"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 29 maggio 2014

palamaurizio


Il Forum ha finalmente un nome. Quello giusto. Quello da tutti sperato e voluto. Ora si chiama PalaMaurizio Crisafulli. L'unico modo per avere ancora in mezzo a noi un uomo che in troppo poco tempo é riuscito comunque a scrivere la storia della pallacanestro cittadina. Non si é mai fregiato del suo glorioso passato da giocatore: non era facile sentirlo parlare dei trascorsi a Milano e Bologna oppure della medaglia vinta con la nazionale italiana. Era fatto così: forse questa modestia, figlia della timidezza, non gli ha permesso di vivere una carriera più lunga e proporzionata al suo sconfinato talento. Arrivare al Simmenthal delle scarpette rosse, a quei tempi, era un'impresa per pochi eletti: posso garantire di non aver mai visto nei dintorni un giocatore con una tecnica così sopraffina, soprattutto del passaggio. Nella sua breve apparizione come assistente tecnico con le giovanili in città, lo ricordo come un dimostratore eccezionale: quello che un allenatore sapeva dire, lui sapeva fare. Aveva un rapporto straordinario con i ragazzi, spesso compensativo e di tacita complicità: per questo motivo non volle mai prendersi una responsabilità diretta, non sarebbe mai riuscito ad alzare la voce o a sbattere i pugni. Lo vidi con le lacrime agli occhi dopo l'eliminazione dolorosa ai supplementari nel concentramento interzona per l'accesso alle finali nazionali: mi disse, non piango per me, mi dispiace per loro. Come se il dolore degli altri avesse un peso specifico superiore al suo. Come la volta che andò a trovare, malgrado già sofferente, il fratello, anch'egli ex giocatore, dopo un grave incidente in moto. Come si é congedato da questo mondo: in punta di piedi, senza far rumore, senza disturbare, senza pesare su alcuno. Ora, quando entreremo all'ex forum, potremo finalmente onorarne la memoria: mi piace pensare la sua contentezza nel darci appuntamento in quella che ormai é diventata la sua dimora eterna ideale. Ora, anche quel campo di basket é diventato, per sempre e per tutti, sacro. 

venerdì 23 maggio 2014

anto e giovi

Ora che stai per spiccare il volo mi viene in mente il nido dove hai mosso le ali. Chiuse all'angolo di uno spogliatoio qualsiasi, tu e Giovanna, inseparabili in campo e fuori, ancora signorine e impaurite da un gruppo non certo galante di maschi feroci e impertinenti. Per fortuna c'era il campo a riportare ordine e giustizia: in quella squadra non esistevano quote rosa, non si giocava per gentile concessione. Di meriti ne avevate tanti: personalità, passione, intelligenza di gioco, a tal punto da essere inamovibili nelle valutazioni dell'allenatore. Certamente complementari: Giovi, soldato esemplare, così timida e gentile nelle relazioni, ma implacabile e ferrea in difesa sui giocatori avversari più temibili. Tu, invece, malgrado possa sembrare blasfemo verso i puristi della pallacanestro, un attaccante di razza, il classico centravanti: fare canestro é sempre stato il tuo mestiere. Una squadra di piccoli squali, perfino troppo precoce. Una banda mista di preadolescenti, forse cresciuti cestisticamente troppo in fretta, che aveva in testa un solo pensiero: la vittoria. Un bella favola durata poco: voi ben presto a portare onore e gloria al club cittadino rosa, altri migranti in lidi ritenuti più attraenti. Resta però il ricordo di un gruppo incredibile, capace di vincere quasi tutto in due, brevissimi ma intensissimi, anni. Attraversando l'oceano - impresa tra l'altro a me proibita in piú di cinquanta anni - ricordati un paio di cosette: la prima, non dimenticarti di invitare il tuo vecchio e primo allenatore. La seconda, certamente più rilevante, non aver riverenza di questa nuova sfida: non sarà facile, dovrai sgomitare, e come negli spogliatoi qualsiasi di un tempo, nessuno ti regalerà nulla. Ma hai un back ground invidiabile, sia di formazione tecnica che mentale. Dall'ex fiera a Georgia Tech, passando per Venezia, Roma e chissà quante altre città: ne hai fatta di strada, cara Anto! La pallacanestro, il gioco che amiamo, é sempre lo stesso: che sia la finale di un torneo pasquale cittadino o il titolo universitario americano, l'impegno non cambia. É sempre e comunque al massimo. Ed ogni storia che si scrive, ha sempre, alle spalle, un'altra storia che si può solo raccontare. 

lunedì 19 maggio 2014

dovuto rispetto


Non c'è niente da fare: gli spagnoli - che a livello di talento sono i migliori in Europa e secondi solo agli americani nel mondo - non imparano mai dai loro errori. Il punto debole sta nella presunzione, nella credenza aprioristica che la sorte dipenda solo da se stessi. Essendo i più forti, non c'è motivo di temere i più deboli. Non che gli iberici non abbiano vinto: si contano decine di titoli, sia di club che di nazionale, nello sfogliare l'almanacco. La mia opinione é che avrebbero potuto vincere molto di più se solo avessero considerato il rispetto che si deve all'avversario. Rispetto che il Maccabi ha avuto per il Real. La nazionale spagnola ha vinto molto con un allenatore italiano in panchina e il Real del calcio, per tornare a giocarsi una finale, ha avuto bisogno di Ancelotti. Ci vuole qualcuno con una mentalità diversa - non narcisistica - per aiutare questi fenomeni a non specchiarsi troppo e dare il giusto valore all'avversario. Non vincono i giocatori più forti: vince la squadra più forte. Il Real ha commesso il più banale dei peccati: fidarsi eccessivamente della propria bravura. David Blatt ha fatto un capolavoro: non che i suoi giocatori siano scarsi, anzi, ma sarebbe stato interessante vedere quanti allenatori avrebbero voluto i vari Rice, Hickman, Blue, Smith, Tyus e compagnia cantante durante la conta, prima di iniziare l'eurolega. Una squadra vera, costruita con sapienza maniacale, dove l'individualità é sottomessa all'insieme. Dove la somma dei giocatori diventa comune multiplo. L'allenatore ha avuto il grande merito di infondere a questi giocatori fiducia e convinzione, lavorando nella testa di ciascuno in maniera straordinaria. E poi la tattica, che non é debolezza, ma giusta considerazione dell'avversario. Mettere in atto strategie non significa mancare di fiducia, casomai dare strumenti per credere nel successo. Una squadra capace di cambiare pelle a seconda dei giocatori in campo: spettacolare e veloce con Rice e Tyus, potente e solida con Schortsianitis vicino al ferro. Capace di soffrire e rimontare ogni volta, non finendo mai al tappeto. Onore al Maccabi e ai quasi diecimila tifosi: una questione di popolo, non solo di pallacanestro. Quando gli spagnoli capiranno che esiste un rispetto dovuto, non ce ne sarà più per nessuno. Nel frattempo, godiamo tutti di questa bella favola sportiva.

sabato 10 maggio 2014

Gas

Ai più eri conosciuto come giocatore di pallacanestro: non eri male, con più convinzione avresti  sicuramente giocato più in alto. Discorsi fatui, a questo punto. Per me eri soprattutto un alunno: studente dell'Ipsia Zanussi, per la precisione. Strano: mi é successo raramente di insegnare a giocatori di basket. Al professionale si iscrivono quasi tutti calciatori: questa é la legge del contrappasso spettatami in dote per i molti peccati commessi in vita. Una mosca bianca: così sembravi in mezzo ad un esercito di amanti della pedata. Un'impresa ardua trovare dei compagni di gioco con gli stessi interessi: per fortuna, una tacita e sacra alleanza con il professore permetteva, a volte, un reclutamento sufficiente almeno su metà campo. Una piccola oasi di relax in mezzo a tanta sopportazione: questa era per te l'ora di ginnastica. Infatti non ce l'hai fatta a terminare gli studi: tua madre, con ovvia ragione, avrebbe voluto che continuassi, ma ha dovuto soccombere di fronte all'ennesima dimostrazione di insofferenza. Un ritiro é sempre un fallimento, per tutti: ora, a notizia ricevuta, sembra addirittura l'inizio di una tragedia. Eri un colpo inesploso, una miccia ancora spenta: una vita davanti per accendersi e divampare. Morire a vent'anni é assurdo. Non é giusto. E non ha nessun senso sapere cos'é successo. Non é giusto e basta. Tutti quanti abbiamo fatto le nostre sciocchezze, spesso utilizzate come racconti di sano eroismo. E non c'è sempre spiegazione a tutto. Qualche volta lasciamo che non ci sia risposta. C'é solo un'ora - un minuto, un secondo - che scocca. La tua, caro Gas, troppo presto. E in cielo, purtroppo, ci sono troppi angeli.

venerdì 9 maggio 2014

immagini sfuocate

Quel che ha fatto Minucci é inqualificabile e imperdonabile. A me, che frequento palestre sconosciute e di confine, interessa relativamente il danno subito dai club concorrenti. Mi interessa l'immagine dello sport che amo e al quale ho dedicato gran parte del mio tempo e del mio cuore. Mi interessano i bambini e le bambine che si appassionano alla pallacanestro: a loro devo poter dire che l'ambiente è pulito, che i sogni dipendono dagli sforzi, che il risultato finale di qualsiasi gara é quello giusto, che nello sport vince chi merita e non chi fa il furbo. Non voglio e non accetto di far parte di questo mondo malato: il solo fatto che Minucci fosse il candidato ideale della lega basket é in sé aberrante e incomprensibile. E non possiamo sbrigatamente dire che il problema non ci tocca, che la pallacanestro di base non ha niente a che fare con il marciume di questi giorni.
Ci ha fatto comodo, per molti anni, indicare nel calcio e nel padrino di tutti i dirigenti, Luciano Moggi, il male che attanaglia lo sport. Abbiamo pensato, ingenuamente, che la nostra disciplina sportiva, per attitudine e concetto, potesse rimanere immune da certi comportamenti criminosi. Non é così: se non ci sarà un innesto di legalità e responsabilità la pallacanestro italiana é destinata inesorabilmente alla deriva e nessuno potrà tirarsene fuori. La cultura della vittoria a tutti i costi ci ha portato a drogare i bilanci e a fare passi più lunghi della gamba: se non c'è disponibilità, si fa con quel che si ha, magari ripartendo dai giovani, come tante società coraggiosamente hanno fatto. Concorrenza sleale - sebbene in forma legalmente riconosciuta - é un concetto che tocca non solo i vertici del movimento: basti pensare a chi fa reclutamento giovanile in tutta Italia o anche all'estero, grazie a forza politica ed economica, spopolando realtà che faticano a crescere. Nessuno dubita sulle qualità di questi club che hanno organizzazione, tecnici preparati e progetto ad ampio respiro: dico solo che dovrebbero essere premiate e riconosciute quelle società, che con pochi mezzi, ottengono grandi risultati esclusivamente con atleti del proprio territorio. Sono giornate tristi per la pallacanestro: tutti quanti abbiamo ammirato le imprese di Siena, lo spirito di gruppo, la coesione, la forza vincente. Quelle immagini ora sono sfuocate, per sempre.

venerdì 2 maggio 2014

senza sale

La cultura della vittoria rischia di sterminare le nuove generazioni che si avvicinano allo sport. Detto da uno che darebbe qualsiasi organo del corpo per vincere può sembrare una clamorosa presa per i fondelli. Non é così: sono serviti più di trent'anni per capire che un giocatore vale più di cento trofei alzati e che un titolo, a qualsiasi livello, non merita sacrifici sull'altare. Fin dai primi anni si impara nostro malgrado che ciò che conta é il successo ed arrivare primi: tutto il resto - il gusto della competizione con se stessi e con gli altri, la ricerca del proprio limite, il piacere di mettersi alla prova, la verifica dei progressi fatti - passa inesorabilmente in secondo piano. Si fa gran rumore sui rischi della selezione precoce, poi giriamo qualsiasi canale e troviamo provetti cantanti, cuochi, modelle o ballerini che si sgozzano a vicenda pur di salire in cima: noi, morbosi spettatori, seduti comodi di fronte alla crudele arena televisiva, per dissetare la voglia di sensazioni forti, ci dimentichiamo del pudore, del limite, della dignità. Qualcuno deve cominciare. Qualcuno deve avere il coraggio di dire no a tutto questo e ribellarsi. Deve dire e convincere i ragazzi, soprattutto gli adulti, ( impresa più ardua ), che vincere e perdere sono componenti essenziali e complementari per una sana crescita attraverso lo sport: due facce della stessa medaglia. Perdere non é qualcosa di cui aver paura: perdere é qualcosa che succede. L'alternanza tra vittoria e sconfitta, almeno fino  ad una certa età, dovrebbe costituire la normalità delle cose. Se un ragazzo cresce con l'idea che la sconfitta é un evento possibile, avrà un rapporto con lo sport sereno e passionale. Anche i campioni perdono e non esistono invincibili: figurarsi durante i primi passi, quando il piacere dovrebbe essere l'unica componente in gioco. Risse sugli spalti, insulti gratuiti, aspettative eccessive, illusioni e delusioni: non dobbiamo trasformare ciò che é naturalmente competitivo in un campo di battaglia. I ragazzi vogliono vincere, come é giusto che sia: ma una sconfitta, gestita bene, può diventare più importante di mille vittorie. Se lo sport, che é in se felicità e godimento, deve diventare fonte d'ansia e di preoccupazione, c'è qualcosa nel meccanismo che non funziona. Soprattutto se a pagarne le conseguenze sono giovani atleti. Lo sport é vita, con annessi e connessi: basta a se stesso, non serve aggiungere sale.