chiesto: vuoi che un posto per me non esista?