"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

martedì 23 ottobre 2018

liberi di farsi del male

Cambio idea spesso e non me ne vergogno. Alcuni anni fa, fanaticamente accecato, sarei saltato addosso a chiunque si fosse permesso di mettere in discussione la bontà e necessità delle ore di educazione fisica. Ora, dopo innumerevoli battaglie sul campo - quasi tutte perse - sono dell’idea che la ginnastica debba diventare, almeno alle superiori, una materia facoltativa, come la religione. Cercherò di spiegarmi meglio - prima di subire un linciaggio mediatico francamente immeritato - facendo leva sul pensiero libero che, ahimè, si spera sia ancora in vigore in un paese civile...civile? È statisticamente risaputo che almeno il 20% degli studenti adolescenti tende a saltare le lezioni adducendo innumerevoli scuse, tra le più improbabili la dimenticanza dell’equipaggiamento per frequentare le lezioni pratiche in palestra. È un ritornello a dir poco fastidioso ed umiliante, come se un cuoco si sentisse continuamente dire dallo stesso imprecisato cliente che non ha appetito. In verità, questi ragazzi non hanno intenzione di faticare e sudare e, incredibilmente, persino il gioco sportivo viene visto come poco attraente rispetto ad altre attività ( smartphone, cuffie, briscola ecc...). Tra le altre cose, esiste un problema serio di sorveglianza, nel senso che chi non pratica deve comunque rimanere nei paraggi e spesso si diletta nell’attività più divertente tra tutte, il sabotaggio della lezione, tra schiamazzi e risate sperticate che inevitabilmente finiscono per ridurre ulteriormente le già scarse capacità attentive dei frequentanti. Spesso si arriva al paradosso che chi si cambia e si comporta come un normale studente venga visto come un asino da chi si sottrae alle fatiche d’Ercole per darsi a passatempi più gratificanti. Ci sono i voti, le insufficienze, l’unica arma convenzionale a disposizione dei docenti: posso garantire che nemmeno la strada punitiva e sanzionatoria riesce a dare risultati soddisfacenti, se non in rarissimi casi. Alcuni di questi amano collezionare note e brutti voti, quasi siano trofei di guerra da esibire ai coetanei. Le famiglie spesso non sono al corrente o, peggio ancora, si disinteressano totalmente dell’andamento scolastico dei figli, salvo ricomparire quando i tabelloni esposti segnalano inequivocabilmente una irrimediabile bocciatura. Perciò, dopo anni di magre riflessioni e di capocciate sul muro, ho maturato la convinzione che chi non ha voglia di fare fatica debba essere messo nelle condizioni di farlo. Smessi i panni di Savonarola, sono sempre più convinto che ognuno debba decidere liberamente in materia di salute e benessere. Almeno per i maggiorenni, un esercito destinato a salire viste le difficoltà occupazionali e la necessità impellente di trovare un ‘parcheggio’ ( anche se continuo a non capire cosa ci facciano dei diciottenni in seconda superiore ). Chi sono io per obbligare chi non ha voglia? E, soprattutto, quando qualcuno avrà messo la fatidica crocetta sulla volontà di partecipare, quantomeno dovrà rispettare il patto stipulato. E chi non avrà firmato potrà liberamente fare ciò che vuole senza essere sorvegliato e senza disturbare chi vuole impegnarsi. Capisco i costi sociali e tutte quelle belle cose sul carico nei confronti della collettività. Ma non posso convincere chi vuole farsi del male a fare il contrario. Forse mettendolo di fronte ad una scelta, potrà, almeno per un attimo, fermarsi a pensare. E scegliere e pensare, oggigiorno, sono già atti di rivoluzionaria civiltà.

giovedì 5 luglio 2018

Gallo nel Sacc(hetti)

Meo Sacchetti mi è piaciuto fin dall'inizio. Qualcuno lo ha considerato un ripiego, altri una scelta inevitabile. Fatto sta che il meno aziendalista e il più naïf fra gli allenatori italiani ha dimostrato ampiamente di essere l'uomo giusto nel posto giusto al momento giusto. Diciamoci la verità: per quanto l'azzurro sia un colore molto attraente, nessuno fra i coach più titolati avrebbe accettato la patata bollente di guidare un drappello di bravi ma inesperti ragazzi, privo per regole assurde e dispotiche dei big impegnati all'estero o oltre oceano. Meo ha accettato di getto, senza pensarci troppo, come il suo gioco fatto di poco controllo e di responsabilità affidata ai giocatori. Il perfetto erede del compianto professore Dido Guerrieri, che ho avuto l'onore e la fortuna di affiancare in una breve comparsa in città dopo il malore che lo tolse al grande basket. Dido era un genio, quasi sempre mal compreso: amava i giocatori duttili e una pallacanestro semplice - non banale - e sbilanciata offensivamente. La sua Torino non vinceva gli scudetti ma riempiva il palazzo e si faceva amare. L'impronta indelebile del professore stampata in Meo la si può notare nel lancio dei giovani: come Dido fece esordire in serie A il giovane Carlo della Valle - padre di Amedeo - affidandogli responsabilità inconsuete, così Sacchetti ha mandato in campo un diciassettenne - Pace Mannion - in una importante partita di qualificazione ai mondiali concedendogli minuti e fiducia. Chi l'avrebbe fatto tra gli illustri allenatori di cui, giustamente, l'Italia va fiera? Tutti quanti sbigottiti perché gli azzurri hanno perso le ultime due gare e messo in discussione la qualificazione ai mondiali, pochi però si sono spellati le mani quando, contro ogni pronostico, un manipolo di ragazzi abituati a ruoli da comprimari hanno messo sotto la Croazia in casa propria. Ora tutti ad invocare rinforzi dall'Europa e dall’America, come se l'unica soluzione al problema venisse da Gallinari, Belinelli e com. Dobbiamo farcene una ragione: per tornare ad essere competitivi, bisogna sfornare continuamente giocatori di livello internazionale. Ritenere Gallinari e soci la panacea dei nostri mali significa mettersi una bella benda sugli occhi: ecco perché condivido il rigurgito d’orgoglio di Meo quando afferma che alla nazionale bisognerebbe rispondere positivamente e incondizionatamente. Chi non vuole la maglia azzurra se ne resti a casa e quelli che ci sono vanno considerati i migliori, a prescindere. Gallo ha sbagliato, non doveva rifugiarsi sotto le gonne di Petrucci per giustificarsi. Bastava chiarire con l'allenatore, da uomo a uomo, evitando i riflettori mediatici e le vie virtuali. Preferisco Da Tome, che ha scelto il silenzio per rispetto a chi è sceso in campo: ma si sa, a qualcuno, l’America, dà alla testa.

martedì 3 luglio 2018

giù le mani

Ora basta. La misura è colma. Lo sport non ha bisogno della politica e la politica non ha bisogno dello sport. Usare gli atleti per veicolare concetti ideologici è diecimila volte peggio che per fini commerciali. Gli atleti sono degli atleti. Punto. Come hanno giustamente detto le staffettiste d'oro ai giochi del mediterraneo, nessuna di loro ha fatto caso al colore della pelle: la cosa importante, imprescindibile, è dare il massimo per se stesse e per la nazione di cui si fa parte. Lo sport non può risolvere i problemi dell'immigrazione, meglio ancora, non si pone nemmeno il problema. Il colore della pelle è l'ultima delle questioni in gioco: ciò che conta è la lealtà, l'impegno, il rispetto, l'altruismo, il sacrificio, l'appartenenza. E potremmo continuare con una serie infinita di valori, che non sono parole, ma un codice condiviso da tutti. Coloro che strumentalizzano gli atleti per fini di parte sono gli stessi che si occupano di sport una volta ogni quattro anni, quando ci sono le Olimpiadi o i mondiali di calcio. Chi vive ogni giorno di sport sa bene che non c'è tempo e nemmeno ragione per occuparsi di questioni che nulla hanno a che fare con la sacralità della competizione, basata su regole e principi assolutamente indipendenti e inviolabili. In una nazionale, gli atleti vengono scelti in base a criteri scientifici e verificabili, ossia a risultati certi conseguiti durante la stagione. Perciò, lasciamo in pace lo sport e proteggiamolo da qualsiasi contaminazione: già deve difendersi da minacce endogene quali doping e scommesse, ci mancano solo le mani addosso della peggiore politica, quella fatta di slogan e frasi facili per demolire le ragioni dell'avversario. Nello sport, che è tutto un altro mondo, l'avversario non è un nemico, semmai un'opportunità per misurare i propri limiti.

lunedì 18 giugno 2018

non solo giovani

È sbagliato pensare che un vero settore giovanile possa stare in piedi senza una prima squadra. Guardiamo al Friuli Venezia Giulia: non è un caso che le squadre giovanili più impattanti siano Trieste e Udine dove c’è la serie A. Che si debba lavorare sulle nuove generazioni è un fatto assodato: se non c'è costruzione non c'è ricambio, se non c'è ricambio non c'è futuro per la pallacanestro. Allo stesso tempo, i ragazzi devono intravvedere un'immagine prospettica: un punto di approdo, una linea di arrivo. A Trieste, tutti i cestisti in erba sognano di calcare quel parquet, agognano di giocare nella squadra della propria città: ecco perché l'entusiasmo è alle stelle, perché sono molti i praticanti e perché ci sono ragazzi di sicuro avvenire. L'effetto traino dato dalla squadra della città diventa carburante affinché la pallacanestro giovanile possa correre ad alta velocità. Frasi del tipo ‘ ci occupiamo dei giovani, non ci interessa la squadra senior ‘ appaiono come slogan altisonanti ma privi di lungimiranza. È come costruire le fondamenta di una casa e poi lasciare tutto a metà. Penso alla mia città e capisco perché molti ragazzi sentano forte attrazione per quei lidi dove la pallacanestro si trova ai piani alti: non è questione di qualità delle squadre, spesso non così alta, nemmeno di staff tecnici, non così superiori. Giocare in un settore giovanile di una società importante vale di per se sacrifici e chilometri, se non altro per inseguire un sogno, per dare un senso alla passione. Anch'io ho un sogno: che i giovani di Pordenone possano avere l’ambizione e sentirsi fieri di giocare nella squadra della città. E, che attraverso quella maglia, possano indossarne altre, più prestigiose, come è successo già a tanti nativi di questa terra. Ecco perché sono felice che si stia risalendo la china: questa città merita una prima squadra di valore, se non altro per la storia importante e per ciò che rappresenta. Quando gli allenatori parlano ai giovani, non hanno bisogno solo di idee, ma anche di esempi: le idee sono astratte, gli esempi hanno carne e ossa e li puoi vedere, ascoltare, toccare tutte le domeniche, al palazzetto dello sport, ora palaCrisafulli, solo per ricordarne uno - pace all’anima sua - che pordenonese doc prima di giocare con le celebri scarpette rosse indossava la prestigiosa maglia della Romolo Marchi.

domenica 13 maggio 2018

11 maggio 2018




Mi chiedo se sia il caso di festeggiare. La linea del traguardo si avvicina inesorabilmente e l’idea di attraversarla mi terrorizza. Poi penso a quanti bambini, ragazzi, donne appena divenute madri, hanno incolpevolmente e prematuramente varcato la soglia anticipando, loro malgrado, i tempi del viaggio ultra terreno. Mi vengono in mente Luca, Andrea, Matteo, Giò, Caterina, solo per citare alcuni angeli che hanno un posto privilegiato nei nostri cuori. Esiste una miriade di sopravvissuti sparsa in tutto il mondo che invoca inutilmente una risposta che purtroppo mai avrà. Perciò, dopo ampia e approfondita meditazione, non mi è permesso essere scontento e soprattutto mi è impossibile smettere di essere grato ogni minuto per tutto ciò che quotidianamente ricevo. Persino l'odio ed il dolore, i torti dati e ricevuti, possono trasformarsi, nei lunghi tempi, in miele che addolcisce e quieta, almeno in parte, il lato oscuro dell’anima. Ho vissuto e, se Dio o chi per lui vorrà, vivrò. C’e stato un momento in cui il corpo guidava la mente e ne sosteneva i pensieri, ora è la testa che va in fuga e le membra faticano a tenerne il passo. Ma c'è bellezza - ahimè - anche nello scorrere degli anni: ciò che un tempo faceva perdere le staffe e destabilizzava l'equilibrio emotivo, ora diventa acqua sottile che scorre sul marmo rimanendo in superficie. Qualcuno dice che invecchiando si diventa saggi: di una cosa sono certo, aumentano i dubbi e diminuiscono le certezze. Non so se questo può definirsi saggezza. A volte mi sale la nostalgia dell’epoca delle idee chiare, quando, lancia in resta, si era disposti a sfidare il mondo intero in nome della verità. Tutto ciò non torna, ed è giusto così: i nostri predecessori ci hanno insegnato che ogni stagione ha i suoi frutti. Perciò, anche ci fosse un solo giovine a leggere queste inutili parole, spero non rinunci a lottare per ciò che crede, perché solo i folli ed i ribelli - e i ragazzi lo sono - possono davvero cambiare le cose. 

giovedì 12 aprile 2018

la papera di Gigi

Sulle parole di Buffon c'è da riflettere, persino troppo. Onore e gloria al campione, che non si discute. Se la nazionale italiana di calcio è riuscita a vincere qualcosa negli ultimi tempi - o non a perdere troppo -, lo deve al portierone che spesso è riuscito a nascondere qualità sempre più carenti nelle nuove leve calcistiche tricolori e la conseguente sterilità offensiva. Lo sfogo dopo il rigore concesso al Real costituisce una grande caduta di stile e, soprattutto, una speculazione che, per un uomo di sport navigato come lui, non è ammissibile. Mi chiedo come sia possibile che un arbitro, che deve fischiare ciò che vede, possa essere influenzato dall'andamento della partita. Ossia, che possa fischiare rigore o meno a seconda dello stato delle cose in campo o in base a quanto successo nella partita precedente. In sostanza, il fischietto in questione avrebbe dovuto tener presente che la Juventus aveva fatto una fatica del diavolo per recuperare e perciò negare il penalty agli spagnoli, o comunque tenere in seria considerazione che nella partita d’andata fosse stato negato, forse ingiustamente, ai bianconeri un altro tiro dal dischetto in una situazione similare. A questo punto sarebbe lecito chiedersi se questo modo di agire debba essere applicato in ogni situazione o contesto: ad esempio, il Benevento, sotto di due gol con i campioni dopo aver fatto una partita gagliarda, avrebbe dovuto chiedere un trattamento diverso e quindi sperare in un gesto di benevolenza arbitrale, magari sorvolare su un fuorigioco o annullare una rete per manifesta superiorità. Secondo questa teoria, che prevede una capacità di lettura del pensiero, l’arbitro dovrebbe regolarsi anche in base alla situazione psico-emotiva di ciascun giocatore in campo: sostanzialmente, se un atleta dovesse vivere una situazione difficile a livello umano, dovrebbe essere trattato diversamente da chi invece gode di estrema felicità esistenziale. In pratica, l’arbitro non deve fischiare ciò che vede, ma ciò che sente e immagina di ciascuno. Come i giocatori hanno tempi decisionali brevissimi, anche l’arbitro deve intervenire avendo libera la testa da qualsiasi influenza esterna. Mi dispiace Giggione, stavolta hai cannato, e non poco. Capisco possa bruciare, ma un campione resta tale anche fuori dai pali. Questa può essere considerata una vera e propria ‘papera’.

sabato 24 febbraio 2018

alto tradimento

Sulle due squadre pugliesi che hanno giocato a perdere non è stato detto tutto. Perfino le sanzioni comminate non rendono totale giustizia. È stato omesso un aspetto fondamentale: gli allenatori sono gli esecutori pratici, gli spietati sicari del crimine avvenuto in campo. I giocatori, specialmente in età giovanile, sono tenuti a rispettare le disposizioni tecnico-tattiche che ricevono in spogliatoio: se non si attengono, li aspetta uno spiacevole e lungo riposo in panca. Perciò, gli atleti sono solo l'ultimo anello di una perversa catena che ora si stringe al collo di ciascuno, dato che non potranno proseguire nel percorso agonistico conquistato con merito prima che il fattaccio si consumasse. Delle società sportive e dei loro pensieri contorti mi interessa il giusto: gli allenatori rappresentano l’ultimo se non l'unico baluardo di lealtà sportiva a cui ciascun ragazzo deve affidarsi per crescere in un ambiente non contaminato da beghe politiche o interessi di parte. Hanno ricevuto pressioni dall’alto? Bene, avrebbero potuto lasciare la panchina da uomini d’onore, ora se ne andranno - almeno spero, visto che il giudice sportivo li ha graziati - con disonore e disprezzo. Sono sincero: è ( ancora ancora ) ammissibile trovare mille scorciatoie - anche se non del tutto ‘legali’ - per cercare di vincere, ma è inconcepibile giocare a perdere. Come è inconcepibile ritirare una squadra, anche se palesemente danneggiata. Nessun allenatore ha il diritto di decidere su una contesa agonistica, lo sport ha valori decisamente più grandi e nobili di qualsiasi sconfinamento dell’ego di chicchessia. Gli stessi ideali che pretendono lo schieramento della squadra migliore per raggiungere il risultato più alto possibile, vera forma di correttezza con cui affrontare l’avversario, qualunque esso sia. Le società non hanno compiti educativi diretti, se non quelli di reclutare i tecnici migliori per sviluppare un progetto formativo-sportivo adeguato: gli allenatori sono responsabili nell'applicazione dei programmi e delle metodologie necessarie. Ecco perché sono deluso che il giudice sportivo non abbia inflitto pene severe a chi possedeva il comando del gioco: che credibilità possono avere quegli allenatori che insegnano alle nuove generazioni a trarre vantaggio da una sconfitta? Mentre gli adulti urlano e si agitano in tribuna ( a volte menandosi ) e le società si barcamenano come meglio possono tra mille difficoltà, chi manterrà la barra a dritta nel marasma generale? Forse è sopravvalutazione, anzi senza forse, ma io ci credo: il compito degli allenatori non è solo quello di insegnare a giocare, ma di ricordare a tutti che sullo sport non si scherza e non si transige. Non è una scappatella, è un forte legame d'amore, dove il tradimento non trova spazio.

venerdì 9 febbraio 2018

passi la regola....

Dopo la regola della freccia alternata, che ha raggiunto il massimo del ridicolo e che purtroppo non è ancora stata abolita, ci si aspettava una prudenza maggiore ed invece ecco il colpo di grazia, la novità sui passi. Stiamo assistendo ad un coacervo inestricabile di interpretazioni, ad una babele valutativa che non sembra avere soluzione, almeno nel breve. Di fronte alla grande incertezza, gli arbitri scelgono la via del compromesso: un fischio alternato ad un non fischio, con il risultato di confondere ancora di più le idee agli addetti ai lavori. Il pubblico non capisce e rumoreggia, gli allenatori si arrabbiano, i giocatori traballano, i grigi hanno una rogna in più da sbrogliare. In questa vicenda nessuno ci guadagna. Innanzitutto il gioco: americanizzare la pallacanestro europea, nel nostro caso italica - come dice giustamente Taucer - non significa necessariamente renderla migliore. L’abilità di mettere palla a terra immediatamente dopo la ricezione evitando di camminare è un gesto tecnico di notevole fattura. I giovani devono crescere attraverso processi di apprendimento che richiedono alti livelli attentivi: facilitare il compito non è la strada giusta per ottenere giocatori di qualità. C'è un quesito a cui rispondere: è il regolamento che condiziona la tecnica o il contrario? Gli allenatori insegnano in base alle regole o sono quest'ultime che dovrebbero seguire la tecnica di gioco? Chi dice che la pallacanestro è cambiata, dice una mezza verità: i gesti sono più rapidi, la componente fisica è diventata preponderante - forse troppo per i miei gusti - ma la capacità di battere l'avversario attraverso la bravura tecnica e la valutazione delle situazioni è rimasta integra. Anzi: il patrimonio tecnico che i nostri padri fondatori hanno arricchito attraverso studi ed esperienze rischia di essere riposto in un cassetto in nome della semplificazione e della esaltazione della componente fisico atletica. Per carità, anche ad un esemplare gerontologico come il sottoscritto piacciono le giocate spettacolari e veloci, ma ridurre questa affascinante ed unica disciplina ad un insieme di giocate per supereroi fisicati non è una prospettiva che mi alletta. Per capirsi, se Bodiroga è riuscito a giocare - e con quali risultati! - nella pallacanestro moderna, significa che possiamo ancora credere nel potere della tecnica. Perciò la mia idea è la seguente: continuo ad insegnare il piede perno, anche se il primo passo è considerato zero. Perché? Perché è più importante diventare più abili piuttosto che inseguire le mode del momento. Romantico, fino al midollo.

lunedì 29 gennaio 2018

potere allo sport

È un dato di fatto che il governo sportivo sia più asfittico di quello politico. Sono anni che si parla di non rieleggibilità, di limite ai mandati, ma tutto è rimasto sulla carta. Siamo portati a scandalizzarci per le nefandezze della classe politica, ma ciò che succede all'interno delle federazioni sportive supera di gran lunga qualsiasi tipo di immaginazione. Presidenti che succedono a se stessi, oppure che gravitano da una disciplina all'altra pur di tenersi stretta la sedia, addirittura uomini politici riciclati che nulla sanno di campo e di vita sportiva. Ciò che sta succedendo alla federazione calcio non è molto diverso da quanto attende tutte le altre specialità: che il nuovo, fatto di persone ed idee, viene come sempre ringraziato per la piacevole partecipazione e relegato in un angolo ad attendere un futuro migliore che non avrà mai accadimento. Non si può non esprimere simpatia per l'ex calciatore Damiano Tommasi, l'ultimo dei gladiatori sceso nell'arena a combattere contro un nemico invincibile: la sua è l'ennesima sconfitta di chi pensa di poter passare direttamente dal campo all'ufficio senza fare i conti con le logiche del gioco che meno conosce, il potere. C'era riuscito in passato Dino Meneghin, diventato a furor di popolo presidente della federazione pallacanestro: un regno durato poco e finito male, soffocato da meccanismi complessi e dalla frustrazione di vedere la voglia di cambiamento infrangersi contro i muri dell’apparato. C'è da chiedersi a questo punto se le federazioni possano rappresentare un freno allo sviluppo dello sport, in particolare quello giovanile e di base, bisognosi di investimenti e di riforme e non di assistere a lotte intestine o beghe di palazzo. Hanno ancora senso di esistere così come sono fatte, ossia come caricatura dei peggiori luoghi di potere, dove la spartizione delle poltrone ha più importanza di decisioni non più procrastinabili per risollevare le sorti dello sport italiano? L'allarme è di quelli rossi: tutte le nazionali delle discipline di squadra sono in caduta libera e le specialità individuali, a parte qualche illustre eccezione, non sono da meno. Chiunque può rendersi conto che negli ultimi anni la formazione sportiva ha subito un forte rallentamento: i settori giovanili sono abbandonati a se stessi e di talenti se ne vedono sempre meno. Le nazioni che hanno investito sullo sport giovanile stanno raccogliendo i frutti: tralasciando le più titolate, basta pensare al fenomeno Islanda che è riuscita a piazzare le squadre di pallacanestro e calcio ai più alti livelli internazionali partendo da una base certamente più ridotta. Come giustamente ribadiscono gli allenatori da tempo, le federazioni non devono servire a proteggere gli italiani, ma a favorire il reclutamento e la formazione dei giovani: investendo sui settori giovanili e su tecnici di qualità sarà possibile tornare ai mondiali e sognare nuovamente notti magiche. In pratica potere allo sport, non sport al potere!