"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 30 giugno 2016

orsi felici



Ho un brutto carattere. Così dice chi mi sta vicino. I lontani, oltre a starmi distante, non hanno il coraggio di dirlo. Mi è difficile immaginare la differenza tra ciò che rende una persona trattabile o meno; un indice ipotetico potrebbe essere la quantità di frequentazioni, beninteso non solo e non tanto virtuali. In questo, devo dire, sono notevolmente peggiorato negli anni: da una certa capacità di adattamento alla diversità del genere umano, attraverso la fase della disillusione, si è passati  inesorabilmente al distacco. Allo stesso tempo, e con identiche e motivate ragioni, anche gli altri imparano a prendere le distanze. I giovani hanno maggiore duttilità, sono freschi e curiosi, hanno ancora in dote il dono della perseveranza e della sopportazione. Anch'io, come Edoardo Bennato, - anche se per ragioni e proporzioni diverse - non potrò mai fare ad esempio il politico, che fa di mestiere la persuasione e il sorriso: essere piacenti non è per tutti. La mia incapacità a indossare maschere diverse ha vietato l'accesso alle stanze più importanti dei palazzi, ma era un rischio calcolato e prevedibile. Non riesco a bluffare di fronte ai miei figli, figurarsi davanti ad una platea di sconosciuti. Eppure, stare al mondo comporta anche l'abilità camaleontica di sapersi travestire a seconda delle circostanze. Oppure di saper fare buon viso a cattiva sorte, cosa che mi é sempre mal riuscita. Nascondere le emozioni risulta un ottimo antidoto contro la decifrazione della personalità: alcuni ci riescono brillantemente, riscuotendo consenso e attirando curiosità per un mistero non ancora svelato. Gli orsi fanno vita solitaria: il dato preoccupante é che sono felici. Non vorrei che prima o poi capitasse anche a me.

sabato 25 giugno 2016

bue o sovrano

Onestamente fatico a comprendere tutta questa acredine nei confronti della sovranità popolare. Soprattutto quando il popolo decide in maniera diversa dal nostro modo di intendere e volere. Se la gente la pensa come me, significa che é matura, colta, consapevole; se invece la pensa in altro modo, diventa gretta, corrotta, infantile. Accettare democraticamente il verdetto significa, prima di tutto, chiedersi se tutto quello che è stato detto e fatto per convincere ha prodotto l'effetto desiderato. Può piacere o meno che i cittadini della Gran Bretagna abbiano deciso di uscire dalla comunità europea; considerare stupida o inopportuna questa scelta non è altro che la conferma di una scuola di pensiero ideologizzata che non ammette diversità, dove la ragione sta sempre da una parte e il torto dall'altra, dove la presunzione di essere migliori comporta un netto distacco dal sentire comune. É come se - usando un parallelismo sportivo visto che siamo in un blog di genere - l'allenatore, dopo una sconfitta, trovasse alibi ovunque fuorché in se stesso. La colpa é dei giocatori che sono incapaci, oppure degli arbitri che non conoscono le regole. Non si domanda, ad esempio, se c'è qualcosa da cambiare, sia nei metodi di allenamento che nella gestione della gara. Ecco, la mia impressione è questa: si dà la colpa al popolo per non avere il coraggio di guardarsi dentro e di cambiare. Noi, tutti quanti, me compreso, siamo popolo: o forse c'è qualcuno che si distingue, che si trova ad un livello più alto, come nelle stratificazioni feudali di scolastica memoria. Suggerirei un certo esame di coscienza: probabilmente - evito un' analisi accurata dal mio livello di ignoranza - non tutto quello che é stato fatto o non fatto in Europa ha convinto pienamente i britannici e probabilmente non solo loro. Non esiste solo un'ideale di comunità europea - che tutti quanti credo siano disposti a sposare - esiste anche un agire che non mortifichi ma valorizzi le identità. Sembra un bisticcio di parole, ma è proprio chi sta con il popolo che oggi gli si volta contro. Dietro una scelta non c'è ignoranza, c'è sempre un messaggio chiaro, a volte un grido. Chi vuole ascoltare, lo faccia. Troppo facile e supponente parlare dall'alto di popolo bue.

domenica 19 giugno 2016

luci spente speranza accesa

Anche se già detto e ridetto, non ringrazieremo mai abbastanza chi ha organizzato le finali giovanili a Pordenone. Chi ci ha messo le testa ma, soprattutto, le braccia. Ore tolte al sonno per consentire a tutti - gratuitamente - di accedere allo spettacolo. Sentendo gli allenatori, ho colto riconoscenza e gradimento: una volta tanto la città ha dato buona immagine di se, significa che é possibile, che non tutto è da buttare. Per una settimana capitale della pallacanestro italiana: ci sarebbe piaciuto vedere in campo una squadra locale, quantomeno regionale, ma la speranza é l'ultima a morire, ci sarà tempo per tornare in auge. Intanto é buono e giusto accontentarsi della partita a cui abbiamo assistito per l'assegnazione dello scudetto: spalti gremiti, squadre ben allenate, giocatori interessanti, punteggi alti. Forse è troppo presto per cantare vittoria, ma dopo anni di gioco conservativo dove la posta in palio ha avuto ragione sulla stessa bellezza del gioco, c'é un tentativo visibile di riappropriazione della natura intrinseca alla pallacanestro: fare un punto in più degli avversari. Venezia e Bologna hanno dato vita ad una finale bellissima, dove il talento é prevalso sulla fisicità e la volontà di imporsi ha fatto leva sulla costruzione e la fiducia nei propri mezzi. Si è giocato a viso aperto, come dovrebbe essere in ogni incontro giovanile: questa era la partita più importante dell'anno, per alcuni forse della vita, eppure si è vista una giusta e non eccessiva dose di tattica, comunque non tale da snaturare le caratteristiche intrinseche ai giocatori e alle squadre. Complimenti a tutti quanti, e come mi è già capitato di dire, meriti a Venezia ma non demeriti a Bologna: penso di sapere cosa significhi accarezzare e non toccare, ma i ragazzi felsinei devono solo essere orgogliosi di quanto hanno fatto e un giorno, forse non troppo lontano, ne saranno consapevoli. Un'immagine mi resta impressa: il taglio della retina che i ragazzi di Venezia hanno concesso al loro allenatore. Un gesto insolito, ma carico di emozione e significato. Ci sono mille modi per esprimere gratitudine, ma questo é forse il più bello: colui che solitamente rimane in disparte, sale sulle spalle dei giocatori. Come dire, simbolicamente, tu ci hai portato fin qua, ora lascia che siamo noi a sollevarti in alto. Si spengono le luci, si torna alla normalità: se tutto quello che abbiamo vissuto non é frutto del caso - per forza deve essere così - la pallacanestro in città non può rimanere la stessa di prima. Se tutto ha un senso, é sufficiente che un solo bambino, oggi con gli occhi luccicanti di stupore, si innamori di questo meraviglioso sport e coltivi il sogno di diventare come uno dei protagonisti che hanno calcato, non solo, ma soprattutto il PalaCrisafulli. Caro Maurizio, spero ti sia divertito da lassù, questa era la pallacanestro che volevi: un punto in più.

mercoledì 15 giugno 2016

effetto sedativo

Ci risiamo. Il popolo dei calciofilismo a cottimo e a buon mercato è tornato alla ribalta. É bastata un' "eroica" vittoria con il Belgio per risvegliare l'orgoglio nazional popolare, "impresa" architettata a dovere prima che da Conte dai nostri organi di informazione che hanno fatto passare i nostri avversari per fenomeni e noi per studentelli al primo anno. Ci mancherebbe: con la linea Maginot e con il miglior guardiano della porta in circolazione siamo destinati a vincere l'europeo, se non altro ai rigori, specialità della casa. La nazionale mette d'accordo tutti: sindaci al ballottaggio, pro e contro rifugiati - spesso gli stessi profughi - , interisti e milanisti, sportivi e, soprattutto, non sportivi. Tutti amano la nazionale, basta che giochi con i piedi. Voglio vedere a luglio se ci saranno bandiere o tuffi in fontana per chi si gioca il preolimpico di basket o, addirittura ad agosto a Rio, per le medaglie del tiro a volo o della lotta greco romana. Siamo fatti così. Quelli che dicono agli studenti agonisti che se non studieranno come gli altri saranno bocciati sono gli stessi che si stracciano le vesti per il gol di Giaccherini ( a proposito, senza mancare di rispetto, ma é un attaccante, un centrocampista, uno e l'altro? ). Quelli che non sanno chi sia Tania Cagnotto o Vincenzo Nibali o Elisa Di Francisca sono gli stessi che suonano il clacson gridando ad alta voce il nome dei propri eroi con i finestrini aperti. Quelli che non sanno cosa sia un canestro da 3 punti, una stoccata, un coefficiente di difficoltà o un piattello sono gli stessi che parlano di fasce, difesa a tre o a quattro, di ripartenza o diagonale. Quelli che non farebbero un metro senza mezzi motorizzati sono gli stessi che di fronte ad una parata spettacolare sono capaci di saltare sopra un tavolo - e, magari, farlo a pezzi -. Quelli che pensano che per giocare a calcio si facciano sacrifici immensi e, invece, non siano necessari per vincere una medaglia nel judo o nella ritmica: gente che si allena otto dieci ore al giorno e che sono obbligati ad arruolarsi in un corpo militare per fare "professionismo" sportivo. Con il plagio ordito dall'informazione truccata, la sfida impossibile ha radunato quasi venti milioni di italiani davanti ai teleschermi: tutti, o quasi tutti, hanno dimenticato i vari tormenti che li assillano. Bene così: il calcio ( non l'elemento chimico ) ha davvero un effetto sedativo.

domenica 12 giugno 2016

cattiva scuola

Andiamo bene. Stavolta a salire in cattedra sono gli studenti e a tener banco sono le pagelle degli insegnanti. Per chissà quale copernicana invenzione, é stato invertito l'ordine dei fattori con risultati catastrofici. Finalmente chi ha vissuto di stenti, ingiustizie e persecuzioni può prendersi la rivincita. É la prima crepa sul sistema voluto dalla tanto decantata buona scuola: guerra ad oltranza, tutti contro tutti, con ingenti dosi di veleno iniettate intenzionalmente in un clima già sufficientemente inquinato. Chi avrà ricevuto buoni voti potrà godersi il meritato premio - in pratica un bonus in denaro al momento non quantificabile - che certo non avrà lo scopo di elevare il tenore di vita della categoria, che aspetta da anni il rinnovo del contratto di lavoro (altro che bonus!). Il problema, a dirla tutta, non é la valutazione da parte dei ragazzi: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, l'insegnante viene quotato tra domande, richieste, risposte non sempre educate, reazioni scomposte e quant'altro. Il fatto grave é che si usino gli allievi per esercitare un compito che dovrebbe essere affidato a personale competente e, soprattutto, esterno alla scuola e, di conseguenza, in grado di dare un giudizio il più obiettivo possibile. Non è difficile direzionare il giudizio degli alunni: basta cavalcare ignobilmente l'insofferenza e il cattivo gradimento, soprattutto nei confronti di chi utilizza una didattica esigente e poco incline all'assolvimento. In forma pilatesca, i colleghi preposti e i dirigenti dello stesso istituto si lavano le mani affidando irresponsabilmente agli studenti il giudizio di condanna o liberazione per ciascun insegnante. Si parla a lettere cubitali di comunità educante, di luogo privilegiato di relazioni significative e poi cosa si fa? Ci si azzuffa uno con l'altro rendendo irrespirabile l'ambiente e per un tozzo di pane: questo non é merito, signori, questo é il lancio delle monetine da parte del sovrano prodigo in occasione della nascita del primogenito. È questa la scuola che vogliamo? Tutti buoni e tutti promossi, così saremo più ricchi e con meno avvocati nei paraggi? Tutti indaffarati ad inventarci progetti - per lo più inutili - per accaparrarci consensi? Sapete che vi dico? Non me ne frega niente del bonus. E del giudizio degli alunni. Ho da rispondere solo alla mia coscienza, che mi indirizza verso una scuola che non deve abbandonare il suo compito principale, che è quello educativo. Sinceramente mi interessa poco se uno studente non impara, mi interessa che domani possa essere una bella persona. E se rispondendo alla mia coscienza avrò tutti voti negativi, pazienza: avrò le tasche più vuote, ma procederò a testa alta.

giovedì 9 giugno 2016

seme e zizzania

Giusto nove anni fa ci fu la prima finale nazionale a Pordenone: under 19 per la precisione e il Sistema Basket, annate 88-89, non ci arrivò per un soffio. Sbatté in ultimo contro Monza allenata da quel Vertemati che proprio l'anno successivo prenderà il posto di Corbani alla guida della Benetton Treviso, vera dominatrice a livello giovanile in quel periodo in coabitazione con Montepaschi Siena. Si dovrà aspettare il 2010 per vedere una formazione pordenonese approdare alle agognate finals con il gruppo 91-92 a Bologna, che oltre ad essere la dotta, é anche la capitale del basket. Non sono proprio così distanti, a quanto pare, i tempi in cui le squadre locali si facevano rispettare e stimare in tutta Italia. Oggi impossibile, ma domani chissà: i libri di storia insegnano che per raggiungere livelli di eccellenza c'è bisogno di unire le forze, la dispersione conduce a soddisfazioni limitate nel tempo e nello spazio. Eppure, non solo a mio modesto parere, non esistendo più poteri forti e grandi investimenti come in passato nel giovanile, questo sarebbe il momento favorevole per provare a riempire gli spazi vuoti. Mai come oggi sono saltati i parametri, all'orizzonte non si vedono club e squadre schiacciasassi: sarebbe sufficiente una buona programmazione, dirigenti di senno, allenatori preparati ma soprattutto appassionati ed un'identità forte, il cosiddetto e tanto vituperato  - chissà perché - senso di appartenenza. Guardando dal finestrino - con tutte le comodità annesse - scorgo una lodevole lotta per la sopravvivenza da parte delle società ma mi sfugge la volontà di perseguire obiettivi comuni affinché la città e il suo territorio possano tornare a frequentare i quartieri alti della pallacanestro giovanile. Vincere il campionato provinciale facendolo passare per impresa storica non rende giustizia alla grande tradizione che ci rappresenta: società gloriose e giocatori/trici epici/che sono proprio lì ad indicarci la strada e a dirci che i grandi obiettivi sono possibili. Trovare rifugio nel proprio nido non ci permette di prendere il volo: occorre coraggio e intraprendenza, rifuggendo da alibi preconfezionati come quello dei soldi che non ci sono o dei ragazzi che non hanno più voglia di fare fatica. Se sono emerse le sinergie per organizzare questa bellissima kermesse, forse la più attraente tra tutte, non vedo perché non si possano utilizzare queste risorse umane e materiali per rilanciare un grande progetto per i giovani. Vorrei tranquillizzare i colleghi: non sono in cerca di occupazione. Come si dice in questi casi, ho già dato. Avanti un altro, senza paura. Critiche e sospetti da mettere in conto. Perché siamo una terra adatta per la semina, ma anche per la zizzania.

domenica 5 giugno 2016

bambino spiumato

Ero un bambino spiumato quando mi alzavo di notte. La mia curiosità non era per quei due muscolati che se ne davano di santa ragione, ma per mio fratello, ormai in fase ribello-adolescenziale, corrotto dalle idee rivoluzionarie in arrivo, che rompeva il silenzio notturno con urla e gesti scomposti. Potevo capire un certo trasporto verso i contemporanei Giggi Riva e Bonimba Boninsegna, eroi della finale in Messico dove sbatterono contro la selecao probabilmente più forte di sempre. Per quelli avrei dato tutta la mia voce. In questo preciso caso, preferivo accodarmi al parere tradizionale e rassicurante di mio padre che giudicava il pugile che aveva cambiato nome e religione come uno sbruffone meritevole di condanna. Così, quando cadde per terra, spontaneamente esultai guadagnandomi vagonate di insulti fraterni, al punto di dover abbandonare la postazione al più presto per evitare guai peggiori. Ero un bambino spiumato che pendeva dalle labbra dello status quo paterno, non potevo capire che quello non era solo un pugile, ma un idolo, un simbolo, un modello. Come non erano solo velocisti Tommie Smith e John Carlos che alle olimpiadi alzarono il pugno al cielo. In quel momento, la vittoria rappresentava l'unico modo per urlare i propri diritti al mondo. Confesso: da uomo di sport, non mi è mai piaciuto il pugilato, nemmeno in età avanzata. Lo considero brutale e dannoso. Ho un concetto dell'attività fisica condizionato da deformazione professionale: lo sport deve portare benessere, anche se, ad onor del vero, nessuna disciplina, nemmeno il ping pong, é immune da rischi. Gli ultimi trent'anni di Mohammed Alì sono lì a dirci proprio questo: i suoi movimenti rallentati, il suo sguardo nel vuoto, raccontano la storia di chi, più che darne, ne ha prese tante. L'uomo che ha fatto del suo corpo, dei suoi pugni e delle sue parole un manifesto politico lanciato contro i benpensanti dell'epoca lascia il posto ad un altro inerme e indifeso, incapace oramai di nuocere a chicchessia. In questi giorni in cui é giusto ricordare un atleta e un uomo straordinari, non si può far finta di niente e tapparci gli occhi di fronte a tanta sofferenza e dolore: chi sta seduto e paga il biglietto, non può pretendere che tutto questo faccia parte dello spettacolo. Al termine della sua gloriosa carriera, avrei voluto sentire Alì parlare di pace e farsi ambasciatore nel pianeta di valori e diritti, cosa che non ha potuto fare, se non in piccola parte e suo malgrado. Gli hanno fatto accendere il braciere ad Atlanta, ma avrei preferito sentirlo parlare. Gli hanno chiesto: ti manca la boxe? Risposta: sono io che manco alla boxe. Verissimo: ma soprattutto sei mancato a tutti noi.