"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 31 dicembre 2016

uomo nuovo



Vorrei poter dire che allo scoccare della mezzanotte, né un secondo prima né uno dopo, tutti i mali del mondo, quindi anche i nostri, cesseranno. Non ci saranno più guerre, pestilenze, carestie, terremoti, omicidi. Sappiamo tutti che non sarà così: non lo sapevano, o forse avevano bisogno di attenzione, i fanatici delle sette che l'ultimo giorno del millennio uscente fecero bagagli e salirono sulle vette più alte dei monti in attesa del diluvio universale. In realtà non cambierà niente perché, sempre in realtà, nulla può cambiare. Le armi, per quanto più sofisticate, rimarranno; la terra tremerà ancora, le malattie mieteranno vittime, le tragiche fatalità ci colpiranno. L'unica speranza davvero spendibile è che a cambiare sia l'umanità, ossia tutti noi, nessuno escluso. Per gli esseri umani esiste sempre una scelta, se imbracciare il fucile o metterlo a terra, se considerare l'altro come nemico o come fratello, se vivere ciò che succede con rassegnazione o come opportunità. Credere nell'uomo è diventato, di questi tempi, il più difficile e costoso atto di fede: più facile e comodo credere in Dio, e in nome di Dio compiere azioni criminali. Credere nell'uomo è un esercizio faticoso, comporta ascolto, pazienza, bontà d'animo, comprensione. Nulla cambierà di ciò che vediamo se nulla cambierà in ciò che non vediamo e che è dentro di noi. " Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo ". È questo, e niente più, ciò che aspetto da me stesso e dal domani.

venerdì 30 dicembre 2016

la pallacanestro che verrà

La pallacanestro che vorrei. È fine anno, tutti quanti abbiamo dei desideri. Tutti vorremmo che qualcosa cambiasse: innanzitutto, prima di ogni cosa, siamo noi che dobbiamo cambiare. Avere una marcia in più, diventare capaci di sorprendere e farsi sorprendere, non aver paura di mettersi in discussione anche quando le convinzioni sono solide. Mi piacerebbe che si giocasse per vincere e non per il risultato: non è un gioco di parole, sono due cose totalmente differenti. Chi gioca per il risultato è disposto a tutto e a passare sopra ogni cosa, chi gioca per vincere considera la sconfitta non come la fine del mondo, ma come una possibilità. Chi gioca per il risultato ha in testa solo il presente, chi gioca per vincere pensa anche al futuro. Mi piacerebbe che la federazione non nascondesse la polvere sotto il tappeto e avesse il coraggio di ammettere che non è oro tutto ciò che luccica: fare autocritica non guasta, anzi, solitamente diventa motivo di slancio per traguardi migliori. Dire che va tutto bene significa prendere in giro tutti quelli che si sbattono quotidianamente in mezzo a mille ostacoli e difficoltà. Mi piacerebbe che le società sportive avessero più coraggio, non si accontentassero di amministrare l'ordinario - che comunque è già un bel daffare - ma investissero su progetti di lungo corso. Mi piacerebbe che anche la mia città avesse una prima squadra di valore ma che, simultaneamente, non si ripetessero gli errori del passato dove l'ambizione bulimica ha prevalso sulla costruzione graduale e solida. Mi piacerebbe che gli allenatori fossero talmente appassionati da contagiare qualunque giocatore capiti a tiro. Prima ancora di insegnare, c'è bisogno di far innamorare. Mi piacerebbe che i giocatori fossero esigenti con se stessi e avessero la sfacciataggine di pretendere di essere allenati. Mi piacerebbe vedere le tribune piene, non di adulti boriosi e maleducati, ma di coetanei allegri e festanti. Mi piacerebbe che gli arbitri e gli ufficiali di campo non funzionassero a gettone e non si sentissero obbligati, ma che provassero il gusto di partecipare anche se la partita si svolge ai confini del mondo tra bambini che hanno appena iniziato. Mi piacerebbe vedere i genitori che non portano la borsa ai figli e che dispensano incoraggiamento e sostegno anche quando, inevitabilmente, qualcosa non funziona: sparlare dell'allenatore fra le mura domestiche equivale all'inizio della fine e alla fine dell'inizio. Questa è la pallacanestro che vorrei. Questa, spero, è la pallacanestro che verrà, parafrasando il compianto Lucio di Bologna che, guarda a caso, da vero tifoso la portava nel cuore.

sabato 24 dicembre 2016

amore invisibile

Può sembrare assurdo, pretenzioso, inconcepibile, ma quando un allenatore chiede ad un giocatore ( o un insegnante ad un alunno, o un genitore ad un figlio ) di essere migliore di quello che è, compie un vero e proprio atto d'amore. Sarebbe più facile e compiacente lasciar perdere, volare basso, fingere che tutto vada per il verso giusto. Ma non sarebbe un atto d'amore. Amare educando è spesso faticoso, comporta attenzioni che vanno oltre la formalità, capita di addentrarsi in sentieri impervi e, talvolta, pericolosi. Non esiste rispetto più grande di quello che pretende, non si accontenta, richiede il massimo. Credere nell'uomo significa desiderare che le persone portino a compimento ciò che è ancora abbozzato. L'indifferenza è la forma più subdola di maltrattamento: non c'è peggior atteggiamento formativo di quello, in nome della delicatezza e della discrezione, che sorvola sugli errori e spinge verso l'illusione di essere perfettamente in regola. Un insegnante che non interviene quando una classe è indisciplinata compie un gesto inqualificabile: chiunque può pensare che ciò che si sta facendo è corretto e quindi ripetibile, anche in circostanze diverse. Perciò, se i ragazzi sono maleducati, non è perché hanno dei geni marci, ma perché non sono stati bene-educati. Allo stesso tempo, un allenatore che lascia correre e non usa la voce per correggere è del tutto inutile alla causa: meglio dire una cosa sbagliata e farsi ascoltare che non dire nulla. Molti allenatori di un tempo non sapevano nemmeno cosa fosse la pallacanestro, ma si facevano rispettare, i ragazzi credevano a quelle parole e diventavano più bravi a prescindere. Ricordo, da adolescente, uno dei miei primi allenatori usava sempre la stessa frase mentre si tornava in panchina: 'Quanti falli hai fatto?' 'Nessuno' 'Male, vuol dire che non hai difeso'. Tecnicamente non è un messaggio che oggi definiremmo corretto. Ma aveva il suo valore e il significato arrivava dritto in testa. Sembra anacronistico, ma la più alta forma di attenzione che possono avere gli atleti è quella di essere ripresi: siamo onesti, che valore può avere un giocatore che non è mai oggetto di cure, anche se alcune obiettivamente ruvide e spiacevoli? È la stessa differenza che esiste tra stare in campo o in panchina: chiedete ad un qualsiasi ragazzo/a se preferisce giocare sentendo l'allenatore urlare oppure stare seduto tranquillo al riparo da sgrida e rimproveri. Attenzione alle false profezie: non sono i metodi gentili che rivelano amorevolezza. Amorevolezza è portare alla luce, a volte forzando, ciò che è ancora invisibile.

giovedì 22 dicembre 2016

guerrieri solitari




Lottiamo. Spesso inconsapevolmente, lottiamo. Tutti i giorni, tutto il giorno. Natale e Pasqua compresi. Senza sosta. A mani nude. Contro il male, inferto a noi e fatto agli altri. E, incomprensibilmente, contro il bene. Contro noi stessi, di cui dovremmo avere maggiore cura. Contro i pensieri cattivi, che ci conducono su vicoli ciechi. Lottiamo. Contro la malattia, dove spesso ne usciamo sconfitti. Contro il dolore, che ci attanaglia e ci rende fragili. Contro gli incubi, diurni e notturni, di cui siamo spettatori indifesi. Lottiamo. Senza armi e senza gradi. Contro il ricordo di chi ci manca e di cui non abbiamo ancora spiegazione. Contro le ombre del passato, gli errori fatti e ripetuti, le occasioni perse e lasciate, le cose fatte e abbandonate. Contro le incertezze del domani. Lottiamo. Con le mani sul volante. Con le dita sulla tastiera. Con le pentole sul fuoco. Dietro una cattedra. Con un fischietto in bocca. Nelle piazze. Nelle strade. Nelle case. Nelle aule. Nelle palestre. Per un parcheggio. Per un sorpasso. Per una parola. Per un gesto, uno sguardo. Lottiamo. Pur esausti, non ci fermiamo. Contro gli anni, che inesorabilmente passano e ci ricordano della materia di cui siamo fatti. Contro la solitudine, che talvolta, però, ci viene incontro amorevolmente. Contro il tempo, di cui siamo amministratori ma che ci sfugge in continuazione. Guerrieri. Solitari. Nè più né meno. Senza trincee da scavare, fucili da imbracciare, divise da sfoggiare. Un esercito sparpagliato e disarmato perennemente in guerra. Piccoli e sconosciuti eroi che non avranno medaglie al collo. Ecco quello che siamo. E forse un giorno, chissà, ce la faremo.

sabato 17 dicembre 2016

luce nel buio

Incredibile Italia. Nel paese dove la scuola invita a mollare lo sport per lo studio; dove ai bambini tutto è concesso fuorché sudare e sbucciarsi le ginocchia; dove le olimpiadi non si possono fare perché ci sono cose più importanti; dove l'attività fisica non è stile di vita, bensì un lusso; ebbene, in questo paese è nata una stella. Una luce nel buio, ma non è Gesù bambino. Sofia Goggia, questo è il suo nome: si dice sia la nuova Deborah Compagnoni, anche se l'allenatore si guarda bene da fare confronti. Non propriamente astro nascente - a 24 anni solitamente si è già al top - ma quattro interventi alle ginocchia in sei anni hanno rallentato la sua ascesa e allo stesso tempo fortificato la mente. Si presenta così: " mia madre voleva tenessi le treccine, ma io mi tagliavo i capelli per giocare a calcio con i maschi ". Ha sempre fatto di testa sua, pagandone le conseguenze: gli infortuni sono anche frutto di spavalderia, come recentemente ammesso. Ora si dice più matura e consapevole. Usa il termine centratura, che significa, in sportivese, aver trovato il giusto equilibrio. Morale della favola: dopo cinque gare, cinque podi e seconda assoluta nella classifica di coppa. Per come la vedo io, è come una rosa nel deserto, come l'erba che si fa largo nell'asfalto, come una scala reale in una qualunque mano a poker. La bella notizia è che il talento nasce dove e come vuole e che non c'è niente che lo possa fermare: ne sanno qualcosa gli austriaci, nati con gli sci ai piedi, che nulla potevano contro il bolognese Tomba, emerso dalle nebbie padane per dare lezione ai detentori della specialità. Per fortuna non tutto viene deciso in laboratorio o attraverso pratiche estenuanti, anche il caso vuole la sua parte. La brutta notizia è che i governanti dello sport hanno speculato per anni su questi campioni, prendendosi meriti che non ci sono e perpetuando strategie - strategie? - politiche quasi sempre opposte alla formazione di nuove generazioni di atleti. Del resto, finché nascono fenomeni come Sofia, non c'è da preoccuparsi: la nazione darà sempre buoni frutti, avrà le sue coppe e medaglie. Il futuro è roseo: per una stella che si spegne ( Tania Cagnotto ) ce n'è un'altra che si accende. Federica Pellegrini è ancora in tiro. I conti tornano, come sempre. Che bisogno c'è di agitarsi?

martedì 13 dicembre 2016

bassa quota

La trovata delle quote non convince per niente. Quote rosa, quote giovani, quote italiani, quote bebè. È un'esplicita ammissione di fallimento. Non mi risulta che i premier donna di Germania e Inghilterra si siano giovate di qualche legge speciale: l'incarico è meritato. Lo stesso vale per i vari Moretti, Flaccadori, Candi e compagnia: non scendono in campo per concessione, ma per dare un contributo fattivo ai propri colori. Non credo che i vari Pillastrini, Buscaglia e Boniciolli siano così pazzi da rischiare la pelle per far crescere un potenziale talento per la pallacanestro italiana: se questi ragazzotti giocano, significa che sono all'altezza del compito. Esiste indubbiamente una componente di rischio: i giovani non hanno esperienza, non hanno ancora imparato a dominare le emozioni, non hanno autorevolezza presso gli arbitri. È lampante che se si vuole ottenere risultati immediati è meglio affidarsi a mani navigate che la sanno lunga di battaglie vinte e, ahimè, inevitabilmente perse. Quindi le domande sono due: quali sono le società che hanno tempo, che sanno aspettare, che non si fanno prendere dalla frenesia di ottenere tutto e subito? E poi, ci sono ancora ragazzi/e che hanno fame, disposti a sacrificare l'epoca dei divertimenti per un sogno che non è detto si avveri? Il futuro della pallacanestro è appeso al filo di queste risposte: non ci potrà essere ricambio se non ci saranno club e allenatori che credono nella virtù della pazienza e se non ci saranno nuove leve che con la bava alla bocca e gli occhi feroci faranno buchi nel legno pur di guadagnarsi il posto. Ho visto tanti, troppi ragazzi in possesso di grandi qualità arrendersi alle prime difficoltà, arretrare di fronte al prezzo del biglietto. Certo, è possibile che la strada si sbarri, che il vicolo diventi improvvisamente cieco: perché non provare? Perché non accettare l'idea, sportivamente intesa, di una possibile sconfitta? Perdere ancor prima di giocare non fa parte ( o almeno non dovrebbe ) del patrimonio genetico umano. Di fronte a un fatto compiuto: così dovrebbero trovarsi gli allenatori e le società quando investono sui giovani. Non si gioca per compassione o per obbligo, si gioca perché diventa impossibile non giocare. Le quote meglio lasciarle alle scommesse, dove il rischio fa parte del gioco.

giovedì 8 dicembre 2016

degenere sportivo

Avviso ai lettori: non sempre si può essere buonisti. Domanda del giorno: che cosa ci fanno i genitori ad una partita di pallacanestro? (Pallavolo, rugby, calcio, pallamano, ecc....) Visto che in molti sono trasecolati dopo l'ennesimo atto di violenza nei confronti degli arbitri ( per giunta minori ) l'indignazione, per quanto comprensibile, non è più sufficiente. È necessario indagare nei profondi meccanismi che scatenano reazioni ingiustificabili e animalesche. Non possiamo cavarcela solo con la condanna o la ricerca di soluzioni drastiche: per agire, occorre innanzitutto capire. Primo: si deve velocemente uscire dal luogo comune che vuole lo sport come ambiente protetto, immune a qualsivoglia forma di inciviltà dominante. Lo sport fa parte della società e ne è contaminato alla stessa stregua di altri settori di convivenza. È pura follia immaginare che ci si possa scazzottare per un parcheggio e non per una partita di calcio: cambia la scena, ma gli attori sono gli stessi. Secondo ( e qui mi gioco la reputazione ) : i genitori, per quanto in apparenza possano sforzarsi a dare un'immagine diversa, non vanno a vedere la partita, o la squadra che gioca, ma come se la cava il proprio figlio/a nel contesto di un evento sportivo. Ci vogliono enorme forza morale e ingenti dosi di autocontrollo per rimanere emotivamente ai margini in situazioni dove i propri figli/e sono coinvolti, pubblicamente, nel produrre il meglio di sé. In verità, gli arbitri sono spesso la punta dell'iceberg e i capri espiatori di un disagio più ampio, faticosamente contenuto: stress personali associati a delusioni o alte aspettative rappresentano un cocktail esplosivo con effetti deflagranti. Alcuni, forse i più avveduti, risolvono il problema tirandosene fuori: come i miei, ora sottoterra, che non finirò mai di ringraziare per non aver conosciuto nemmeno quale sport praticassi: un giorno, compiutasi la nemesi in quanto nonni, se ne andarono nel momento in cui il nipote uscì dal campo pensando che non sarebbe più rientrato ( tarli calcistici ). Terzo: bisogna farsene una ragione, allenatori e genitori hanno inevitabilmente visioni diverse. I primi hanno in testa il bene della squadra, i secondi, innanzitutto, il bene dei propri figli. Non è detto che le due anime entrino necessariamente in conflitto, ma ci vuole equilibrio, controllo e una certa dose di fortuna. Ci sono magnifici dirigenti ex genitori che costituiscono la colonna portante delle singole società sportive, ma sono spesso mosche bianche che faticano ad imporsi. Si fa tanto vociare delle aggressioni che subiscono gli arbitri, ma bisognerebbe trattare anche delle pressioni a volte subdole che devono subire gli allenatori per far quadrare il cerchio. Mi fermo: dopo queste parole, forse ci sarà un nuovo bersaglio su cui scaricarsi. Tanto sono vecchio, ho le spalle larghe.

sabato 3 dicembre 2016

mutazione genetica?

Cari allenatori, quando vi sentite impotenti, incapaci di trasferire il vostro sapere tecnico in una gestualità palesemente adatta ed efficace, non abbiatene a male. Non è colpa vostra. O almeno, non tutta. La specie umana sta mutando, ma contrariamente alla teorie evoluzionistiche di Darwin, non del tutto in meglio. I ragazzi sono svegli, loquaci, conoscono a menadito la carta dei diritti - un po' meno quella dei doveri - ma sono semi analfabeti per quanto riguarda il linguaggio motorio. Intendo anche gli atleti, quelli che affollano le palestre, che hanno un vissuto corporeo povero tale e quale ai coetanei che non frequentano discipline sportive. Da dove vengono? Da ore passate sui divani, con alto dispendio di energie nervose e con utilizzo smodato delle dita a svantaggio di tutte le altre parti anatomiche. Ci si fa male, si suda, è pericoloso, è faticoso, non c'è tempo: queste sono le controindicazioni che suggeriscono di stare alla larga da prati, parchi, alberi, fossati, palizzate, muretti. Attrezzi di fortuna per generazioni pre tecnologiche e che costituivano l'abc delle abilità cinetiche: inserire su queste basi un terzo tempo, una schiacciata o una punizione diventava un vero e proprio gioco da ragazzi. Qui sta la vera differenza tra apprendimento e addestramento: nel primo caso, si tratta di affinare ciò che è già in essere; nel secondo, si utilizza una forzatura - come nel caso degli animali al circo - dove in un impianto inesistente si creano degli automatismi ripetibili. Nell'apprendimento, la fantasia e la singolarità la fanno da padrone; nell'addestramento vincono  serialità e meccanicità. Non ho raffinate teorie scientifiche che possano suffragare questa tesi, al momento mi accontento della trentennale osservazione sul campo: gli alunni di ieri ( la scuola raccoglie ragazzi cosiddetti sportivi e non ) non sono quelli di oggi - non mi interessa se più o meno bravi - , presentano segnali preoccupanti sul piano delle capacità coordinative e, in genere, una certa difficoltà ad eseguire movimenti non solo complessi. A che serve avere piedi esplosivi se non so come usarli? Oppure un corpo statuario che non riesce a produrre un gesto armonico? Può sembrare una semplificazione, ma questo è forse il motivo principale di un movimento, quello sportivo, che sta conoscendo una fase stagnante. Ci sono molti più allenatori e anche più preparati di un tempo, ma i risultati sembrano andare in senso opposto. Dobbiamo tornare alle origini, ricreare quegli spazi vitali dove è possibile arricchire il patrimonio motorio attraverso attività libere ed esplorative. Qualcuno potrebbe obiettare: chissenefrega dello sport! Già, forse siamo solo noi, inguaribili amanti, a soffrire di queste paturnie. Ma qui non c'è in gioco solo lo sport, ma anche la salute dell'umanità. 

venerdì 2 dicembre 2016

tempo favorevole

L'ennesimo esonero. Siamo in serie A, normale amministrazione. Se vinci, sei un genio e vai avanti. Se perdi, sei un brocco e te ne vai a casa. Le scusanti non servono: società assente, americani sbagliati, organico ridotto all'osso. Il risultato è l'unico e insindacabile arbitro. Kurtinaitis potrebbe essere il migliore allenatore del pianeta - e forse lo è, chi può dirlo? - ma i numeri gli danno torto. È spiacevole dirlo, ci si fa una certa abitudine: è sbagliato, perché si dovrebbe essere giudicati su ciò che si è, sulla dedizione che spesso non trova adeguata corrispondenza nei fatti. Questi criteri di valutazione non dovrebbero esistere quando in gioco c'è la formazione di giovani giocatori: i risultati sono fuorvianti e, in genere, poco indicativi della qualità del lavoro svolto in palestra. Esempio: se c'è un reclutamento dei migliori prospetti, è probabile che la voce vittorie sia di gran lunga superiore a quella sconfitte. Tuttavia, la vittoria in sé non dice molto sulla preparazione dei giocatori e sul grado di miglioramento dei singoli e del gruppo. Lo stesso concetto vale all'opposto per chi ha lo zero in classifica: non è detto che si lavori male, che non ci sia una ricerca faticosa ma tenace di alzare la qualità dei giocatori a disposizione. Qual'è l'obiettivo? Visto lo stato di salute della pallacanestro italiana, allenare per vincere il trofeo dei rioni sarebbe come accontentarsi di imparare la lezioncina a memoria: siamo chiamati a qualcosa di più grande, a regalare giocatori adulti e autonomi che abbiano la fame di mangiare le caviglie di quelli che, al momento attuale, occupano le posizioni in cima. I campionati sono funzionali ai giocatori e i giocatori non sono funzionali ai campionati: se per vincere c'è bisogno di stravolgere il percorso di crescita anche di un singolo atleta, la pallacanestro - ma vale per tutti gli sport - subirà un torto incolmabile. Usare un ragazzo/a in età precoce in situazioni a lui favorevoli e che recano enorme vantaggio alla squadra può risultare fatale in un secondo momento quando le abilità fin lì dominanti non saranno più sufficienti. Ecco perché a livello giovanile, diversamente dai senior, occorre avere tempo. Se nei grandi il tempo è tiranno, per i giovani il tempo è il vero e unico alleato. Tempo e risultato sono inversamente proporzionali: nella fretta è impossibile costruire. Mi verrebbe da dire, a costo di essere blasfemo: una vittoria in meno per un giocatore in più. Ahi, l'ho detta grossa.