"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 5 luglio 2018

Gallo nel Sacc(hetti)

Meo Sacchetti mi è piaciuto fin dall'inizio. Qualcuno lo ha considerato un ripiego, altri una scelta inevitabile. Fatto sta che il meno aziendalista e il più naïf fra gli allenatori italiani ha dimostrato ampiamente di essere l'uomo giusto nel posto giusto al momento giusto. Diciamoci la verità: per quanto l'azzurro sia un colore molto attraente, nessuno fra i coach più titolati avrebbe accettato la patata bollente di guidare un drappello di bravi ma inesperti ragazzi, privo per regole assurde e dispotiche dei big impegnati all'estero o oltre oceano. Meo ha accettato di getto, senza pensarci troppo, come il suo gioco fatto di poco controllo e di responsabilità affidata ai giocatori. Il perfetto erede del compianto professore Dido Guerrieri, che ho avuto l'onore e la fortuna di affiancare in una breve comparsa in città dopo il malore che lo tolse al grande basket. Dido era un genio, quasi sempre mal compreso: amava i giocatori duttili e una pallacanestro semplice - non banale - e sbilanciata offensivamente. La sua Torino non vinceva gli scudetti ma riempiva il palazzo e si faceva amare. L'impronta indelebile del professore stampata in Meo la si può notare nel lancio dei giovani: come Dido fece esordire in serie A il giovane Carlo della Valle - padre di Amedeo - affidandogli responsabilità inconsuete, così Sacchetti ha mandato in campo un diciassettenne - Pace Mannion - in una importante partita di qualificazione ai mondiali concedendogli minuti e fiducia. Chi l'avrebbe fatto tra gli illustri allenatori di cui, giustamente, l'Italia va fiera? Tutti quanti sbigottiti perché gli azzurri hanno perso le ultime due gare e messo in discussione la qualificazione ai mondiali, pochi però si sono spellati le mani quando, contro ogni pronostico, un manipolo di ragazzi abituati a ruoli da comprimari hanno messo sotto la Croazia in casa propria. Ora tutti ad invocare rinforzi dall'Europa e dall’America, come se l'unica soluzione al problema venisse da Gallinari, Belinelli e com. Dobbiamo farcene una ragione: per tornare ad essere competitivi, bisogna sfornare continuamente giocatori di livello internazionale. Ritenere Gallinari e soci la panacea dei nostri mali significa mettersi una bella benda sugli occhi: ecco perché condivido il rigurgito d’orgoglio di Meo quando afferma che alla nazionale bisognerebbe rispondere positivamente e incondizionatamente. Chi non vuole la maglia azzurra se ne resti a casa e quelli che ci sono vanno considerati i migliori, a prescindere. Gallo ha sbagliato, non doveva rifugiarsi sotto le gonne di Petrucci per giustificarsi. Bastava chiarire con l'allenatore, da uomo a uomo, evitando i riflettori mediatici e le vie virtuali. Preferisco Da Tome, che ha scelto il silenzio per rispetto a chi è sceso in campo: ma si sa, a qualcuno, l’America, dà alla testa.

martedì 3 luglio 2018

giù le mani

Ora basta. La misura è colma. Lo sport non ha bisogno della politica e la politica non ha bisogno dello sport. Usare gli atleti per veicolare concetti ideologici è diecimila volte peggio che per fini commerciali. Gli atleti sono degli atleti. Punto. Come hanno giustamente detto le staffettiste d'oro ai giochi del mediterraneo, nessuna di loro ha fatto caso al colore della pelle: la cosa importante, imprescindibile, è dare il massimo per se stesse e per la nazione di cui si fa parte. Lo sport non può risolvere i problemi dell'immigrazione, meglio ancora, non si pone nemmeno il problema. Il colore della pelle è l'ultima delle questioni in gioco: ciò che conta è la lealtà, l'impegno, il rispetto, l'altruismo, il sacrificio, l'appartenenza. E potremmo continuare con una serie infinita di valori, che non sono parole, ma un codice condiviso da tutti. Coloro che strumentalizzano gli atleti per fini di parte sono gli stessi che si occupano di sport una volta ogni quattro anni, quando ci sono le Olimpiadi o i mondiali di calcio. Chi vive ogni giorno di sport sa bene che non c'è tempo e nemmeno ragione per occuparsi di questioni che nulla hanno a che fare con la sacralità della competizione, basata su regole e principi assolutamente indipendenti e inviolabili. In una nazionale, gli atleti vengono scelti in base a criteri scientifici e verificabili, ossia a risultati certi conseguiti durante la stagione. Perciò, lasciamo in pace lo sport e proteggiamolo da qualsiasi contaminazione: già deve difendersi da minacce endogene quali doping e scommesse, ci mancano solo le mani addosso della peggiore politica, quella fatta di slogan e frasi facili per demolire le ragioni dell'avversario. Nello sport, che è tutto un altro mondo, l'avversario non è un nemico, semmai un'opportunità per misurare i propri limiti.