"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

venerdì 29 luglio 2016

pezo el tacon del buso

Pezo el tacon del buso. Così dicevano le nonne venete. Così viene da dire dopo la decisione del CIO sugli atleti di casa Russia. In buona sostanza, una 'pilatata', un bel lavaggio di coscienza con tanto di trasmissione della patata bollente alle rispettive federazioni. Così, molti puliti restano fuori, molti sporchi stanno dentro. Perfino Yulia Stepanova, la spia pentita ed esiliata che ha rivelato il grande malaffare tra politica e sport del suo Paese, dovrà restare ai box in quanto atleta che ha scontato una squalifica per doping ( così impara a parlare e dire la verità, un bel regalo a Putin ). Tutti i riabilitati saranno puniti in nome del passato, il presente non conta nulla. L'atletica russa paga per intero le colpe di alcuni: Isinbayeva, ad esempio, non potrà difendere le due medaglie d'oro conquistate in due edizioni olimpiche. Un bel pasticcio insomma, che penalizza certamente anche Alex Schwazer, in attesa di conoscere il proprio destino ( se il criterio é escludere gli atleti già squalificati, le speranze sono ridotte al minimo ). Il presidente russo, malgrado faccia l'offeso - non parteciperà alla cerimonia di apertura - non può che essere soddisfatto della decisione presa: dal rischio di non avere alcun partecipante, alla possibilità di schierare una compagine, seppur dimezzata, comunque competitiva. Ancor più importante, riesce a contenere i danni d'immagine dopo un rapporto davvero impietoso ed inquietante sulle commistioni tra servizi segreti e atleti russi: un vero doping di stato che non ha nulla da invidiare al progenitore sovietico di vecchia data ( chi non ricorda le nuotatrici della Germania dell'est, mancavano solo i baffi ). A questa vicenda penosa, che mina alle radici il senso stesso di sport e che mette a dura prova chiunque lavori in questo settore, aggiungo solo due considerazioni: il sistema antidoping, così come é fatto ora, non funziona. Ci vuole un organismo indipendente con pieni poteri e che possa agire e decidere prescindendo dai governi statali e sportivi ( al momento attuale, totale utopia ). Secondo, ci vuole uno scatto di coscienza da parte degli stessi atleti: in fondo, nessuno può essere obbligato a fare ciò che non dovrebbe fare ( utopia anche questa? ). Una sconfitta pulita vale più di una vittoria sporca: che bella frase deamicisiana, purtroppo dobbiamo andare in guerra con bastoni e rastrelli.

domenica 24 luglio 2016

dolore a pezzi

Disumano sopravvivere ai propri figli. Non c'è dolore più straziante. Non c'è consolazione, se non l'attesa del ricongiungimento. Vite recise in piena fioritura. Perché? Nessuna risposta. Qualcuno, per farsi e fare coraggio, parla di disegno più grande, incomprensibile alla mente umana. Quale disegno? L'intitolazione di una via, una scuola, un'associazione, un torneo sportivo? Viviamo per realizzare i sogni che portiamo dentro, per completare l'opera, per lasciare un segno, seppur piccolo, nel breve viaggio sulla terra. Siamo tutti precari e a tempo determinato, ma nella debolezza umana vorremmo che la natura delle cose fosse rispettata e che i figli possano, un giorno, seppellire madri e padri. É il cerchio della vita: chi l'ha donata lascia il posto a chi l'ha presa in una sequenza logica infinita. Perfino la madre delle madri, ai piedi del calvario, rifiutò di capire: la ribellione era nel silenzio e nella dignità, nel vano tentativo di dare un senso a ciò che, umanamente, non ne aveva. " Non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio ". Siamo indifesi contro il cattivo destino, possiamo solo arrenderci e prendervi parte. Una cosa, forse, possiamo fare: anche se non può avere lo stesso valore e lo stesso peso, ognuno di noi può prendersi un pezzetto di dolore. Se viene diviso, non può essere tolto, ma almeno ridotto. Come se fossero figli di tutti. Se è vero che la nostra umanità é messa alla prova, è il momento di stringerci.

martedì 19 luglio 2016

questione di preposizioni

Sono debitore con i Papu perché, oltre a raccontare magistralmente e puntualmente la 'nostra' storia, stavolta si sono superati raccontando anche la 'mia'. Non sarei qui e ciò che sono se circa sessant'anni fa un milanese di belle speranze non avesse preso la sua valigia, l'ambizione e ciò che restava della sua famiglia e le avesse portate in un paese sconosciuto e prossimo ai confini orientali. Erano gli anni del boom economico, anche del baby boom, e la Zanussi faceva gola a tutti: non solo a chi era in cerca di un lavoro qualunque, ma anche a quelli che erano impazienti di dare sfogo alle proprie qualitá tecniche e applicative. Mio padre faceva parte di questa schiera, aveva fatto studi professionali e possedeva un certo talento per il disegno e la matematica: ricordo ancora le ripetizioni su limiti e derivate, tempo sprecato per un alunno che era sprovvisto sia di materia prima che di motivazioni. Posso tranquillamente affermare - senza motivo di imbarazzo - di essere un vero figlio della Zanussi: stabilità lavorativa e, di conseguenza, economica, hanno se non altro seminato qualche dubbio in una coppia che sembrava accontentarsi del figlio unico. Ecco il motivo per cui nacqui da genitori, per quei tempi, abbastanza anziani: nessuno però avrebbe potuto avvisarli in anticipo che avrei vestito i panni del ribelle e che, soprattutto, mi sarei orientato verso scelte in direzione ostinata e contraria. Furono due gli shock terribili che misero a dura prova sia l'equilibrio che il cuore della patria potestà: il primo, la pratica religiosa. Figlio di operai, mangiapreti fino al midollo, non poté sopportare la mia frequentazione parrocchiale e nelle associazioni. Il secondo, ancora più agghiacciante: quando gli dissi che avrei voluto fare l'Isef e il professore di ginnastica. Come? Hai fatto studi alti per non prenderti nemmeno una laurea? ( a quel tempo l'Isef era un corso post diploma triennale ). Aveva già perso un figlio nel ramo medico, gli sarebbe piaciuto averne almeno uno che seguisse le sue orme. Fu l'ultimo proiettile a cadere in terra, si rese conto, già pensionato, che la storia con la Zanussi sarebbe terminata quel giorno. Ma il destino, beffardo come sempre, ci ha fatto di nuovo incontrare. Chissà come mai mi trovo una cattedra in un istituto professionale e, guarda a caso, che porta il nome dell'artefice dell'esplosione non solo economica di questa città. C'è la sua scultura all'ingresso nel ricordare che solo attraverso la formazione ci può essere successo. Vedi, papà, alla fine tutto torna. Tu lavoravi 'alla' Zanussi, io 'allo' Zanussi. É solo questione di preposizioni.

sabato 2 luglio 2016

a prescindere

A prescindere, sono giornate storiche per la pallacanestro femminile italiana. Ci riempiamo spesso la testa di pensieri negativi e la bocca di frasi scorate ed ecco qui che le ragazze ci smentiscono, ci ricordano che esistono e che hanno cuore ed orgoglio smisurati. Questo eccezionale risultato - perché non è normale, per qualsiasi disciplina a qualunque età, stare in cima al mondo - non cancella le problematiche esistenti, ma regala alcune risposte. Nulla capita a caso: non é sufficiente sbrigare la pratica adducendo ad un'annata speciale ed irripetibile. Siamo di fronte ad un programmazione lungimirante condotta mirabilmente da staff tecnici, sia dei club che della nazionale, infaticabili e preparati. Ancora una volta lo sport al femminile regala soddisfazioni impensabili: facciamo un attimo due conti e ci accorgiamo che parlare di potenza rosa non é un modo gentile di dire ma una sacrosanta verità. Sarebbe interessante studiare e capire che cos'hanno di speciale le ragazze e donne italiane quando scendono in competizione e, soprattutto, quando indossano la maglia azzurra: forse la capacità di soffrire? É solo un'ipotesi, ma in genere chi soffre resiste, chi resiste vince. Le diciassettenni che in questi giorni abbiamo ammirato e tifato - insieme a molte altre - sono il futuro della pallacanestro italiana: questo capitale umano non va disperso e sprecato, semmai investito con scelte oculate che permettano di proseguire e ampliare la formazione tecnica-tattica. Sarebbe imperdonabile scambiare questo grande risultato per un traguardo: queste atlete hanno bisogno continuo di migliorare attraverso situazioni tecniche e agonistiche adatte al loro percorso di crescita. Giocare in A1, ad esempio, per molte di loro vorrebbe dire fare panchina e non apprendere; allo stesso tempo, fare esclusivamente campionati giovanili manterrebbe inalterato il potenziale. Occorre trovare una soluzione a metà, dove poter giocare da protagoniste in campionati, anche senior, performanti. In questo senso, il campionato di A2 può essere un buon trampolino di lancio: in sostanza, nessuno strappo nei tempi, ma nemmeno trascuratezza o abbandono. Una menzione speciale va spesa per Giovanni Lucchesi: da ottimo condottiero e motivatore, ha portato questo gruppo dove nessuno avrebbe pensato. Conoscendolo, cercherà di mantenere come sempre aplomb e profilo basso, ma tutti sappiamo che questa é un'impresa bella e buona e che non è una cosa normale giocarsi un titolo mondiale. Che sia primo o secondo posto. A prescindere.