"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

martedì 29 novembre 2016

chi la dura la vince

Tenacia. Termine intrigante e un po' in disuso: dalla radice tenere, stare incollato, avere forza adesiva. Se il talento è un dono di cui spesso non si è meritevoli, la tenacia non esiste in natura, va prodotta e si conquista sul campo giorno per giorno. Si diventa tenaci quando, pur consapevoli di essere inferiori, ci si batte con onore e coraggio. La tenacia ha un prezzo molto alto: più ci si ostina e più ci si fa male. Forse per questo non se ne vede molta in giro. È più semplice mollare, lasciare la presa, abbandonarsi fatalmente al destino. Perché perseverare se le cose rimangono così come sono, perché insistere se non si vedono cambiamenti? Perché provare e riprovare se non diventerò mai un giocatore di serie A? Perché perdere tempo, doversi assorbire ore di allenamento e dosi interminabili di urla se non esiste una meta reale e raggiungibile? Ecco spiegate le facce bastonate che ci capita di incrociare in campo, le spalle ricurve, i passi incerti, gli sguardi spenti, i sorrisi trattenuti. Ci si arrende ancor prima di iniziare, perché non ne vale la pena. Non vale la pena resistere, sopportare, soffrire. Siamo ormai fatti per stare in santa pace, per non essere disturbati, per tenere lontano da noi frustrazioni ed insuccessi. Meglio non farsi grandi aspettative, meglio rinunciare piuttosto che correre il rischio di rimanere delusi. Eppure la tenacia è un valore in sé: una sconfitta onorevole equivale ad una vittoria. Non ci sono solo numeri ad indicare la statura morale di una squadra: c'è coraggio, resistenza, senso di appartenenza, orgoglio. La rinuncia è peggio della sconfitta: non siamo fatti per nasconderci, come ha fatto codardamente Adamo nell'Eden, ma per metterci in gioco. Lo sport è forse l'ultimo approdo rimasto per imparare i fondamentali sani della vita: nulla è dovuto e regalato, non ci sono corsie preferenziali, nemmeno privilegi, tutto si conquista e si merita partendo dalla stessa linea. Non il talento, ma la forza interiore fa la differenza. Amo lo sport, perché, a differenza di altri posti, chi vuole arrivare può davvero farcela. Non ci sono filtri, non ci sono terzi, né bustarelle: l'unico giudice, severo ma giusto, rimane il campo. È proprio vero: chi la dura la vince.

domenica 27 novembre 2016

i care

Di cosa ha bisogno la pallacanestro? Di anima, passione, cuore. C'è bisogno che l'allenatore della squadra ultima in classifica si adoperi come se fosse in testa: stessa partecipazione, stessa ambizione, stessa professionalità. Non esistono ricette miracolose, non è possibile trasformare in oro ciò che è destinato ad essere argento o bronzo. Ma la vera opera d'arte, il vero capolavoro, sta nel dare il meglio di se stessi nelle situazioni più disperate e negli angoli più remoti della terra. Spesso ci si dimentica, colpevolmente, che i campioni non scendono dal cielo ma sono il prodotto finale del lavoro silenzioso e sotterraneo di chi si trova ai margini del successo: per un giocatore di serie A ci sono centinaia di compagni di squadra, di cui, magari oggi, si sono perse le tracce. Non ci sarebbe stato Danilo Gallinari senza le decine di sconosciuti compagni di viaggio che oggi riempiono le liste dei campionati minori e che si divertono a cena a raccontare una storia diventata epica grazie anche alla personale partecipazione dalle retrovie. Non si può chiedere ai giocatori di lottare se gli allenatori, per primi, gettano la spugna. Le piccole cose, come sempre, fanno la differenza: arrivare puntuali, preparare il piano di lavoro, inventare situazioni nuove, coinvolgere tutti senza distinzione, non smettere mai di correggere. La correzione è il regalo più grande che un allenatore fa ai propri giocatori: sarebbe più facile e meno costoso tacere, far finta di niente, lasciare che gli errori scorrano a fiumi fino a compromettere lo sviluppo tecnico di ciascuno. C'è una bella differenza tra correzione ed umiliazione: nel primo caso l'obiettivo è la costruzione, nel secondo la distruzione. Tutto questo vale anche nel caso, purtroppo frequente, che un giocatore non possa o, peggio, non voglia cambiare le cattive abitudini. Sapere, saper fare, saper essere: tutte caratteristiche indispensabili, ma la più importante è l'ultima. Possiamo anche non conoscere perfettamente la materia, possiamo anche sbagliare nell'agire, ma non ci è concesso non essere veri. I giocatori perdonano tutto, fuorché l'indifferenza. ' I care ' ( mi interessa, ho a cuore ), diceva Don Milani: se qualcosa cattura la nostra anima, non c'è errore che valga.

giovedì 17 novembre 2016

consensualmente

Gentile è Gentile. Un pezzo più unico che raro, il più pregiato ancora rimasto dentro i confini. Gentile ha cazzimma - vocabolo non traducibile se non assimilabile a quell'insieme di proprietà mentali ed emotive riconoscibili, sinteticamente, come attributi - dote spesso carente nei giocatori italiani. Gentile è completo: ha una struttura fisica imponente, fa canestro in tanti modi - in penetrazione, spalle a canestro, ultimamente un po' meno dal perimetro ( ma perché ha cambiato il suo tiro? ) - si procura un sacco di falli, prende rimbalzi, smazza assist e se vuole difende. Gentile, almeno come giocatore, non si discute, da allenatore lo vorrei sempre dalla mia parte. Essendo l'ultimo degli eroi sopravvissuti in patria, è triturato quotidianamente dai riflettori mediatici: un tempo, quelle poche attenzioni che la stampa e le TV strappavano al monopolio calcistico venivano equamente divise tra tutti. Oggi, se si vuole parlare di qualcuno, è inevitabile imbattersi nel figlio di Nando, schiacciato, tra le altre cose, dal dovere di essere all'altezza del blasone dinastico. Gentile è scontento: lo si legge in faccia e dalle parole circostanziate che smista ai cronisti affamati di scandali. Soprattutto è il campo, da sempre giudice obiettivo, a togliere qualsiasi dubbio sui livelli alti di insofferenza. C'è una regola, che vale dal minibasket all' NBA e non solo nella pallacanestro: se non si è soddisfatti di dove ci si trova, è meglio cambiare aria. Non ho mai capito, sinceramente, per quale motivo le società sportive si debbano impuntare nel trattenere giocatori controvoglia: succede dappertutto, anche da noi, anche nelle giovanili. Sembrano quelle scenate di gelosia infantile che non portano a soluzione se non a rotture definitive e insanabili. Come dice il poeta genovese, un amore che strappa i capelli è perduto. In un gruppo, come può essere una squadra, l'infelicità di uno condiziona irreparabilmente l'umore di tutti: lo sanno quelli del canottaggio, se qualcuno non rema come gli altri, la barca non può procedere spedita. E non saranno i soldi generosi di Armani a riportare il sorriso al nostro giovane campione: avranno il potere di ricordare i suoi doveri di professionista, ma non di scaldargli il cuore. Anche da inguaribile tifoso, e con amarezza, è giunto il momento di ammettere che, per il bene di tutti, sia giusto che le strade si separino. È bene che sia Gentile che l'Olimpia possano seguire i loro sogni. Senza conflitti. Consensualmente. 

martedì 8 novembre 2016

terapia d'urto

Repesa ha ragione. Anzi, ragionissima. Coraggio da vendere. Molto da perdere. Cos'ha guadagnato dal suo sfogo? Niente, a parte qualche consenso non propriamente sincero di alcuni colleghi che ambirebbero a stare al suo posto. Ai giocatori non avrà di certo fatto piacere; alla società nemmeno, se è vero che Proli condivide tutto ma non l'esternazione pubblica del messaggio - che è un modo per dire, formalmente e aggraziatamente, che non ha gradito -. A me, povero e insignificante mortale, è invece piaciuto, eccome. Come, anni fa, quando Trapattoni a Monaco scosse il video puntando il dito e scaricando la voce sui giocatori pigri e immeritevoli. Quante volte capita di sentire un allenatore, durante un'intervista o una conferenza stampa, dire pane al pane e vino al vino? Uscire dalla sacralità dello spogliatoio, dal populistico e ipocrita lavarsi i panni in casa quando, nei fatti, tutti ormai, anche i bambini, possono accorgersi che esiste qualcosa nel meccanismo che non funziona. È probabile, anzi quasi certo, che i vani tentativi di risolvere il caso in privato abbiano lasciato il posto alle maniere forti di trattare, come estrema ratio, la vicenda in ambito pubblico. Qualcuno mi spieghi: forse i giocatori devono godere di un'immunità diversa dagli altri esseri umani? Sono considerati lavoratori speciali, per cui se non fanno il proprio dovere,  beneficiando tra l'altro di lauti e impopolari compensi, vanno difesi ad oltranza comunque e ovunque? Repesa ha parlato di piegamento sulle gambe che è la prima cosa che si impara in palestra: sarebbe come chiedere ad un'infermiera di fare un'iniezione o ad un cuoco di preparare un piatto di spaghetti. È un insulto alla collettività, prima ancora che all'allenatore, che giocatori di questo rango abbiano un comportamento indolente in campo: presunzione? Superbia? Rancore? Comunque sia, inaccettabile. Qualunque bambino/a o ragazzo/a ha bisogno di immedesimarsi in un modello sportivo: gli eroi, che io sappia, si sacrificano, cadono e si rialzano, lottano e si sbucciano, e poi, tra le altre cose, fanno anche canestro. Non ne ha bisogno, ma un consiglio al coach, da tifoso Olimpia, mi permetto di darlo: metta in campo Cerella, che oltre ad appagare gli occhi femminili, è forse l'unico che si dimentica e si disinteressa, mentre gioca, di proteggere la propria incolumità. Forse il solo della compagnia contento di giocare senza pensare al tabellino. Terapia d'urto: di solito si usa con le giovanili, probabilmente qualcuno non è ancora cresciuto.