"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 31 dicembre 2016

uomo nuovo



Vorrei poter dire che allo scoccare della mezzanotte, né un secondo prima né uno dopo, tutti i mali del mondo, quindi anche i nostri, cesseranno. Non ci saranno più guerre, pestilenze, carestie, terremoti, omicidi. Sappiamo tutti che non sarà così: non lo sapevano, o forse avevano bisogno di attenzione, i fanatici delle sette che l'ultimo giorno del millennio uscente fecero bagagli e salirono sulle vette più alte dei monti in attesa del diluvio universale. In realtà non cambierà niente perché, sempre in realtà, nulla può cambiare. Le armi, per quanto più sofisticate, rimarranno; la terra tremerà ancora, le malattie mieteranno vittime, le tragiche fatalità ci colpiranno. L'unica speranza davvero spendibile è che a cambiare sia l'umanità, ossia tutti noi, nessuno escluso. Per gli esseri umani esiste sempre una scelta, se imbracciare il fucile o metterlo a terra, se considerare l'altro come nemico o come fratello, se vivere ciò che succede con rassegnazione o come opportunità. Credere nell'uomo è diventato, di questi tempi, il più difficile e costoso atto di fede: più facile e comodo credere in Dio, e in nome di Dio compiere azioni criminali. Credere nell'uomo è un esercizio faticoso, comporta ascolto, pazienza, bontà d'animo, comprensione. Nulla cambierà di ciò che vediamo se nulla cambierà in ciò che non vediamo e che è dentro di noi. " Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo ". È questo, e niente più, ciò che aspetto da me stesso e dal domani.

venerdì 30 dicembre 2016

la pallacanestro che verrà

La pallacanestro che vorrei. È fine anno, tutti quanti abbiamo dei desideri. Tutti vorremmo che qualcosa cambiasse: innanzitutto, prima di ogni cosa, siamo noi che dobbiamo cambiare. Avere una marcia in più, diventare capaci di sorprendere e farsi sorprendere, non aver paura di mettersi in discussione anche quando le convinzioni sono solide. Mi piacerebbe che si giocasse per vincere e non per il risultato: non è un gioco di parole, sono due cose totalmente differenti. Chi gioca per il risultato è disposto a tutto e a passare sopra ogni cosa, chi gioca per vincere considera la sconfitta non come la fine del mondo, ma come una possibilità. Chi gioca per il risultato ha in testa solo il presente, chi gioca per vincere pensa anche al futuro. Mi piacerebbe che la federazione non nascondesse la polvere sotto il tappeto e avesse il coraggio di ammettere che non è oro tutto ciò che luccica: fare autocritica non guasta, anzi, solitamente diventa motivo di slancio per traguardi migliori. Dire che va tutto bene significa prendere in giro tutti quelli che si sbattono quotidianamente in mezzo a mille ostacoli e difficoltà. Mi piacerebbe che le società sportive avessero più coraggio, non si accontentassero di amministrare l'ordinario - che comunque è già un bel daffare - ma investissero su progetti di lungo corso. Mi piacerebbe che anche la mia città avesse una prima squadra di valore ma che, simultaneamente, non si ripetessero gli errori del passato dove l'ambizione bulimica ha prevalso sulla costruzione graduale e solida. Mi piacerebbe che gli allenatori fossero talmente appassionati da contagiare qualunque giocatore capiti a tiro. Prima ancora di insegnare, c'è bisogno di far innamorare. Mi piacerebbe che i giocatori fossero esigenti con se stessi e avessero la sfacciataggine di pretendere di essere allenati. Mi piacerebbe vedere le tribune piene, non di adulti boriosi e maleducati, ma di coetanei allegri e festanti. Mi piacerebbe che gli arbitri e gli ufficiali di campo non funzionassero a gettone e non si sentissero obbligati, ma che provassero il gusto di partecipare anche se la partita si svolge ai confini del mondo tra bambini che hanno appena iniziato. Mi piacerebbe vedere i genitori che non portano la borsa ai figli e che dispensano incoraggiamento e sostegno anche quando, inevitabilmente, qualcosa non funziona: sparlare dell'allenatore fra le mura domestiche equivale all'inizio della fine e alla fine dell'inizio. Questa è la pallacanestro che vorrei. Questa, spero, è la pallacanestro che verrà, parafrasando il compianto Lucio di Bologna che, guarda a caso, da vero tifoso la portava nel cuore.

sabato 24 dicembre 2016

amore invisibile

Può sembrare assurdo, pretenzioso, inconcepibile, ma quando un allenatore chiede ad un giocatore ( o un insegnante ad un alunno, o un genitore ad un figlio ) di essere migliore di quello che è, compie un vero e proprio atto d'amore. Sarebbe più facile e compiacente lasciar perdere, volare basso, fingere che tutto vada per il verso giusto. Ma non sarebbe un atto d'amore. Amare educando è spesso faticoso, comporta attenzioni che vanno oltre la formalità, capita di addentrarsi in sentieri impervi e, talvolta, pericolosi. Non esiste rispetto più grande di quello che pretende, non si accontenta, richiede il massimo. Credere nell'uomo significa desiderare che le persone portino a compimento ciò che è ancora abbozzato. L'indifferenza è la forma più subdola di maltrattamento: non c'è peggior atteggiamento formativo di quello, in nome della delicatezza e della discrezione, che sorvola sugli errori e spinge verso l'illusione di essere perfettamente in regola. Un insegnante che non interviene quando una classe è indisciplinata compie un gesto inqualificabile: chiunque può pensare che ciò che si sta facendo è corretto e quindi ripetibile, anche in circostanze diverse. Perciò, se i ragazzi sono maleducati, non è perché hanno dei geni marci, ma perché non sono stati bene-educati. Allo stesso tempo, un allenatore che lascia correre e non usa la voce per correggere è del tutto inutile alla causa: meglio dire una cosa sbagliata e farsi ascoltare che non dire nulla. Molti allenatori di un tempo non sapevano nemmeno cosa fosse la pallacanestro, ma si facevano rispettare, i ragazzi credevano a quelle parole e diventavano più bravi a prescindere. Ricordo, da adolescente, uno dei miei primi allenatori usava sempre la stessa frase mentre si tornava in panchina: 'Quanti falli hai fatto?' 'Nessuno' 'Male, vuol dire che non hai difeso'. Tecnicamente non è un messaggio che oggi definiremmo corretto. Ma aveva il suo valore e il significato arrivava dritto in testa. Sembra anacronistico, ma la più alta forma di attenzione che possono avere gli atleti è quella di essere ripresi: siamo onesti, che valore può avere un giocatore che non è mai oggetto di cure, anche se alcune obiettivamente ruvide e spiacevoli? È la stessa differenza che esiste tra stare in campo o in panchina: chiedete ad un qualsiasi ragazzo/a se preferisce giocare sentendo l'allenatore urlare oppure stare seduto tranquillo al riparo da sgrida e rimproveri. Attenzione alle false profezie: non sono i metodi gentili che rivelano amorevolezza. Amorevolezza è portare alla luce, a volte forzando, ciò che è ancora invisibile.

giovedì 22 dicembre 2016

guerrieri solitari




Lottiamo. Spesso inconsapevolmente, lottiamo. Tutti i giorni, tutto il giorno. Natale e Pasqua compresi. Senza sosta. A mani nude. Contro il male, inferto a noi e fatto agli altri. E, incomprensibilmente, contro il bene. Contro noi stessi, di cui dovremmo avere maggiore cura. Contro i pensieri cattivi, che ci conducono su vicoli ciechi. Lottiamo. Contro la malattia, dove spesso ne usciamo sconfitti. Contro il dolore, che ci attanaglia e ci rende fragili. Contro gli incubi, diurni e notturni, di cui siamo spettatori indifesi. Lottiamo. Senza armi e senza gradi. Contro il ricordo di chi ci manca e di cui non abbiamo ancora spiegazione. Contro le ombre del passato, gli errori fatti e ripetuti, le occasioni perse e lasciate, le cose fatte e abbandonate. Contro le incertezze del domani. Lottiamo. Con le mani sul volante. Con le dita sulla tastiera. Con le pentole sul fuoco. Dietro una cattedra. Con un fischietto in bocca. Nelle piazze. Nelle strade. Nelle case. Nelle aule. Nelle palestre. Per un parcheggio. Per un sorpasso. Per una parola. Per un gesto, uno sguardo. Lottiamo. Pur esausti, non ci fermiamo. Contro gli anni, che inesorabilmente passano e ci ricordano della materia di cui siamo fatti. Contro la solitudine, che talvolta, però, ci viene incontro amorevolmente. Contro il tempo, di cui siamo amministratori ma che ci sfugge in continuazione. Guerrieri. Solitari. Nè più né meno. Senza trincee da scavare, fucili da imbracciare, divise da sfoggiare. Un esercito sparpagliato e disarmato perennemente in guerra. Piccoli e sconosciuti eroi che non avranno medaglie al collo. Ecco quello che siamo. E forse un giorno, chissà, ce la faremo.

sabato 17 dicembre 2016

luce nel buio

Incredibile Italia. Nel paese dove la scuola invita a mollare lo sport per lo studio; dove ai bambini tutto è concesso fuorché sudare e sbucciarsi le ginocchia; dove le olimpiadi non si possono fare perché ci sono cose più importanti; dove l'attività fisica non è stile di vita, bensì un lusso; ebbene, in questo paese è nata una stella. Una luce nel buio, ma non è Gesù bambino. Sofia Goggia, questo è il suo nome: si dice sia la nuova Deborah Compagnoni, anche se l'allenatore si guarda bene da fare confronti. Non propriamente astro nascente - a 24 anni solitamente si è già al top - ma quattro interventi alle ginocchia in sei anni hanno rallentato la sua ascesa e allo stesso tempo fortificato la mente. Si presenta così: " mia madre voleva tenessi le treccine, ma io mi tagliavo i capelli per giocare a calcio con i maschi ". Ha sempre fatto di testa sua, pagandone le conseguenze: gli infortuni sono anche frutto di spavalderia, come recentemente ammesso. Ora si dice più matura e consapevole. Usa il termine centratura, che significa, in sportivese, aver trovato il giusto equilibrio. Morale della favola: dopo cinque gare, cinque podi e seconda assoluta nella classifica di coppa. Per come la vedo io, è come una rosa nel deserto, come l'erba che si fa largo nell'asfalto, come una scala reale in una qualunque mano a poker. La bella notizia è che il talento nasce dove e come vuole e che non c'è niente che lo possa fermare: ne sanno qualcosa gli austriaci, nati con gli sci ai piedi, che nulla potevano contro il bolognese Tomba, emerso dalle nebbie padane per dare lezione ai detentori della specialità. Per fortuna non tutto viene deciso in laboratorio o attraverso pratiche estenuanti, anche il caso vuole la sua parte. La brutta notizia è che i governanti dello sport hanno speculato per anni su questi campioni, prendendosi meriti che non ci sono e perpetuando strategie - strategie? - politiche quasi sempre opposte alla formazione di nuove generazioni di atleti. Del resto, finché nascono fenomeni come Sofia, non c'è da preoccuparsi: la nazione darà sempre buoni frutti, avrà le sue coppe e medaglie. Il futuro è roseo: per una stella che si spegne ( Tania Cagnotto ) ce n'è un'altra che si accende. Federica Pellegrini è ancora in tiro. I conti tornano, come sempre. Che bisogno c'è di agitarsi?

martedì 13 dicembre 2016

bassa quota

La trovata delle quote non convince per niente. Quote rosa, quote giovani, quote italiani, quote bebè. È un'esplicita ammissione di fallimento. Non mi risulta che i premier donna di Germania e Inghilterra si siano giovate di qualche legge speciale: l'incarico è meritato. Lo stesso vale per i vari Moretti, Flaccadori, Candi e compagnia: non scendono in campo per concessione, ma per dare un contributo fattivo ai propri colori. Non credo che i vari Pillastrini, Buscaglia e Boniciolli siano così pazzi da rischiare la pelle per far crescere un potenziale talento per la pallacanestro italiana: se questi ragazzotti giocano, significa che sono all'altezza del compito. Esiste indubbiamente una componente di rischio: i giovani non hanno esperienza, non hanno ancora imparato a dominare le emozioni, non hanno autorevolezza presso gli arbitri. È lampante che se si vuole ottenere risultati immediati è meglio affidarsi a mani navigate che la sanno lunga di battaglie vinte e, ahimè, inevitabilmente perse. Quindi le domande sono due: quali sono le società che hanno tempo, che sanno aspettare, che non si fanno prendere dalla frenesia di ottenere tutto e subito? E poi, ci sono ancora ragazzi/e che hanno fame, disposti a sacrificare l'epoca dei divertimenti per un sogno che non è detto si avveri? Il futuro della pallacanestro è appeso al filo di queste risposte: non ci potrà essere ricambio se non ci saranno club e allenatori che credono nella virtù della pazienza e se non ci saranno nuove leve che con la bava alla bocca e gli occhi feroci faranno buchi nel legno pur di guadagnarsi il posto. Ho visto tanti, troppi ragazzi in possesso di grandi qualità arrendersi alle prime difficoltà, arretrare di fronte al prezzo del biglietto. Certo, è possibile che la strada si sbarri, che il vicolo diventi improvvisamente cieco: perché non provare? Perché non accettare l'idea, sportivamente intesa, di una possibile sconfitta? Perdere ancor prima di giocare non fa parte ( o almeno non dovrebbe ) del patrimonio genetico umano. Di fronte a un fatto compiuto: così dovrebbero trovarsi gli allenatori e le società quando investono sui giovani. Non si gioca per compassione o per obbligo, si gioca perché diventa impossibile non giocare. Le quote meglio lasciarle alle scommesse, dove il rischio fa parte del gioco.

giovedì 8 dicembre 2016

degenere sportivo

Avviso ai lettori: non sempre si può essere buonisti. Domanda del giorno: che cosa ci fanno i genitori ad una partita di pallacanestro? (Pallavolo, rugby, calcio, pallamano, ecc....) Visto che in molti sono trasecolati dopo l'ennesimo atto di violenza nei confronti degli arbitri ( per giunta minori ) l'indignazione, per quanto comprensibile, non è più sufficiente. È necessario indagare nei profondi meccanismi che scatenano reazioni ingiustificabili e animalesche. Non possiamo cavarcela solo con la condanna o la ricerca di soluzioni drastiche: per agire, occorre innanzitutto capire. Primo: si deve velocemente uscire dal luogo comune che vuole lo sport come ambiente protetto, immune a qualsivoglia forma di inciviltà dominante. Lo sport fa parte della società e ne è contaminato alla stessa stregua di altri settori di convivenza. È pura follia immaginare che ci si possa scazzottare per un parcheggio e non per una partita di calcio: cambia la scena, ma gli attori sono gli stessi. Secondo ( e qui mi gioco la reputazione ) : i genitori, per quanto in apparenza possano sforzarsi a dare un'immagine diversa, non vanno a vedere la partita, o la squadra che gioca, ma come se la cava il proprio figlio/a nel contesto di un evento sportivo. Ci vogliono enorme forza morale e ingenti dosi di autocontrollo per rimanere emotivamente ai margini in situazioni dove i propri figli/e sono coinvolti, pubblicamente, nel produrre il meglio di sé. In verità, gli arbitri sono spesso la punta dell'iceberg e i capri espiatori di un disagio più ampio, faticosamente contenuto: stress personali associati a delusioni o alte aspettative rappresentano un cocktail esplosivo con effetti deflagranti. Alcuni, forse i più avveduti, risolvono il problema tirandosene fuori: come i miei, ora sottoterra, che non finirò mai di ringraziare per non aver conosciuto nemmeno quale sport praticassi: un giorno, compiutasi la nemesi in quanto nonni, se ne andarono nel momento in cui il nipote uscì dal campo pensando che non sarebbe più rientrato ( tarli calcistici ). Terzo: bisogna farsene una ragione, allenatori e genitori hanno inevitabilmente visioni diverse. I primi hanno in testa il bene della squadra, i secondi, innanzitutto, il bene dei propri figli. Non è detto che le due anime entrino necessariamente in conflitto, ma ci vuole equilibrio, controllo e una certa dose di fortuna. Ci sono magnifici dirigenti ex genitori che costituiscono la colonna portante delle singole società sportive, ma sono spesso mosche bianche che faticano ad imporsi. Si fa tanto vociare delle aggressioni che subiscono gli arbitri, ma bisognerebbe trattare anche delle pressioni a volte subdole che devono subire gli allenatori per far quadrare il cerchio. Mi fermo: dopo queste parole, forse ci sarà un nuovo bersaglio su cui scaricarsi. Tanto sono vecchio, ho le spalle larghe.

sabato 3 dicembre 2016

mutazione genetica?

Cari allenatori, quando vi sentite impotenti, incapaci di trasferire il vostro sapere tecnico in una gestualità palesemente adatta ed efficace, non abbiatene a male. Non è colpa vostra. O almeno, non tutta. La specie umana sta mutando, ma contrariamente alla teorie evoluzionistiche di Darwin, non del tutto in meglio. I ragazzi sono svegli, loquaci, conoscono a menadito la carta dei diritti - un po' meno quella dei doveri - ma sono semi analfabeti per quanto riguarda il linguaggio motorio. Intendo anche gli atleti, quelli che affollano le palestre, che hanno un vissuto corporeo povero tale e quale ai coetanei che non frequentano discipline sportive. Da dove vengono? Da ore passate sui divani, con alto dispendio di energie nervose e con utilizzo smodato delle dita a svantaggio di tutte le altre parti anatomiche. Ci si fa male, si suda, è pericoloso, è faticoso, non c'è tempo: queste sono le controindicazioni che suggeriscono di stare alla larga da prati, parchi, alberi, fossati, palizzate, muretti. Attrezzi di fortuna per generazioni pre tecnologiche e che costituivano l'abc delle abilità cinetiche: inserire su queste basi un terzo tempo, una schiacciata o una punizione diventava un vero e proprio gioco da ragazzi. Qui sta la vera differenza tra apprendimento e addestramento: nel primo caso, si tratta di affinare ciò che è già in essere; nel secondo, si utilizza una forzatura - come nel caso degli animali al circo - dove in un impianto inesistente si creano degli automatismi ripetibili. Nell'apprendimento, la fantasia e la singolarità la fanno da padrone; nell'addestramento vincono  serialità e meccanicità. Non ho raffinate teorie scientifiche che possano suffragare questa tesi, al momento mi accontento della trentennale osservazione sul campo: gli alunni di ieri ( la scuola raccoglie ragazzi cosiddetti sportivi e non ) non sono quelli di oggi - non mi interessa se più o meno bravi - , presentano segnali preoccupanti sul piano delle capacità coordinative e, in genere, una certa difficoltà ad eseguire movimenti non solo complessi. A che serve avere piedi esplosivi se non so come usarli? Oppure un corpo statuario che non riesce a produrre un gesto armonico? Può sembrare una semplificazione, ma questo è forse il motivo principale di un movimento, quello sportivo, che sta conoscendo una fase stagnante. Ci sono molti più allenatori e anche più preparati di un tempo, ma i risultati sembrano andare in senso opposto. Dobbiamo tornare alle origini, ricreare quegli spazi vitali dove è possibile arricchire il patrimonio motorio attraverso attività libere ed esplorative. Qualcuno potrebbe obiettare: chissenefrega dello sport! Già, forse siamo solo noi, inguaribili amanti, a soffrire di queste paturnie. Ma qui non c'è in gioco solo lo sport, ma anche la salute dell'umanità. 

venerdì 2 dicembre 2016

tempo favorevole

L'ennesimo esonero. Siamo in serie A, normale amministrazione. Se vinci, sei un genio e vai avanti. Se perdi, sei un brocco e te ne vai a casa. Le scusanti non servono: società assente, americani sbagliati, organico ridotto all'osso. Il risultato è l'unico e insindacabile arbitro. Kurtinaitis potrebbe essere il migliore allenatore del pianeta - e forse lo è, chi può dirlo? - ma i numeri gli danno torto. È spiacevole dirlo, ci si fa una certa abitudine: è sbagliato, perché si dovrebbe essere giudicati su ciò che si è, sulla dedizione che spesso non trova adeguata corrispondenza nei fatti. Questi criteri di valutazione non dovrebbero esistere quando in gioco c'è la formazione di giovani giocatori: i risultati sono fuorvianti e, in genere, poco indicativi della qualità del lavoro svolto in palestra. Esempio: se c'è un reclutamento dei migliori prospetti, è probabile che la voce vittorie sia di gran lunga superiore a quella sconfitte. Tuttavia, la vittoria in sé non dice molto sulla preparazione dei giocatori e sul grado di miglioramento dei singoli e del gruppo. Lo stesso concetto vale all'opposto per chi ha lo zero in classifica: non è detto che si lavori male, che non ci sia una ricerca faticosa ma tenace di alzare la qualità dei giocatori a disposizione. Qual'è l'obiettivo? Visto lo stato di salute della pallacanestro italiana, allenare per vincere il trofeo dei rioni sarebbe come accontentarsi di imparare la lezioncina a memoria: siamo chiamati a qualcosa di più grande, a regalare giocatori adulti e autonomi che abbiano la fame di mangiare le caviglie di quelli che, al momento attuale, occupano le posizioni in cima. I campionati sono funzionali ai giocatori e i giocatori non sono funzionali ai campionati: se per vincere c'è bisogno di stravolgere il percorso di crescita anche di un singolo atleta, la pallacanestro - ma vale per tutti gli sport - subirà un torto incolmabile. Usare un ragazzo/a in età precoce in situazioni a lui favorevoli e che recano enorme vantaggio alla squadra può risultare fatale in un secondo momento quando le abilità fin lì dominanti non saranno più sufficienti. Ecco perché a livello giovanile, diversamente dai senior, occorre avere tempo. Se nei grandi il tempo è tiranno, per i giovani il tempo è il vero e unico alleato. Tempo e risultato sono inversamente proporzionali: nella fretta è impossibile costruire. Mi verrebbe da dire, a costo di essere blasfemo: una vittoria in meno per un giocatore in più. Ahi, l'ho detta grossa.

martedì 29 novembre 2016

chi la dura la vince

Tenacia. Termine intrigante e un po' in disuso: dalla radice tenere, stare incollato, avere forza adesiva. Se il talento è un dono di cui spesso non si è meritevoli, la tenacia non esiste in natura, va prodotta e si conquista sul campo giorno per giorno. Si diventa tenaci quando, pur consapevoli di essere inferiori, ci si batte con onore e coraggio. La tenacia ha un prezzo molto alto: più ci si ostina e più ci si fa male. Forse per questo non se ne vede molta in giro. È più semplice mollare, lasciare la presa, abbandonarsi fatalmente al destino. Perché perseverare se le cose rimangono così come sono, perché insistere se non si vedono cambiamenti? Perché provare e riprovare se non diventerò mai un giocatore di serie A? Perché perdere tempo, doversi assorbire ore di allenamento e dosi interminabili di urla se non esiste una meta reale e raggiungibile? Ecco spiegate le facce bastonate che ci capita di incrociare in campo, le spalle ricurve, i passi incerti, gli sguardi spenti, i sorrisi trattenuti. Ci si arrende ancor prima di iniziare, perché non ne vale la pena. Non vale la pena resistere, sopportare, soffrire. Siamo ormai fatti per stare in santa pace, per non essere disturbati, per tenere lontano da noi frustrazioni ed insuccessi. Meglio non farsi grandi aspettative, meglio rinunciare piuttosto che correre il rischio di rimanere delusi. Eppure la tenacia è un valore in sé: una sconfitta onorevole equivale ad una vittoria. Non ci sono solo numeri ad indicare la statura morale di una squadra: c'è coraggio, resistenza, senso di appartenenza, orgoglio. La rinuncia è peggio della sconfitta: non siamo fatti per nasconderci, come ha fatto codardamente Adamo nell'Eden, ma per metterci in gioco. Lo sport è forse l'ultimo approdo rimasto per imparare i fondamentali sani della vita: nulla è dovuto e regalato, non ci sono corsie preferenziali, nemmeno privilegi, tutto si conquista e si merita partendo dalla stessa linea. Non il talento, ma la forza interiore fa la differenza. Amo lo sport, perché, a differenza di altri posti, chi vuole arrivare può davvero farcela. Non ci sono filtri, non ci sono terzi, né bustarelle: l'unico giudice, severo ma giusto, rimane il campo. È proprio vero: chi la dura la vince.

domenica 27 novembre 2016

i care

Di cosa ha bisogno la pallacanestro? Di anima, passione, cuore. C'è bisogno che l'allenatore della squadra ultima in classifica si adoperi come se fosse in testa: stessa partecipazione, stessa ambizione, stessa professionalità. Non esistono ricette miracolose, non è possibile trasformare in oro ciò che è destinato ad essere argento o bronzo. Ma la vera opera d'arte, il vero capolavoro, sta nel dare il meglio di se stessi nelle situazioni più disperate e negli angoli più remoti della terra. Spesso ci si dimentica, colpevolmente, che i campioni non scendono dal cielo ma sono il prodotto finale del lavoro silenzioso e sotterraneo di chi si trova ai margini del successo: per un giocatore di serie A ci sono centinaia di compagni di squadra, di cui, magari oggi, si sono perse le tracce. Non ci sarebbe stato Danilo Gallinari senza le decine di sconosciuti compagni di viaggio che oggi riempiono le liste dei campionati minori e che si divertono a cena a raccontare una storia diventata epica grazie anche alla personale partecipazione dalle retrovie. Non si può chiedere ai giocatori di lottare se gli allenatori, per primi, gettano la spugna. Le piccole cose, come sempre, fanno la differenza: arrivare puntuali, preparare il piano di lavoro, inventare situazioni nuove, coinvolgere tutti senza distinzione, non smettere mai di correggere. La correzione è il regalo più grande che un allenatore fa ai propri giocatori: sarebbe più facile e meno costoso tacere, far finta di niente, lasciare che gli errori scorrano a fiumi fino a compromettere lo sviluppo tecnico di ciascuno. C'è una bella differenza tra correzione ed umiliazione: nel primo caso l'obiettivo è la costruzione, nel secondo la distruzione. Tutto questo vale anche nel caso, purtroppo frequente, che un giocatore non possa o, peggio, non voglia cambiare le cattive abitudini. Sapere, saper fare, saper essere: tutte caratteristiche indispensabili, ma la più importante è l'ultima. Possiamo anche non conoscere perfettamente la materia, possiamo anche sbagliare nell'agire, ma non ci è concesso non essere veri. I giocatori perdonano tutto, fuorché l'indifferenza. ' I care ' ( mi interessa, ho a cuore ), diceva Don Milani: se qualcosa cattura la nostra anima, non c'è errore che valga.

giovedì 17 novembre 2016

consensualmente

Gentile è Gentile. Un pezzo più unico che raro, il più pregiato ancora rimasto dentro i confini. Gentile ha cazzimma - vocabolo non traducibile se non assimilabile a quell'insieme di proprietà mentali ed emotive riconoscibili, sinteticamente, come attributi - dote spesso carente nei giocatori italiani. Gentile è completo: ha una struttura fisica imponente, fa canestro in tanti modi - in penetrazione, spalle a canestro, ultimamente un po' meno dal perimetro ( ma perché ha cambiato il suo tiro? ) - si procura un sacco di falli, prende rimbalzi, smazza assist e se vuole difende. Gentile, almeno come giocatore, non si discute, da allenatore lo vorrei sempre dalla mia parte. Essendo l'ultimo degli eroi sopravvissuti in patria, è triturato quotidianamente dai riflettori mediatici: un tempo, quelle poche attenzioni che la stampa e le TV strappavano al monopolio calcistico venivano equamente divise tra tutti. Oggi, se si vuole parlare di qualcuno, è inevitabile imbattersi nel figlio di Nando, schiacciato, tra le altre cose, dal dovere di essere all'altezza del blasone dinastico. Gentile è scontento: lo si legge in faccia e dalle parole circostanziate che smista ai cronisti affamati di scandali. Soprattutto è il campo, da sempre giudice obiettivo, a togliere qualsiasi dubbio sui livelli alti di insofferenza. C'è una regola, che vale dal minibasket all' NBA e non solo nella pallacanestro: se non si è soddisfatti di dove ci si trova, è meglio cambiare aria. Non ho mai capito, sinceramente, per quale motivo le società sportive si debbano impuntare nel trattenere giocatori controvoglia: succede dappertutto, anche da noi, anche nelle giovanili. Sembrano quelle scenate di gelosia infantile che non portano a soluzione se non a rotture definitive e insanabili. Come dice il poeta genovese, un amore che strappa i capelli è perduto. In un gruppo, come può essere una squadra, l'infelicità di uno condiziona irreparabilmente l'umore di tutti: lo sanno quelli del canottaggio, se qualcuno non rema come gli altri, la barca non può procedere spedita. E non saranno i soldi generosi di Armani a riportare il sorriso al nostro giovane campione: avranno il potere di ricordare i suoi doveri di professionista, ma non di scaldargli il cuore. Anche da inguaribile tifoso, e con amarezza, è giunto il momento di ammettere che, per il bene di tutti, sia giusto che le strade si separino. È bene che sia Gentile che l'Olimpia possano seguire i loro sogni. Senza conflitti. Consensualmente. 

martedì 8 novembre 2016

terapia d'urto

Repesa ha ragione. Anzi, ragionissima. Coraggio da vendere. Molto da perdere. Cos'ha guadagnato dal suo sfogo? Niente, a parte qualche consenso non propriamente sincero di alcuni colleghi che ambirebbero a stare al suo posto. Ai giocatori non avrà di certo fatto piacere; alla società nemmeno, se è vero che Proli condivide tutto ma non l'esternazione pubblica del messaggio - che è un modo per dire, formalmente e aggraziatamente, che non ha gradito -. A me, povero e insignificante mortale, è invece piaciuto, eccome. Come, anni fa, quando Trapattoni a Monaco scosse il video puntando il dito e scaricando la voce sui giocatori pigri e immeritevoli. Quante volte capita di sentire un allenatore, durante un'intervista o una conferenza stampa, dire pane al pane e vino al vino? Uscire dalla sacralità dello spogliatoio, dal populistico e ipocrita lavarsi i panni in casa quando, nei fatti, tutti ormai, anche i bambini, possono accorgersi che esiste qualcosa nel meccanismo che non funziona. È probabile, anzi quasi certo, che i vani tentativi di risolvere il caso in privato abbiano lasciato il posto alle maniere forti di trattare, come estrema ratio, la vicenda in ambito pubblico. Qualcuno mi spieghi: forse i giocatori devono godere di un'immunità diversa dagli altri esseri umani? Sono considerati lavoratori speciali, per cui se non fanno il proprio dovere,  beneficiando tra l'altro di lauti e impopolari compensi, vanno difesi ad oltranza comunque e ovunque? Repesa ha parlato di piegamento sulle gambe che è la prima cosa che si impara in palestra: sarebbe come chiedere ad un'infermiera di fare un'iniezione o ad un cuoco di preparare un piatto di spaghetti. È un insulto alla collettività, prima ancora che all'allenatore, che giocatori di questo rango abbiano un comportamento indolente in campo: presunzione? Superbia? Rancore? Comunque sia, inaccettabile. Qualunque bambino/a o ragazzo/a ha bisogno di immedesimarsi in un modello sportivo: gli eroi, che io sappia, si sacrificano, cadono e si rialzano, lottano e si sbucciano, e poi, tra le altre cose, fanno anche canestro. Non ne ha bisogno, ma un consiglio al coach, da tifoso Olimpia, mi permetto di darlo: metta in campo Cerella, che oltre ad appagare gli occhi femminili, è forse l'unico che si dimentica e si disinteressa, mentre gioca, di proteggere la propria incolumità. Forse il solo della compagnia contento di giocare senza pensare al tabellino. Terapia d'urto: di solito si usa con le giovanili, probabilmente qualcuno non è ancora cresciuto.

venerdì 28 ottobre 2016

nè eroi nè falliti

' Quanto al raccapricciante atteggiamento delle frange intellettualmente più deboli della tifoseria italiana ( si parla di calcio ), giova ricordare che ad esse è totalmente mancata la mediazione culturale che fa la scuola nei confronti dello sport.' Parola di vate, al secolo Valerio Bianchini. Mi trovo quasi sempre in sintonia con il sommo; stavolta ho colto una nota stonata e, un po' per dovere e un po' per orgoglio, non voglio frenare la mia indole ribelle. Sono trent'anni che lavoro nella scuola - o meglio, che ci provo - e non passa giorno, ora, minuto, senza un confronto con gli adolescenti, il più delle volte aspro, sul rispetto dei valori umani e civili. Una battaglia incessante, senza esclusione di colpi, tra lancio di sassi da una parte e bombe atomiche dall'altra. Insegno in una scuola professionale, dove la mission di un insegnante si riduce spesso a portare in salvo, al suono della campana, il proprio deretano. Devi essere buono dentro e cattivo fuori: buono, perché non puoi odiare chi è nel bisogno, cattivo perché devono riconoscere una guida forte e sicura. Non posso sapere, se non al tramonto terreno, quanti giorni di vita - e con me tanti altri colleghi - ho lasciato sul campo per far convivere durezza e comprensione, severità e affetto. La popolazione professionale, sportivamente parlando, è di maggioranza calciofila: per uno spasimante del basket come il sottoscritto, la dantesca legge del contrappasso perfettamente riuscita. Conosco i miei polli e lotto duramente contro la  improduttiva e fuorviante formazione antisportiva di cui sono vittime: simulazioni, vizi, pigrizie, proteste, polemiche gratuite. Repertorio tipico del mondo del calcio e che purtroppo sta avanzando minacciosamente verso altri settori sportivi non più incontaminati. È una maleducazione diffusa, che parte da lontano, che ha in cattivi esempi la propria linfa e che si esprime spesso nell'arroganza verbale e, nel peggiore dei casi, nella violenza fisica. Forse la scuola non fa molto, ma fa la sua parte. Non mi sento un eroe, giammai, ma nemmeno un fallito. E non mi sento responsabile, se non come tutti, - spiacente caro vate - di ciò che dicono e fanno le curve negli stadi. Molti di questi ragazzi le scuole non le hanno viste o le hanno abbandonate in fretta. Piuttosto vedrei meglio una task force con unità d'intenti, dove, oltre alla scuola, anche le famiglie, le istituzioni e le associazioni non deleghino con facilità ma si assumano parte della responsabilità formativa. Perché, per fare un uomo, un uomo civile, ci vogliono tante componenti e, se possibile, in relazione tra di loro. Pensare alla scuola come unica ancora di salvezza significa aver perso ancora prima di giocare. E a Valerio Bianchini, come a tutti, non credo piaccia perdere.


martedì 25 ottobre 2016

gioco pericoloso

Morire di gioco. Anzi, morire giocando. Un paradosso: il gioco è sinonimo di vita, libertà di espressione, salute, benessere, gioia. Eppure avvengono tragedie di continuo e che spesso e purtroppo ci interpellano da vicino. Fatalità o incidenti evitabili? Lo sport attuale ha raggiunto livelli di sostenibilità sempre più elevati: l'enfatizzazione sulla componente atletica richiede inevitabilmente un'idoneità su prestazioni di alto dispendio energetico. La pallacanestro di oggi non è nemmeno parente, per ritmi ed intensità di gioco, a quella che si praticava trent'anni fa: sforzi continui e massimali, pause ridotte, velocità raddoppiata di spostamento dei giocatori e della palla. La famosa certificazione medica agonistica richiesta annualmente all'atleta non è in grado di garantire pienamente che un giocatore sia in grado di iniziare e terminare una partita senza conseguenze: il cosiddetto test sotto sforzo non è minimamente paragonabile alla fatica che deve compiere un atleta in situazione di stress fisico durante un normale match di pallacanestro. Vero anche che gli allenamenti a cui gli atleti sono sottoposti possono rappresentare un buon indicatore di quale sia il livello fisico di sopportazione dei singoli e della squadra. In pratica, se non ci sono segnali di cedimento durante la settimana, impossibile, o quasi, possano comparire in occasione delle dispute agonistiche. La partita, da par suo, può aggiungere una forte componente emotiva con indubbia incidenza sull'apparato cardio-respiratorio. Esiste poi un aspetto, fondamentale e delicato, di pronto intervento: non tutti i campionati, soprattutto giovanili, dispongono di un medico a bordo campo; non tutte le palestre sono munite di defibrillatore e, nel caso lo fossero, non è certo che esista un operatore presente in grado di saperlo usare. Un conto è fare un corso su manichini, un altro trovarsi in una situazione reale con poco tempo a disposizione e con una gravosa responsabilità da gestire con sangue freddo. Le temperature basse di alcune strutture possono diventare un ulteriore elemento di complicazione: non dimentichiamo che il palazzetto di Gorizia - dove Matteo Molent giocò la sua ultima partita - si presentava come un'autentica ghiacciaia. Detto questo, rimango dell'idea che in questi eventi drammatici la componente di casualità sia molto alta. Per quanto si cerchi, come è giusto è logico che sia, di prevenire e intervenire, non sempre è possibile prevedere, agire, risolvere. Non è per sollevare da responsabilità oggettive, che potrebbero anche essere accertate, ma certe cose succedono, e non solo sui campi di basket. È davvero tragico che capiti a ragazzi appena sbocciati alla primavera della vita mentre praticano la cosa più bella al mondo. Purtroppo la signora della morte non fa distinzioni: per lei siamo tutti uguali.

lunedì 10 ottobre 2016

fuoco sacro

Imperscrutabile, avvolto di mistero. Guardato con sospetto, come se fosse un'anomalia, un difetto da correggere. Mi riferisco al fuoco sacro, o sacro fuoco, dove sostantivo e aggettivo possono convivere in un modo o nell'altro, secondo gusti personali o musicalità letteraria. Tutti, indistintamente, abbiamo una caldaia installata nel cuore. Possiamo bruciare, come dice Elisa, e allo stesso tempo freddarci. Possiamo elevare la temperatura ai massimi livelli oppure spegnerci. Dipende, si dice così (che orribile espressione), dall'oggetto delle nostre azioni. Un giocatore, un atleta, dovrebbe ardere sempre, come il roveto di biblica memoria. Mantenendo il controllo della mente, consumandosi di continuo in campo. Rino Gattuso era così. Dino Meneghin era così. Amati e odiati allo stesso tempo, perché quando si è innamorati di una maglia si è inevitabilmente schierati. Chi ha fuoco sacro dentro non guarda alle conseguenze: agisce e basta. Pensa solo a ciò che è giusto fare in quel momento. Non pensa alla vittoria o alla sconfitta, pensa solo a giocare e dare il massimo per se e per gli altri. Non si risparmia, non cerca alibi, non perde tempo a protestare, rimane sul pezzo. Non si avvilisce se le cose vanno male, non si esalta se funzionano. Il suo cuore continua ad ardere e tutto ciò che succede intorno ha un valore relativo. Come allenatori abbiamo l'obbligo di insegnare la tecnica del gioco ma non dispensati dal gravoso compito di tirare fuori tutto ciò che c'è dentro nei giovani che ci sono affidati. Se vedono bruciare noi, bruceranno anche loro. Se noi abbiamo a cuore ciò che facciamo, anche loro non potranno evitare di mettersi a disposizione. Che piangano quando c'è da piangere e che gioiscano quando è necessario: le emozioni non sono altro che il linguaggio del cuore. Che sbottano qualche volta: significa che dentro non c' è il vuoto, che le parole hanno trovato un bersaglio. Non diventeranno campioni, forse, ma in ogni cosa che faranno saranno riconosciuti per tenacia e generosità. Possiamo insegnare ad un robot a fare canestro, ma non a tuffarsi per recuperare un pallone: perché il cervello porta a conservare, il cuore a sacrificarsi. Certe cose non si insegnano. Certe cose si fanno. E non sappiamo bene il perché. 

chi si accontenta non gode

Voglio dare una lettura diversa e provocatoria sul perché i giovani italiani faticano a fare le scarpe ai vecchietti e agli stranieri di turno. Davvero i nostri ragazzi sono così ambiziosi? Davvero scalpitano e spingono per ottenere un posto al sole? Mi tengo il beneficio del dubbio in attesa che i fatti mi diano piacevole smentita. Faccio sport da quando sono nato perciò non posso avere un'idea negativa del termine ambizione che, in questo ambiente, viene spesso accostato, come sinonimo, a competizione. Ambizione e competizione sono le due facce della stessa medaglia che tanta paura fanno ai detrattori del pianeta sportivo: un certo retaggio culturale, tipicamente italiano, spinge ad avere ritrosia verso tutto ciò che comporta conquista, lotta, selezione. Come se il mondo fuori delle palestre o dei campi sportivi ne fosse totalmente immune. Non può esistere sport senza ambizione, nemmeno senza competizione. Chi corre da solo per strada compete con se stesso cercando di spingersi oltre i propri limiti. Chi gioca in una squadra compete con gli avversari per avere la meglio in una disputa di orgoglio e bravura. L'ambizione è il carburante, la molla che spinge l'atleta a raggiungere i propri sogni. Un giovane senza ambizione è come un uccellino che non vuole uscire dal guscio: è qualcosa di incompiuto, paradossalmente per non correre rischi si espone a maggiori pericoli. Se si vuole crescere occorre misurarsi con difficoltà, frustrazioni, conflitti, avversità di ogni tipo: l'immagine di chi arriva in alto senza sgomitare e sbucciarsi le ginocchia o per meriti divini appartiene alle favole e alle proiezioni di romantica memoria. Ho come l'impressione che le giovani generazioni spesso si arrendano prima ancora di iniziare: un utilizzo sconsiderato e comodo della bandiera bianca come autodifesa. Per questo provo un certo piacere nel vedere quelle poche eccezioni alla regola di ragazzi sfacciati che sfidano la sorte affidando i propri sogni alla fatica e al sudore nel tentativo di raggiungere la meta. Per quanto possa sembrare presunzione o arroganza, chi si mette alla prova dimostra di avere l'atteggiamento giusto: nello sport la sfrontatezza è d'obbligo, chi si accontenta non gode. Che male c'è nel provare? Indietro si può sempre tornare, non sempre si può andare avanti.

lunedì 26 settembre 2016

ragazzi di vita

Non mi scandalizzo più, ormai. Per quanto i numeri, essendo freddi e neutri, raccontano solo una parte di verità, forse nemmeno la più importante. 6 giovani su 10 rimangono con i genitori fino ai 35 anni. Sono sinceramente più spaventato dall'idea di invecchiare assediato da problematiche che speravo aver lasciato definitivamente alle spalle: per quanto l'idea di futuro sia affascinante, comporta qualche controindicazione, in special modo incertezza e conseguente angoscia. Non ho né le capacità né la voglia di farmi complice di una situazione che è anomala e, diciamolo senza timore, tipicamente italiana. A tal proposito, interessante il siparietto fra i giornalisti e Frank De Boer: 'Giovane? Uno non è giovane a 24 anni. Si è giovani a 18-20' marcando un netto distacco tra la percezione nostrana e quella oltralpe. Piuttosto mi disturba la banale equazione permanenza=dipendenza economica che viene strombazzata ovunque come unica spiegazione del teorema. Nessuno discute che ci sia un problema di occupazione giovanile in Italia e che le attenzioni politiche su questi temi siano spesso inefficaci o insufficienti. Discuto invece sul concetto stesso di autonomia che, oggi più che mai, è in crisi sul piano culturale più che sociale. Ho un'idea elementare in testa: è autonomo colui che riesce a risolvere, e non a porre, i problemi. I nostri ragazzi non escono di casa non solo e non tanto perché sono senza soldi, ma perché non hanno ancora imparato a prendere decisioni e fare scelte senza dipendere da altri. È un sistema culturale, non sempre intenzionale e con le famiglie in primis - ma non solo! -, che rallenta la maturazione dei giovani. Sostituendosi nelle scelte e nella risoluzione dei conflitti non si fa altro che ritardare l'ottenimento dello status di adulto, che significa cresciuto, compiuto, portato a termine. In questo processo vizioso hanno enormi responsabilità persino la scuola quando accetta ultra ventenni in classe e lo sport che per far giocare i non più giovani inventa campionati che non hanno più senso di esistere. I ragazzi respirano l'assenza di fiducia e la paura di futuro che trasmettono le generazioni precedenti: forse dovremmo smetterla, come dice Vasco, di combattere tutti contro tutti, quasi sempre per motivi futili. L'indipendenza economica è dipendente - mi si passi il gioco di parole - da quella esistenziale: un ragazzo pieno di vita e con energia addosso ce la farà. Sempre.

giovedì 22 settembre 2016

passo e chiudo

Giuro - anche se non posso farlo sui miei figli - che questa sarà l'ultima volta. Chi deve scrivere ne ha piene le tasche, figurarsi chi deve leggere. Non sarà certo un insignificante personaggio della periferia italiana con il vizio della penna - ahimè oramai della tastiera - a determinare le sorti della nazione o a far cambiare idea ai governanti. Ribadisco - fino a sembrare noioso - che non covo interessi politici: giudizio immutato se ci fossero stati Berlusconi o Renzi al posto di Raggi. Non ho tessere, non ho padrini, non ho nemmeno vocazione e tantomeno ambizione. E mi piacerebbe che su questi temi si discutesse a mente libera fuggendo da sterili schieramenti. E non si s/ragionasse di pancia, come purtroppo si sta facendo. L'impressione è che a dominare la scena sia la paura: c'è davvero da preoccuparsi se questo comportamento timoroso rappresenta la genesi dell'amministrazione pubblica del futuro. Detto in parole povere, meglio non fare che rischiare di far male. Visto che parliamo di sport, da allenatore conosco bene questa non strategia: piuttosto di sbagliare un tiro, preferisco rinunciarci. Ottimo sistema per l'autocensura: a chi può servire un giocatore che decide di non giocare? Caro sindaco ( non mi piace la desinenza al femminile ), lei parla di irresponsabilità: ma è responsabile - scusi il gioco di parole - non prendersi responsabilità? Lei si è tolta un peso di dosso, accontentando le bocche degli 'affamati', ma ha valutato la ghiotta opportunità di dare un segnale forte al modo di fare politica? Perché non dimostrare alla vecchia nomenclatura che il nuovo si basa su fatti concreti e non su parole, sospetti, rinunce? Lasci che le dica, da vero amante dello sport, che non me ne frega niente delle medaglie e dei fenomeni che le indossano: mi interessa invece che i bambini, i ragazzi di oggi e di domani abbiano palestre, orari e attenzioni speciali per fare attività motoria. Benvenute Olimpiadi, se avessero dato ossigeno ad una dimensione della vita umana relegata ai margini della società: esagero? Si faccia un salto nelle scuole per capire quanto conti l'attività fisica. Riempirsi poi la bocca con frasi di circostanza del tipo ' nessuno c'è l'ha con lo sport ' sono capaci tutti e non costa proprio nulla. A sessantatré anni - questa sarebbe la mia età olimpica - forse non sarò nemmeno in grado di intendere e di volere, ma ora so che i figli e i figli dei figli vivranno in un paese che non ha coraggio di cambiare. Perché il cambiamento non si fa restando fermi. Ora ho davvero finito. E sono sfinito. Qui zero, passo e chiudo. 



venerdì 16 settembre 2016

materia prima

Il ragionamento di Vincenzino Esposito non fa una grinza. Che poi non è la prima volta che salta fuori. Parlare - in gergo sportivo - di giovani a ventidue anni è senza dubbio un paradosso. Anzi, per chi ha esordito in serie A da quindicenne suona quasi come un insulto. Per non andare troppo lontano - geograficamente intendo - anche un certo Domenico Fantin esordì a soli sedici anni con la  Postalmobili nell'anno della promozione dalla B alla A. Ma erano altri tempi: non esisteva l'esercito di stranieri che oggi invade - spesso ingloriosamente - i campi di gioco e che necessariamente impedisce al contingente italico di avanzare. Inoltre, non si usavano campionati tardo giovanili come paravento - l'under 20 di oggi per capirsi - perciò l'iniziazione, a volte brutale,  avveniva con largo anticipo sui tempi. Ma il vero motivo sta altrove ed è di origine culturale: sembra banale, ma i ragazzi di oggi invecchiano più tardi di quelli di ieri. Non è una affermazione di valore, è pura e semplice constatazione. Avete presente la pellicola che protegge lo schermo dei cellulari? Ecco, i nostri ragazzi hanno addosso quella pellicola. Non si sporcano, non si graffiano, se cadono non si rovinano. Si è creato intorno a loro un corpo gelatinoso che li tiene lontano dalle brutte esperienze. Gli adulti sono talmente spaventati - anch'io fra questi - che preferiscono soffrire piuttosto che far soffrire. La frustrazione non è più concepita come tappa di un processo, ma come spauracchio da evitare. La paura non è più un'emozione che rientra nella normalità, ma è una malattia da cui vaccinarsi o, alla peggio, guarire in fretta. La verità è che i ragazzi, se non obbligati, sono ben felici di non crescere: la sindrome di Peter Pan ha invaso tutti gli ambienti. Fate un salto alle scuole superiori per rendervi conto quanti giovanotti vi parcheggiano: con il principio, peraltro giusto, che l'istituzione scolastica debba accogliere tutti, siamo arrivati alla patologica applicazione che molti non hanno nessuna fretta di andarsene. Sarà solo il mercato del lavoro saturo? Spiacente Vincenzo, in questo clima è impossibile avere un sedicenne in squadra. Forse è cambiato il compito dello sport: aiutare i ragazzi a diventare grandi. Perché è l'unico ambiente che non vive di filtri - se non qualche genitore ansioso e paranoico. Le sconfitte sono sconfitte, le vittorie sono vittorie. Giochi male, panca. Giochi bene, campo. Agli allenatori oggi è richiesto, più di un tempo, di crescere uomini più che giocatori. Troppo facile e troppo bello avere il pezzo pronto. Oggi c'è solo materia prima.

lunedì 12 settembre 2016

una rete in sorte

Eccezione alla regola. Costretto dalle mie fissazioni malate ad un profilo basso, ho tenuto fino ad ora la tromba dentro la custodia. Il caso Schwazer mi ha allontanato e raffreddato da facili celebrazioni di imprese ed eroi olimpici: un crimine sportivo sopra il quale si è continuato bellamente a ballare. Del resto, se nella città dei fiori di fronte ad un vero suicidio si è andati avanti con lo spettacolo, figurarsi davanti ad un ex dopato con smania di rivincita. Giada Rossi fa eccezione. Non tanto e non solo in quanto conterranea. La sua è una straordinaria - e al tempo stesso ordinaria - storia di redenzione. Che va raccontata. Di chi ha avuto dal destino una schiena spezzata, ma anche una ferocia e voglia di lottare fuori dal comune. È sufficiente osservarla - quando la Rai ce lo permette - con la racchetta in mano per capire: smorfie, esultanze, sbuffi, pugni chiusi, occhiatacce. Un vulcano in continua eruzione, un concentrato di mille emozioni racchiuso in pochi scambi decisivi. In tre parole: furore agonistico estremo. Alla faccia di chi pensa che alle paraolimpiadi si giochi per partecipare o si partecipi per gioco. D'altronde, come sarebbe possibile scherzare dopo anni passati in clinica, tra operazioni e strumenti ortopedici, riabilitazione e solitudine. Come sarebbe possibile lamentarsi per le temperature, gli alberghi, gli stipendi, i trasporti, come fanno gli atleti considerati normali. Giada si è trovata al bivio: mettere la rabbia - perché di questo si tratta - al servizio di messer vittimismo, oppure usarla per inseguire i propri sogni. Ha scelto la seconda via. Sognava di diventare campionessa di pallavolo: lo è diventata nel ping pong. In fondo, c'è sempre una rete di mezzo. Una rete in comune. Una rete in sorte.

venerdì 9 settembre 2016

sono giovani...

Mi rituffo ancora, stavolta con coefficiente di difficoltà alto, nella nota querelle Roma Olimpiadi. A costo di sembrare noioso e ripetitivo. Con un'avvertenza: sto cominciando ad arrabbiarmi. Non capisco, e non mi piace, questa pseudo idiosincrasia populista. Non capisco, e non mi piace, che lo sport e tutto ciò che gli è affine debba essere considerato come l'ultima ruota del carro. Non capisco, e non mi piace, che a guidare la mano dei governanti ci sia la paura di sbagliare e non la voglia di scommettere. Qualcuno si è chiesto come mai la Gran Bretagna a Rio abbia superato la Cina posizionandosi solo dietro al rullo USA? A nessuno viene in mente che possa esserci stato un effetto Londra in un risultato così brillante? Le medaglie non sono frutto del caso, - in Italia un pò di più purtroppo - rappresentano la punta di un iceberg voluminoso e solido. Come dice Campriani, che non se ne intende solo di pistole e fucili, l'effetto collaterale dei Giochi in Inghilterra è stato impressionante: a parte le strutture, l'attività motoria ha ricevuto un impulso considerevole, e soprattutto, capillare. È sufficiente aprire gli occhi per capire che la popolazione italica non è certo affetta di sindrome da eccesso di movimento. Spiace dirlo - e il punto di osservazione è sufficientemente credibile - ma la percentuale di ragazzi sovrappeso o con cattive posture e abitudini sta aumentando di anno in anno: l'abbandono precoce e le sirene della vita sedentaria stanno mettendo a dura prova la salute delle nuove generazioni. Visto che si parla spesso di costi, vogliamo aumentare le patologie così da riempire gli ospedali e mettere in ginocchio la già sofferente sanità pubblica? Lo ripeto per l'ennesima volta: le olimpiadi non rappresentano esclusivamente la passerella di quattro campioni idolatrati e iperfotografati. Sono anche una vera opportunità per lanciare una grande campagna dove l'attività fisica non sia un privilegio di alcuni, ma patrimonio di tutti. La cosa che mi manda su tutte le furie è però un'altra: mettere in contrapposizione due necessità per sceglierne una facendo leva sugli umori collettivi. Più importante e urgente costruire un asilo piuttosto che una palestra. E costruirli entrambi evitando altri sprechi? Fatemi capire: palazzinari e infiltrazioni mafiose compaiono di colpo solo in queste circostanze? E dare un'immagine al mondo e a noi stessi che siamo in grado di fare e organizzare  in modo trasparente e irreprensibile farebbe schifo? Mi spiace, io non mi accodo al coro demagogico " ci sono cose più importanti ". Mi chiedo, ormai in declino fisico, cosa ci sia di più importante della salute dei cittadini. L'unica risposta che so dare: sono giovani....

mercoledì 7 settembre 2016

operazione scuole pulite

Alcuni ci hanno provato. A dissuadermi. Ma la proverbiale indole da piantagrane autolesionista non mi permette di tacere. La preside, finalmente, è in castigo, dietro la lavagna. Finalmente abbiamo un colpevole. Finalmente gli istinti più viscerali della piazza - virtuale e non - hanno trovato appagamento. Una vittima non può rimanere senza carnefice, ecco dunque una testa servita sul vassoio. Basterà a placare gli animi assetati di vendetta? Nel mio girovagare tra le scuole come semplice insegnante non ho mai ambìto a frequentare i piani alti: non ho quindi motivo nè interesse a difendere un dirigente, ma quello che vedo e che sento ha poco a che fare con le mostrine e le stelle. Parliamo di responsabilità o, meglio, utilizzando un termine tecnico legale, di concorso omissivo in atti persecutori. Il bullismo, senza volerne sminuire i devastanti effetti, è un fenomeno sempre esistito. Alzi la mano chi non ha mai subìto angherie o sfottò da coetanei strafottenti, a volte anche con conseguenze a livello fisico. Ciò che manca oggi è la capacità di difendersi, anche perché spesso, se non sempre, l'interlocutore non è a portata di tiro ma compare in forma indiretta ed incorporea e per questo non decifrabile. A costo di sembrare di retroguardia, non ho timore nell'affermare che i cellulari, per i ragazzi, sono delle trappole utili solo a ruminare angoscia e rabbia: un messaggio ricevuto, senza una mediazione fatta di sguardi e voci, può avere un effetto deflagrante in un minore che non conosce strumenti di codifica. Lo stesso vale per i social network: la frustrazione e la cattiveria spesso sprigionata possono condurre a comportamenti folli e irrazionali. Questa battaglia virtuale, per quanto possa nascere all'interno di un contesto scolastico, si svolge su altri terreni, sconosciuti e inviolabili. Ci sarebbe dovuta essere maggiore vigilanza? Forse sì, forse no. Vorrei che si parlasse di vigilanza condivisa, dove l'ambiente scolastico rappresenta una parte e forse nemmeno la più importante. E vorrei che il rispetto fosse dato a tutti i minori, perché la cattiveria si impara: come afferma Rousseau, la natura innocente del bambino deve fare i conti con la corruzione della società adulta. Questa moderna caccia alle streghe non mi rappresenta. Pensiamo di aver risolto il problema sostituendo una pedina con un'altra? Trovare il colpevole significa aver sconfitto il bullismo? Se le famiglie e la scuola staranno sempre su barricate opposte, questo sarà solo il primo di mille casi a seguire. Trasferiremo tutti i presidi? Licenzieremo tutti gli insegnanti? Abbiamo già il nome: operazione scuole pulite.

lunedì 5 settembre 2016

imperfetto è perfetto

Esiste l'allenatore perfetto? Dico questo perché sento spesso parlare di giocatori o atleti che scelgono da chi farsi allenare. Ad alti livelli agonistici può essere lecito - vedi tennis atletica o nuoto, sport individuali in genere - anche se rimane uno spazio d'ombra con cui fare i conti: se il trainer non corrispondesse al genere atteso e voluto, che si fa? Altro giro, altro regalo? Federica Pellegrini ne sa qualcosa. Il consumo di allenatori è uno degli aspetti critici dello sport moderno: in quello antico, praticato dal sottoscritto per capirsi, l'allenatore - un po' come il maestro - era incontestabile e inamovibile. Nessuno si sarebbe mai permesso di chiedere un colloquio, tantomeno la testa su un vassoio: regnava un tacito patto educativo con divisione netta delle competenze. Non dico fosse meglio, mi limito ad esporre i fatti: sfido chiunque a dire il contrario. L'allenatore di oggi deve dare sfoggio di eclettiche virtù: competenza, conoscenza delle lingue, capacità didattica, doti relazionali, amore per la professione. Se uno di questi aspetti fosse carente, si accenderebbe la lampadina. Quell'allenatore è troppo severo, i ragazzi non si divertono; quell'altro è troppo buono, la squadra è moscia e non vince mai. Il terzo ha una conoscenza enciclopedica della disciplina ma non sa rapportarsi umanamente. Il quarto è una brava persona, i ragazzi lo amano, ma non insegna un fico secco. E così via, una catena infinita di modelli che indossano capi con difetti di produzione. Ho una teoria originale, maturata durante una carriera modesta ma di lungo corso: imperfetto è perfetto! L'imperfezione - che tra l'altro é tutto da dimostrare sia un abito negativo - suggerisce e stimola una reazione contestuale che colmi il difetto. Un esempio? Sarà il talento dei ragazzi a coprire il deficit tecnico dell'allenatore. Pensiamo davvero che i campioni escano solamente dalle mani dei tecnici più bravi e gettonati? Ma per favore....Lo stesso discorso vale per gli allenatori capaci ma bruti: non saranno le urla o i rimproveri a fermare le motivazioni di chi ha un sogno in testa. Insomma, c'è come una forma di compensazione tecnico atleta dove insegnamento e apprendimento si mescolano a vicenda. È possibile che bravi allenatori producano buoni atleti ma è vero anche il contrario. Non ammetterlo sarebbe una grande ipocrisia. Ammetterlo, una bella e corroborante dose di sana umiltà. 

martedì 30 agosto 2016

sfiancati e felici

Mi trovo in perfetta sintonia con il vate, alias Valerio Bianchini, quando afferma 'se volete divertirvi andate a Gardaland'. L'accostamento sport-divertimento può essere fonte di malintesi, non solo per chi fa agonismo, ma anche per chi compie i primi passi. Di-vertere significa volgere altrove, deviare, distogliere: chi sta in palestra o in piscina o su un campo qualsiasi fa tutto fuorché allontanarsi da se stesso. Certo, esiste una componente di piacevolezza nel muoversi, nel giocare, nel riconoscere progressi durante l'apprendimento: tutto ciò non ha nulla a che fare con un passatempo qualsiasi, dove la mente vaga e trova rifugio presso lidi distanti dal mondo reale. Se c'è un aspetto che durante l'attività fisica non può mai mancare è la soglia di attenzione: rimanere concentrati non è per niente divertente, comporta un consumo enorme di energie mentali e nervose. Si fa più fatica con la testa che con le gambe: fare 10 giri di campo comporta meno dispendio che svolgere un esercizio tecnico ad alto contenuto cognitivo. Quando una mamma o un papà accompagnano il/la loro bambino/a in palestra, per prima cosa si aspettano che si diverta: ben presto, però, si accorgeranno che non tutto fila liscio. Ci sono i compagni più bravi, ci sono le sconfitte, gli infortuni, c'è l'allenatore che sgrida, la panchina da scaldare, regole e orari da rispettare, campionati da partecipare, distanze da coprire, vacanze da rinunciare. Non è tutto oro quello che luccica e chi lavora nell'ambiente sportivo ha il dovere morale di informare che l'attività svolta non è ricreativa: per svagarsi ci sono i cartoni animati, le play station, i parchi giochi. Non c'è una fase della vita dove tutte le componenti della persona sono impegnate in modo totale ed integrato come nello sport: cuore, testa, corpo, insieme, alla massima potenza. Nemmeno a scuola gli alunni hanno un atteggiamento di impegno assoluto: il corpo riposa dietro ai banchi - anzi spesso si rovina con posture scorrette - e la testa funziona ad intermittenza. Ecco perché sarebbe preferibile accostare allo sport il termine 'bene-essere', che significa stare bene, cioè quando le funzioni vitali si muovono in modo sinergico e nessuna viene sacrificata. Divertimento è uno stato passeggero, benessere è stile di vita. Non ci sarebbe spiegazione, altrimenti, per le gare massacranti o estreme. Se chiedi a un maratoneta, al termine della gara, se si è divertito, ti risponderà: 'no, ma sono felice'. Non ci si diverte a fare fatica, ma si può essere felici. Questo è il vero segreto di chi pratica sport.

lunedì 29 agosto 2016

Roma c(k)aput mundi?

Roma 2024. Sì o no. È tempo di decidere. Non ho intenzione di inguaiarmi in pastoie politiche - anzi partitiche - dato che a prima vista sembra più una questione di schieramento che di valutazione strategica. Lo sport dovrebbe unire più che dividere, ma a quanto pare non siamo più in grado di esprimere un'identità nazionale in nessun campo dello scibile umano. C'è però una cosa che mi inquieta ( non da farmi perdere il sonno, ci mancherebbe ): il sospetto - e forse qualcosa di più - che questo Paese o la gran parte di esso, consideri lo sport e l'attività motoria come strumenti accessori della vita comune. Per carità, siamo tutti felici ed orgogliosi quando Buffon parà i rigori o qualche eroe isolato vince una medaglia d'oro, ma se dovessimo scegliere fra una strada e una palestra non avremmo dubbi di preferenza: meglio tappare un buco sull'asfalto dove tutti circolano che rifare il parquet dove i bambini giocano. Fare movimento è considerato un lusso, una pausa nella routine quotidiana che non tutti possono permettersi: ci sono cose più importanti da fare, il tempo è denaro e non può essere sprecato in amenità. Non sono così stolto da non sapere che le Olimpiadi non riguardano tutti, ma solo una porzione eletta e selezionata degli atleti. Allo stesso tempo sono convinto che mettere al centro dei nostri pensieri una buona volta qualcosa che abbia a che fare con lo sport - attenzione sport, non calcio - possa aiutare quel processo indispensabile di trasformazione da teleutenti passivi a praticanti attivi. Penso in particolare agli sport minori - o considerati tali - che potranno vivere di luce riflessa e forse di qualche struttura più adeguata a svolgere attività formativa. Inoltre, un maggior numero di impianti favorisce il decongestionamento dei locali e, di conseguenza, più praticanti coinvolti, in particolare giovani. Se poi l'alibi maggiormente in voga consiste nel terrore degli appalti truccati o nella corruzione dilagante ( timori per certi versi comprensibili ), è giusto chiedersi perché ricostruire nelle zone del terremoto o se ha ancora senso parlare di piano urbanistico. Saremo in grado, una volta tanto, di dimostrare al mondo intero che siamo in grado di fare le cose in modo onesto e trasparente? Anche questa è una sfida da raccogliere. La paura ci fa tornare indietro, come nel gioco dell'oca. Se vogliamo avanzare, abbiamo bisogno di scelte coraggiose. Attente, ma coraggiose. Quindi la mia modesta e insignificante risposta è sì.

martedì 23 agosto 2016

mollare gli ormeggi

Non è un vizio capitale, ma la gelosia, parente ma non sorella dell'invidia, procura danni irreparabili. Si può essere gelosi del proprio amante, ma anche del proprio studente o atleta. Un allenatore geloso non riuscirà mai a staccarsi dal proprio giocatore al punto da indurlo alla dipendenza. Il rischio è quello di trovarsi in una dinamica adulto-giovane talmente dominante che nessun altro sarà in grado di proseguire il percorso iniziato. Lasciare un giocatore, soprattutto se di un certo valore, comporta una certa sofferenza ma è un atto dovuto e inevitabile se si vuole che i ragazzi progrediscano sia tecnicamente che umanamente. Ecco perché non bisognerebbe mai allenare più di due, massimo tre anni, gli stessi atleti. L'allenatore è come un seminatore che non conosce i tempi della mietitura: a lui spetta il compito di coltivare ma non di raccogliere. Nessuno può prendersi il merito di aver iniziato e finito un giocatore: ciascuno lascia un'impronta alla quale ne faranno seguito di altre. Siamo gelosi quando abbiamo paura di essere dimenticati: in realtà, tutti gli atleti e i giocatori che sono passati sotto le nostre cure, se siamo stati onesti con noi stessi e con loro, conoscono perfettamente tutti i passi - uno ad uno - che sono stati compiuti per diventare ciò che sono. Anche quelli che non hanno fatto dello sport una professione sanno riconoscere l'impulso ricevuto per essere donne o uomini migliori. Personalmente, trovo non ci sia paragone tra un ragazzo/a che riesce a coronare il proprio sogno e qualsiasi vittoria, anche prestigiosa, ottenuta sui campi: essere orgogliosi, non gelosi, consapevoli che tale soddisfazione va divisa e condivisa con mille persone e situazioni. L'ingratitudine dei giocatori è solamente una costruzione mentale degli allenatori che vogliono girare i riflettori su se stessi scordandosi che la vera missione è scomparire. La gelosia fa male a chi deve crescere: è come buttare troppa acqua ad una pianta con il rischio di farla marcire. Per allenare è invece necessario possedere due forme di generosità: la più facile, che è anche la più comune, sta nel dare il massimo ai propri allievi; la seconda, la più improba, è mollare gli ormeggi quando è necessario farlo. Non è un abbandono, non è un addio, è solo un arrivederci. È un saluto con il fazzoletto dal molo, per approdi più belli ed esaltanti.

sabato 20 agosto 2016

tu non giochi

Chissà perché, mi è tornata in mente in questi giorni una scena ricorrente d'infanzia. " Tu non giochi ", una stilettata crudele che decretava la fine di ogni speranza di partecipazione. Non c'era niente da fare: se il capo gioco, generalmente il più grande e il più grosso, emetteva la fatal sentenza, non c'erano né comitati di difesa né ricorsi possibili, pena sanzioni fisiche irreparabili. Unica attività accessibile, l'osservazione a bordo campo, sperando in un ripensamento oppure in qualche abbandono precoce. Naturalmente le lacrime erano bandite: orgoglio e dignità soffocavano ogni emozione, qualsiasi gesto del corpo che avesse rivelato debolezza sarebbe stato oggetto di pubblico ludibrio. Non c'è paragone tra sconfitta e astensione: chi perde ha avuto almeno l'onore di provare a battersi, chi non partecipa può solo vivere di rimpianti. Il divieto di partecipare è contrario alla stessa essenza del gioco: ognuno fa la sua parte e mette a disposizione se stesso per la causa comune. Lo stesso concetto vale nello sport: ciascuno pesca nel proprio talento per superare i propri limiti, per abbassare il tempo, per allungare lo spazio, per avere la meglio su altri concorrenti o squadre. Com'è possibile decifrare l'indice di performance in assenza di misurazione? È come un bel progetto architettonico che rimane sulla carta, una promessa che non è mantenuta, un amore non dichiarato. Ci sono molte similitudini con quanto successo a Schwazer in questi giorni: banalizzando, ma non troppo, gli è stato detto chiaramente: " Tu non giochi ". " Nemmeno sub judice o fuori concorso "? " Nemmeno ". L'importante che non ci fosse, che rimanesse fuori dal gioco e dai giochi. Con tanto di sportivissima benedizione da parte degli atleti cacasotto in gara, che invece di accogliere la sfida hanno tirato un sospiro di sollievo. Perché tutti sapevano e sanno, compreso il venduto commentatore, che avrebbe vinto la 50 km. Ma Alex, secondo la giustizia sportiva, è un dopato, un reietto, un recidivo, un traditore. Forse, e ripeto forse, la giustizia ordinaria restituirà la verità dei fatti, ma non la possibilità di marciare e provare a vincere. Per l'Italia e Mameli tra l'altro. Credevo che un oro in più avrebbe fatto comodo, anche alle nostre istituzioni - sportive e non - che non passa giorno ci ricordano il nutrito medagliere di cui andare fieri. Ma che in questa storia, questa triste e buia storia, non hanno mosso un dito.

giovedì 18 agosto 2016

ditemi perché

Ditemi perché. Perché io dovrei rispettare le regole mentre voi, che dovreste farle rispettare, siete i primi ad infrangerle. Perché dovrei starmene dentro un box, non rispondere agli arbitri, non insultare gli avversari e non inveire con il pubblico. Mentre cerco di dominare l'animale che c'è in me, voi bellamente e in perfetto savoir faire non vi accontentate di sedere su poltrone di prestigio, ma silenziosamente e senza dare nell'occhio, affetti da mal di cupidigia, vi appropriate di ciò che non è vostro. Utilizzate la vostra autorità per farvi corrompere da staterelli ambiziosi che hanno scoperto lo sport come nuovo terreno di scontri. Usate la giustizia - quale giustizia? - ad uso interno per sbarazzarvi dei vostri detrattori. E voi, così esperti in dolo, da chi sarete giudicati? Da un tribunale amico? La verità é che con voi non è possibile difendersi e nemmeno attaccare. Ditemi che cosa devo dire ai ragazzi e ragazze che quotidianamente incontro in palestra ed ai quali chiedo lealtà, spirito di sacrificio, fair play. Ditemi perché devo continuamente insistere nell'avere rispetto per i perdenti, nel non usare mezzi illegali per vincere, nel fare leva solo su coraggio e sudore. Quale credibilità pensate di avere se i dopati protetti continueranno a spadroneggiare mentre i puliti che non hanno santi in paradiso dovranno ingoiare sentenze truccate. Può darsi - anzi è sicuro - che tra voi ci sia qualcuno che non è disonesto: ebbene, se questo fosse vero, non c'è più tempo da perdere perché io, come tanti altri, abbiamo perso la pazienza. Nella mia ingenuità pensavo che lo sport fosse immune alle porcherie tipiche di altri ambienti: mi sbagliavo, l'avidità e la dissoluzione esistono ovunque. Voi avete rovinato la bellezza e la purezza dello sport: questo é il vero peccato originale, prima ancora dei reati commessi. Noi ci vergogniamo per voi. Ditemi perché dovrei stare zitto, perché dovrei accettare tutto questo con rassegnazione. Mi avete condotto a pensare che un governo, nello sport, non solo e non tanto sia inutile, ma perfino dannoso. Da questo momento sentitevi braccati, perché non sorvoleremo più su nulla. Per fortuna ci sono le palestre, i ragazzi, gli spogliatoi, le urla, i pianti, gli abbracci: tutto questo ha davvero potere di corruzione e non riuscirete a farmelo odiare. Ditemi perché. 

lunedì 15 agosto 2016

angeli custodi


Un brutto ferragosto. Ferragosto di morte. Non parliamo di destino, per favore. Quale destino che ti strappa nel bel mezzo della fioritura? E nemmeno di errore umano. Ci siamo passati tutti su quella strada, a tutte le ore e in tutti i modi. Parliamo di tragedia piuttosto, per chi resta e non ha più lacrime nè spiegazioni. Nessuno di noi ha spiegazioni. Giò aveva l'età di mio figlio. Poteva essere mio figlio. Amava la pallacanestro, come mio figlio. Sono spaventato. Tutti siamo spaventati. E siamo stretti nel dolore. A questo punto non ci resta altro da fare. Vorrei gridare la mia rabbia, per tutti i ragazzi, e sono molti, che invece di essere chissà dove dovrebbero stare su un campo a giocare oppure in un bar a ridere e chiacchierare. Perché questa dovrebbe essere la gioventù, libera e spensierata. Ma la rabbia non farà riportare in vita ciò che si è dissolto nell'aria. La rabbia accumula dolore e di dolore ce n'è già abbastanza. Non abbiamo scelta: o ci diamo uno slancio di vera umanità, o non ce la faremo. Non siamo in grado, da soli, di sopportare tutta questa tristezza. Per una volta, dimentichiamo ciò che ci tiene distanti e proviamo ad essere prossimi. Se non siamo in grado di capire, almeno possiamo stringerci e sostenerci a vicenda. Perché se il dramma è condiviso, ha un impatto minore e una sopportabilità maggiore. Non è retorica, Giovanni era un ragazzo splendido. Come tutti gli altri che non ci sono più. È davvero una brutta ingiustizia, a cui purtroppo non si può riparare. Ciò che possiamo fare è non disperdere il bellissimo ricordo che abbiamo di lui e di Matteo, Luca, Andrea. Avremmo voluto averli qui, ora sono i nostri angeli custodi.

domenica 14 agosto 2016

temperatura in ribasso a Olimpia

Ci deve essere qualche buon motivo se i giochi olimpici in corso non sono riusciti più di tanto a scaldarmi il cuore. In primis, l'assurda e fangosa vicenda Alex Schwazer: personaggi anche autorevoli tendono a minimizzare l'accaduto non rendendosi conto che in gioco ci sono sia i valori dello sport che la dignità umana. Siamo giunti all'assurdo che atleti puliti stanno fuori mentre quelli sporchi gareggiano e vincono medaglie. In secundis, l'inadeguata e dilettantesca programmazione televisiva di mamma Rai: telecronisti datati e incompetenti ( alcuni, per non far nomi, faziosi e megalomani ), tre canali dedicati ( a volte 2+1 perché Rai2 trasmette altro ) e nessun ausilio didascalico ( si sono già consumati i tasti del telecomando a forza di cambiare ripetutamente ), discipline mandate in onda, con tutto il rispetto, di basso appeal. Mentre Bragagna e compagnia cantante ci dilettano con le loro suadenti affermazioni, l'azienda ci sfila dalle tasche l'agognato canone: del resto, sessantacinque milioni di euro per l'esclusiva vanno recuperati, possibilmente in fretta. In terzis, non ho più l'età oramai per praticare attività notturne e le repliche, francamente, mi fanno lo stesso effetto della minestra riscaldata. Sono riuscito addirittura ad addormentarmi davanti a team USA: a proposito, era tempo che non vedevo gli americani giocare così male. Perfino coach K ha dovuto arrendersi di fronte al superego dei prezzolati giocatori, che affrontano le olimpiadi come se fosse un normale all star game: vinceranno, ma la pallacanestro migliore, quella che esalta il gioco di squadra, rimane di scuola europea. Piccola parentesi per l'Argentina: c'è chi ha avuto da dire sugli ormai vetusti giocatori, io dico che stanno dando un magnifico esempio di attaccamento alla maglia e al paese. Se ci fosse qualche giovane di belle speranze, non sarebbe rimasto a casa. Non me ne abbiano gli atleti italiani, solitamente decantati da queste pagine per le eroiche imprese. Non è mai facile, per i nostri connazionali, salire sul podio. Non mi stupisce nemmeno la già variegata collezione di medaglie di legno: in questa particolare classifica non abbiamo rivali. D'altro canto mi risulta inevitabile nutrire una certa tradizionale debolezza per alcuni di loro: Tania Cagnotto, ad esempio, l'ultima tuffatrice classica, elegante e leggera, ma soprattutto mai banale nelle dichiarazioni. "Lo sport è sofferenza, non voglio più soffrire". Ha fatto anche troppo, noi dagli atleti ci aspettiamo che vincano sempre e bellamente ce ne freghiamo delle rinunce, i sacrifici, le delusioni. Come Federica Pellegrini, costretta a difendere l'invidiabile carriera da attacchi manigoldi di chi ha poco a che fare con lo sport. La simpatia non è mai stata il suo forte, ma non si può discutere la classe, il carisma, la determinazione, la persistenza ad alti livelli. Tranquilli, gli italiani da sempre son maestri d'armi: tra fioretti, pistole e carabine come sempre faremo la nostra parte. Alla fine, tutti saranno felici e sorridenti. Tranne me, inguaribile e maledetto menagramo di periferia.

giovedì 11 agosto 2016

signori delle tenebre

Cari ( chissà perché poi ) signori ( mah ) che vivete nelle tenebre, non so chi e dove siate. Ad essere sincero, non è che me ne freghi molto. Voi che siete nascosti da qualche parte, prima o poi vi vedremo in faccia e conosceremo i vostri nomi. Sportivamente parlando ( ho dubbi che sappiate cosa significhi ), all'intervallo vi trovate in vantaggio. Ma come diceva il mitico Boskov, 'partita finita quando arbitro fischia'. Siete entrati negli spogliatoi ridendo ed esultando, pensando che ormai il discorso sia chiuso. Avete finalmente consumato la vostra vendetta. Vendetta cinica e disumana. Vi siete dissetati con il sangue dell'agnello. Lo avete intrappolato, legato, sgozzato. Non vi siete accontentati di un colpo secco alla testa, lo avete dissanguato fino all'ultima goccia. Sappiate che la verità verrà fuori, presto o tardi che sia. Perché quello che avete compiuto, senza molti giri di parole, si chiama assassinio. Sportivo, ma pur sempre assassinio. Ora sappiamo qual' é il trattamento riservato a chi si mette di mezzo o pesta qualche piede sbagliato. Messaggio chiaro anche per quegli atleti moralisti e bacchettoni che hanno perso l'ennesima occasione per stare zitti: attenzione, così bravi a scagliare pietre, la prossima volta sul patibolo potreste salirci anche voi. Signori delle tenebre, io come tantissimi altri viviamo di sport e vorremmo lavorare in un ambiente pulito e virtuoso: se é vero che il doping è una piaga che va combattuta senza esclusione di colpi, è anche vero che il malaffare e la corruzione in certi ambienti del governo sportivo mettono a dura prova la nostra imperturbabilità e resistenza. Avete ucciso un atleta, non avete ucciso un uomo. A livello sportivo, tramite complicità occulte, avete vinto. Umanamente, passando per la legge ordinaria, perderete. Perché chi imbroglia, prima o poi, perde.
Caro Alex, quando ti presero in flagrante prima di Londra, da queste stesse pagine non mostrai nessuna pietà nei tuoi confronti. La tua ammissione sincera non attenuò la mia rabbia ed usai parole dure ed inequivocabili. Mi diede molto fastidio anche il coinvolgimento indiretto di Carolina Kostner, rea di averti difeso mentendo agli ispettori che vennero per un controllo. Ora provo compassione per te. Credo alla tua onestà e a quella del tuo allenatore, paladino della battaglia al doping. Credo alla tua innocenza perché credo nella redenzione: un atleta che ha passato quattro anni in purgatorio e nel dimenticatoio non può ricadere nello stesso errore. Solo chi non ha fatto sport può pensare ad una storiella del genere. Hai sbagliato e hai pagato. Come è giusto che sia. Sei tornato facendo enormi sacrifici e inviso a tutti, soprattutto nel tuo ambiente. Non ti hanno perdonato il fatto di aver rivelato circostanze e nomi: come in un perfetto sistema mafioso, i pentiti vengono puniti. Hai lottato fino all'ultimo tenendo accesa una fiammella di speranza: il tuo allenatore, scomodo nel mondo dell'atletica, ti ha aiutato a tornare ad alti livelli ma, da lui stesso riconosciuto, ti ha involontariamente trascinato negli abissi del taglione. Dico a te quello che ho detto a loro: hanno ucciso l'atleta, non possono uccidere l'uomo. Non farti sopraffare nella tua umanità: continua a lottare, non permettere che il crimine nei tuoi confronti rimanga vano. Fallo per noi, per tutti gli atleti puliti, per tutti i bambini che si avvicinano allo sport. Chi si allena per marciare 50 km non può arrendersi. Compagna di vita non sarà più la strada, ma la coscienza. La coscienza di chi sa di essere nel giusto e pretende che la verità venga fuori. Ti hanno tolto una medaglia, non possono toglierti la dignità. 

mercoledì 3 agosto 2016

chi c'è e chi non c'è

Chi al villaggio. Chi in albergo. Chi in nave: i figli del dream team - quello vero, che non solo fu e rimane la più forte squadra mai esistita su un campo di pallacanestro ma che ebbe l'eleganza e semplicità di vivere, se non altro per uno spazio breve e definito, insieme agli altri - hanno preferito tenere le distanze dalla terra ferma: paura di contagio, norme di sicurezza, o semplicemente assuefazione al lusso? É caduto, in verità ormai da tempo, l'ultimo simbolo autentico del dilettantismo e universalismo olimpico: alla fiaba dell'atleta decubertiniano non professionista svelata dall'approdo inopportuno ai Giochi del calcio detto soccer ( con la formula addolcita e mascherata dell'under 21 ) ha fatto seguito il fai da te nel vitto e alloggio. Una città costata un sacco di soldi e vite umane che ospiterà solo una parte del mondo sportivo: in pratica, le federazioni e le nazioni che non possono permettersi di aggiungere spese ai bilanci già sanguinanti. Insomma, per farla breve, non ci si potrà fotografare con kevin Durant durante un pranzo frugale in mensa: ci si dovrà accontentare al massimo di Clemente Russo o Elisa Di Francisca. Anche alle olimpiadi la virtualità ha preso il posto della realtà. Il villaggio rappresenta il cuore dei Giochi e contiene un messaggio immutabile dai tempi di Olimpia ai giorni nostri: durante le gare, città e nazioni anche nemiche si affrontano lealmente attraverso abilità ginniche. Una vera e propria tregua, dove la politica sta alla finestra - o dovrebbe stare - per lasciare spazio al talento naturale e alla bravura dei singoli e dei gruppi di battere l'avversario attraverso il rispetto delle regole. Nel villaggio convivono gruppi, etnie e popoli diversi: un'occasione unica di scambio e conoscenza reciproca, dove la rivalità si chiama superamento e non soppressione. Io, uomo sfortunato - come molti altri - ho sempre guardato le olimpiadi attraverso lo schermo: per questo mi sembrano inutili, forse pretestuose, le lamentele sullo stato dell'arte degli alloggi brasiliani. Mi verrebbe da dire: se lasciate libero un letto, avvisatemi. Sarebbe come entrare al Madison Square Garden e piagnucolare per il posto assegnato in alto. O a Mirabilandia per la fila. Chi c'è e chi non c'è: questa é la vera differenza. Volete che chiediamo ad Ettore Messina cosa avrebbe scelto tra un armadietto spoglio e la sconfitta con la Croazia?

venerdì 29 luglio 2016

pezo el tacon del buso

Pezo el tacon del buso. Così dicevano le nonne venete. Così viene da dire dopo la decisione del CIO sugli atleti di casa Russia. In buona sostanza, una 'pilatata', un bel lavaggio di coscienza con tanto di trasmissione della patata bollente alle rispettive federazioni. Così, molti puliti restano fuori, molti sporchi stanno dentro. Perfino Yulia Stepanova, la spia pentita ed esiliata che ha rivelato il grande malaffare tra politica e sport del suo Paese, dovrà restare ai box in quanto atleta che ha scontato una squalifica per doping ( così impara a parlare e dire la verità, un bel regalo a Putin ). Tutti i riabilitati saranno puniti in nome del passato, il presente non conta nulla. L'atletica russa paga per intero le colpe di alcuni: Isinbayeva, ad esempio, non potrà difendere le due medaglie d'oro conquistate in due edizioni olimpiche. Un bel pasticcio insomma, che penalizza certamente anche Alex Schwazer, in attesa di conoscere il proprio destino ( se il criterio é escludere gli atleti già squalificati, le speranze sono ridotte al minimo ). Il presidente russo, malgrado faccia l'offeso - non parteciperà alla cerimonia di apertura - non può che essere soddisfatto della decisione presa: dal rischio di non avere alcun partecipante, alla possibilità di schierare una compagine, seppur dimezzata, comunque competitiva. Ancor più importante, riesce a contenere i danni d'immagine dopo un rapporto davvero impietoso ed inquietante sulle commistioni tra servizi segreti e atleti russi: un vero doping di stato che non ha nulla da invidiare al progenitore sovietico di vecchia data ( chi non ricorda le nuotatrici della Germania dell'est, mancavano solo i baffi ). A questa vicenda penosa, che mina alle radici il senso stesso di sport e che mette a dura prova chiunque lavori in questo settore, aggiungo solo due considerazioni: il sistema antidoping, così come é fatto ora, non funziona. Ci vuole un organismo indipendente con pieni poteri e che possa agire e decidere prescindendo dai governi statali e sportivi ( al momento attuale, totale utopia ). Secondo, ci vuole uno scatto di coscienza da parte degli stessi atleti: in fondo, nessuno può essere obbligato a fare ciò che non dovrebbe fare ( utopia anche questa? ). Una sconfitta pulita vale più di una vittoria sporca: che bella frase deamicisiana, purtroppo dobbiamo andare in guerra con bastoni e rastrelli.

domenica 24 luglio 2016

dolore a pezzi

Disumano sopravvivere ai propri figli. Non c'è dolore più straziante. Non c'è consolazione, se non l'attesa del ricongiungimento. Vite recise in piena fioritura. Perché? Nessuna risposta. Qualcuno, per farsi e fare coraggio, parla di disegno più grande, incomprensibile alla mente umana. Quale disegno? L'intitolazione di una via, una scuola, un'associazione, un torneo sportivo? Viviamo per realizzare i sogni che portiamo dentro, per completare l'opera, per lasciare un segno, seppur piccolo, nel breve viaggio sulla terra. Siamo tutti precari e a tempo determinato, ma nella debolezza umana vorremmo che la natura delle cose fosse rispettata e che i figli possano, un giorno, seppellire madri e padri. É il cerchio della vita: chi l'ha donata lascia il posto a chi l'ha presa in una sequenza logica infinita. Perfino la madre delle madri, ai piedi del calvario, rifiutò di capire: la ribellione era nel silenzio e nella dignità, nel vano tentativo di dare un senso a ciò che, umanamente, non ne aveva. " Non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio ". Siamo indifesi contro il cattivo destino, possiamo solo arrenderci e prendervi parte. Una cosa, forse, possiamo fare: anche se non può avere lo stesso valore e lo stesso peso, ognuno di noi può prendersi un pezzetto di dolore. Se viene diviso, non può essere tolto, ma almeno ridotto. Come se fossero figli di tutti. Se è vero che la nostra umanità é messa alla prova, è il momento di stringerci.

martedì 19 luglio 2016

questione di preposizioni

Sono debitore con i Papu perché, oltre a raccontare magistralmente e puntualmente la 'nostra' storia, stavolta si sono superati raccontando anche la 'mia'. Non sarei qui e ciò che sono se circa sessant'anni fa un milanese di belle speranze non avesse preso la sua valigia, l'ambizione e ciò che restava della sua famiglia e le avesse portate in un paese sconosciuto e prossimo ai confini orientali. Erano gli anni del boom economico, anche del baby boom, e la Zanussi faceva gola a tutti: non solo a chi era in cerca di un lavoro qualunque, ma anche a quelli che erano impazienti di dare sfogo alle proprie qualitá tecniche e applicative. Mio padre faceva parte di questa schiera, aveva fatto studi professionali e possedeva un certo talento per il disegno e la matematica: ricordo ancora le ripetizioni su limiti e derivate, tempo sprecato per un alunno che era sprovvisto sia di materia prima che di motivazioni. Posso tranquillamente affermare - senza motivo di imbarazzo - di essere un vero figlio della Zanussi: stabilità lavorativa e, di conseguenza, economica, hanno se non altro seminato qualche dubbio in una coppia che sembrava accontentarsi del figlio unico. Ecco il motivo per cui nacqui da genitori, per quei tempi, abbastanza anziani: nessuno però avrebbe potuto avvisarli in anticipo che avrei vestito i panni del ribelle e che, soprattutto, mi sarei orientato verso scelte in direzione ostinata e contraria. Furono due gli shock terribili che misero a dura prova sia l'equilibrio che il cuore della patria potestà: il primo, la pratica religiosa. Figlio di operai, mangiapreti fino al midollo, non poté sopportare la mia frequentazione parrocchiale e nelle associazioni. Il secondo, ancora più agghiacciante: quando gli dissi che avrei voluto fare l'Isef e il professore di ginnastica. Come? Hai fatto studi alti per non prenderti nemmeno una laurea? ( a quel tempo l'Isef era un corso post diploma triennale ). Aveva già perso un figlio nel ramo medico, gli sarebbe piaciuto averne almeno uno che seguisse le sue orme. Fu l'ultimo proiettile a cadere in terra, si rese conto, già pensionato, che la storia con la Zanussi sarebbe terminata quel giorno. Ma il destino, beffardo come sempre, ci ha fatto di nuovo incontrare. Chissà come mai mi trovo una cattedra in un istituto professionale e, guarda a caso, che porta il nome dell'artefice dell'esplosione non solo economica di questa città. C'è la sua scultura all'ingresso nel ricordare che solo attraverso la formazione ci può essere successo. Vedi, papà, alla fine tutto torna. Tu lavoravi 'alla' Zanussi, io 'allo' Zanussi. É solo questione di preposizioni.

sabato 2 luglio 2016

a prescindere

A prescindere, sono giornate storiche per la pallacanestro femminile italiana. Ci riempiamo spesso la testa di pensieri negativi e la bocca di frasi scorate ed ecco qui che le ragazze ci smentiscono, ci ricordano che esistono e che hanno cuore ed orgoglio smisurati. Questo eccezionale risultato - perché non è normale, per qualsiasi disciplina a qualunque età, stare in cima al mondo - non cancella le problematiche esistenti, ma regala alcune risposte. Nulla capita a caso: non é sufficiente sbrigare la pratica adducendo ad un'annata speciale ed irripetibile. Siamo di fronte ad un programmazione lungimirante condotta mirabilmente da staff tecnici, sia dei club che della nazionale, infaticabili e preparati. Ancora una volta lo sport al femminile regala soddisfazioni impensabili: facciamo un attimo due conti e ci accorgiamo che parlare di potenza rosa non é un modo gentile di dire ma una sacrosanta verità. Sarebbe interessante studiare e capire che cos'hanno di speciale le ragazze e donne italiane quando scendono in competizione e, soprattutto, quando indossano la maglia azzurra: forse la capacità di soffrire? É solo un'ipotesi, ma in genere chi soffre resiste, chi resiste vince. Le diciassettenni che in questi giorni abbiamo ammirato e tifato - insieme a molte altre - sono il futuro della pallacanestro italiana: questo capitale umano non va disperso e sprecato, semmai investito con scelte oculate che permettano di proseguire e ampliare la formazione tecnica-tattica. Sarebbe imperdonabile scambiare questo grande risultato per un traguardo: queste atlete hanno bisogno continuo di migliorare attraverso situazioni tecniche e agonistiche adatte al loro percorso di crescita. Giocare in A1, ad esempio, per molte di loro vorrebbe dire fare panchina e non apprendere; allo stesso tempo, fare esclusivamente campionati giovanili manterrebbe inalterato il potenziale. Occorre trovare una soluzione a metà, dove poter giocare da protagoniste in campionati, anche senior, performanti. In questo senso, il campionato di A2 può essere un buon trampolino di lancio: in sostanza, nessuno strappo nei tempi, ma nemmeno trascuratezza o abbandono. Una menzione speciale va spesa per Giovanni Lucchesi: da ottimo condottiero e motivatore, ha portato questo gruppo dove nessuno avrebbe pensato. Conoscendolo, cercherà di mantenere come sempre aplomb e profilo basso, ma tutti sappiamo che questa é un'impresa bella e buona e che non è una cosa normale giocarsi un titolo mondiale. Che sia primo o secondo posto. A prescindere.

giovedì 30 giugno 2016

orsi felici



Ho un brutto carattere. Così dice chi mi sta vicino. I lontani, oltre a starmi distante, non hanno il coraggio di dirlo. Mi è difficile immaginare la differenza tra ciò che rende una persona trattabile o meno; un indice ipotetico potrebbe essere la quantità di frequentazioni, beninteso non solo e non tanto virtuali. In questo, devo dire, sono notevolmente peggiorato negli anni: da una certa capacità di adattamento alla diversità del genere umano, attraverso la fase della disillusione, si è passati  inesorabilmente al distacco. Allo stesso tempo, e con identiche e motivate ragioni, anche gli altri imparano a prendere le distanze. I giovani hanno maggiore duttilità, sono freschi e curiosi, hanno ancora in dote il dono della perseveranza e della sopportazione. Anch'io, come Edoardo Bennato, - anche se per ragioni e proporzioni diverse - non potrò mai fare ad esempio il politico, che fa di mestiere la persuasione e il sorriso: essere piacenti non è per tutti. La mia incapacità a indossare maschere diverse ha vietato l'accesso alle stanze più importanti dei palazzi, ma era un rischio calcolato e prevedibile. Non riesco a bluffare di fronte ai miei figli, figurarsi davanti ad una platea di sconosciuti. Eppure, stare al mondo comporta anche l'abilità camaleontica di sapersi travestire a seconda delle circostanze. Oppure di saper fare buon viso a cattiva sorte, cosa che mi é sempre mal riuscita. Nascondere le emozioni risulta un ottimo antidoto contro la decifrazione della personalità: alcuni ci riescono brillantemente, riscuotendo consenso e attirando curiosità per un mistero non ancora svelato. Gli orsi fanno vita solitaria: il dato preoccupante é che sono felici. Non vorrei che prima o poi capitasse anche a me.

sabato 25 giugno 2016

bue o sovrano

Onestamente fatico a comprendere tutta questa acredine nei confronti della sovranità popolare. Soprattutto quando il popolo decide in maniera diversa dal nostro modo di intendere e volere. Se la gente la pensa come me, significa che é matura, colta, consapevole; se invece la pensa in altro modo, diventa gretta, corrotta, infantile. Accettare democraticamente il verdetto significa, prima di tutto, chiedersi se tutto quello che è stato detto e fatto per convincere ha prodotto l'effetto desiderato. Può piacere o meno che i cittadini della Gran Bretagna abbiano deciso di uscire dalla comunità europea; considerare stupida o inopportuna questa scelta non è altro che la conferma di una scuola di pensiero ideologizzata che non ammette diversità, dove la ragione sta sempre da una parte e il torto dall'altra, dove la presunzione di essere migliori comporta un netto distacco dal sentire comune. É come se - usando un parallelismo sportivo visto che siamo in un blog di genere - l'allenatore, dopo una sconfitta, trovasse alibi ovunque fuorché in se stesso. La colpa é dei giocatori che sono incapaci, oppure degli arbitri che non conoscono le regole. Non si domanda, ad esempio, se c'è qualcosa da cambiare, sia nei metodi di allenamento che nella gestione della gara. Ecco, la mia impressione è questa: si dà la colpa al popolo per non avere il coraggio di guardarsi dentro e di cambiare. Noi, tutti quanti, me compreso, siamo popolo: o forse c'è qualcuno che si distingue, che si trova ad un livello più alto, come nelle stratificazioni feudali di scolastica memoria. Suggerirei un certo esame di coscienza: probabilmente - evito un' analisi accurata dal mio livello di ignoranza - non tutto quello che é stato fatto o non fatto in Europa ha convinto pienamente i britannici e probabilmente non solo loro. Non esiste solo un'ideale di comunità europea - che tutti quanti credo siano disposti a sposare - esiste anche un agire che non mortifichi ma valorizzi le identità. Sembra un bisticcio di parole, ma è proprio chi sta con il popolo che oggi gli si volta contro. Dietro una scelta non c'è ignoranza, c'è sempre un messaggio chiaro, a volte un grido. Chi vuole ascoltare, lo faccia. Troppo facile e supponente parlare dall'alto di popolo bue.

domenica 19 giugno 2016

luci spente speranza accesa

Anche se già detto e ridetto, non ringrazieremo mai abbastanza chi ha organizzato le finali giovanili a Pordenone. Chi ci ha messo le testa ma, soprattutto, le braccia. Ore tolte al sonno per consentire a tutti - gratuitamente - di accedere allo spettacolo. Sentendo gli allenatori, ho colto riconoscenza e gradimento: una volta tanto la città ha dato buona immagine di se, significa che é possibile, che non tutto è da buttare. Per una settimana capitale della pallacanestro italiana: ci sarebbe piaciuto vedere in campo una squadra locale, quantomeno regionale, ma la speranza é l'ultima a morire, ci sarà tempo per tornare in auge. Intanto é buono e giusto accontentarsi della partita a cui abbiamo assistito per l'assegnazione dello scudetto: spalti gremiti, squadre ben allenate, giocatori interessanti, punteggi alti. Forse è troppo presto per cantare vittoria, ma dopo anni di gioco conservativo dove la posta in palio ha avuto ragione sulla stessa bellezza del gioco, c'é un tentativo visibile di riappropriazione della natura intrinseca alla pallacanestro: fare un punto in più degli avversari. Venezia e Bologna hanno dato vita ad una finale bellissima, dove il talento é prevalso sulla fisicità e la volontà di imporsi ha fatto leva sulla costruzione e la fiducia nei propri mezzi. Si è giocato a viso aperto, come dovrebbe essere in ogni incontro giovanile: questa era la partita più importante dell'anno, per alcuni forse della vita, eppure si è vista una giusta e non eccessiva dose di tattica, comunque non tale da snaturare le caratteristiche intrinseche ai giocatori e alle squadre. Complimenti a tutti quanti, e come mi è già capitato di dire, meriti a Venezia ma non demeriti a Bologna: penso di sapere cosa significhi accarezzare e non toccare, ma i ragazzi felsinei devono solo essere orgogliosi di quanto hanno fatto e un giorno, forse non troppo lontano, ne saranno consapevoli. Un'immagine mi resta impressa: il taglio della retina che i ragazzi di Venezia hanno concesso al loro allenatore. Un gesto insolito, ma carico di emozione e significato. Ci sono mille modi per esprimere gratitudine, ma questo é forse il più bello: colui che solitamente rimane in disparte, sale sulle spalle dei giocatori. Come dire, simbolicamente, tu ci hai portato fin qua, ora lascia che siamo noi a sollevarti in alto. Si spengono le luci, si torna alla normalità: se tutto quello che abbiamo vissuto non é frutto del caso - per forza deve essere così - la pallacanestro in città non può rimanere la stessa di prima. Se tutto ha un senso, é sufficiente che un solo bambino, oggi con gli occhi luccicanti di stupore, si innamori di questo meraviglioso sport e coltivi il sogno di diventare come uno dei protagonisti che hanno calcato, non solo, ma soprattutto il PalaCrisafulli. Caro Maurizio, spero ti sia divertito da lassù, questa era la pallacanestro che volevi: un punto in più.