"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

martedì 29 maggio 2012

astinenza

Il responso è ufficiale: ora che anche gli under 15 hanno terminato la fase interzonale, nessuna squadra regionale, a parte la già collaudata pallacanestro Trieste under 19, è riuscita ad approdare alle finali nazionali. Maschile si intende, per la femminile, fortunatamente, è un'altra storia. In sostanza, dall'annata 95 in poi nessun giocatore friul-giuliano potrà provare l'ebbrezza di scendere in campo per giocarsi un titolo. Credo non sia mai successo ed è un dato che deve far riflettere. Può essere anche un fatto casuale e momentaneo, ma l'accortezza impone di non nascondere la faccia sulla sabbia. I migliori talenti prendono il volo: del resto, essendo di fatto scomparsa per vari motivi la massima serie in regione, è naturale che i giocatori promettenti siano tentati dalle luci dei club più prestigiosi in Italia. C'è qualche conto che non torna: la scomparsa di alcuni punti di riferimento importanti, vedi Snaidero a Udine, non può essere l'unica spiegazione accettabile. Può anche essere che non sia la partecipazione alle finali tricolori l'unico vero metro di misura dello stato di salute del basket giovanile: sono pieni zeppi i campi italiani di giocatori che non hanno fatto finali. E' però sacrosanto quantomeno chiedersi  se quello che si sta facendo stia andando nelle giusta direzione. Non ho sfere magiche e nemmeno la presunzione di capirci più di altri. Provo solo a farmi delle domande: siamo proprio certi che il reclutamento in atto sia sufficiente? Non è che abbiamo nel tempo, per abitudine e comodità, identificato il minibasket - peraltro attività formativa meritoria - come unica iniziativa per una leva giovanile sul territorio? Ci siamo scordati delle scuole e del fatto che i ragazzi hanno il picco di sviluppo attorno ai 15-16 anni? Sembrano sempre più rari i casi di ragazzi che iniziano a giocare in età tardiva: troppo faticoso andare in cerca o ricominciare ad insegnare? Poi mi chiedo, ammetto, con un pizzico di sapore polemico: siamo sicuri che ci interessi il miglioramento dei giocatori o è preferibile il mantenimento dello status quo? In altre parole, non è che la conservazione della clientela sia diventata più importante della formazione tecnica? E' risaputo infatti che dove esiste rigorosità e qualità nei metodi di insegnamento spesso si possano creare frizioni con i giocatori e, soprattutto, le famiglie. Non è che stiamo diventando anche noi come la scuola di oggi, accondiscendente verso il pubblico per garantirsi le iscrizioni? Se fosse così, l'agonismo non avrebbe più senso di esistere. Non c'è nessuna controindicazione all'attività promozionale, si badi bene, ma non si può certo chiedere a ragazzi allevati con allenamenti standardizzati a cadenza bisettimanale di ottenere risultati eclatanti. Può essere che il problema sia solo mio: è vero, soffro di una malattia  rara. L'astinenza da risultato mi rende nervoso: sarei curioso di sapere se esiste qualcun altro che, in silenzio e in incognita, ne è affetto. Forse la guarigione sta solo nel far finta di stare bene.

domenica 27 maggio 2012

Martin

Un'altra tragedia. Un altro cestista. Un altro ragazzo. Un'altra strada maledetta. La stessa domanda: perchè? La stessa risposta: nessuna, solo silenzio e dolore. Martin era classe 81, la stessa, per capirsi, di Max Cipolla: un ragazzo d'oro, un giocatore vero, capace di farsi amare ovunque sia andato. Una carriera a rovescio: partito dalle serie minori, approdato in A1 a 30 anni compiuti. Un esempio di tenacia, pazienza, caparbietà. Solo atleti speciali riescono a migliorarsi nel tempo. Noi poveri provinciali, abili nel prenderci per i capelli per qualsiasi scemenza, continuiamo a preoccuparci di cose insignificanti mentre alcuni ragazzi, i nostri ragazzi, perdono la vita. In tutto questo tempo non abbiamo imparato niente, nemmeno il fatto che nessuna delle nostre legittime lagnanze è minimamente paragonabile alla sofferenza che dovremmo portarci dentro, per sempre. Luca, Matteo, ora Martin. Ragazzi di basket. Ragazzi che avrebbero dovuto continuare a giocare. Ragazzi, un giorno padri, che avrebbero avuto il diritto di raccontare la propria storia. Solo la nostra memoria potrà mantenerla in vita. Nel nostro cuore, già sanguinante, abbiamo aggiunto un altro posto.

domenica 20 maggio 2012

nulla ha senso

Istituto professionale. Indirizzo tecnico moda. Potrebbe essere la scuola dove insegno da quasi vent'anni. Potrebbero essere i miei figli. I ragazzi sono gli stessi, vestono nello stesso modo, hanno le stesse idee, gli stessi idoli. Gli stessi sedicenni che incontro in palestra e con i quali spesso non evito di ingaggiare lotte formative furibonde. Nè carne nè pesce: così andrebbero definiti. Non abbastanza grandi da prendere decisioni ultime, non abbastanza piccoli per essere trattati da incapaci. In genere passo un terzo della mia giornata con questa generazione, forse più che in famiglia. La mia vita insomma e se a qualcuno non infastidisce un termine un pò troppo carico e pretenzioso, la mia missione sulla terra. L' invidia per la tenera e spensierata esistenza di costoro mi conduce spesso allo scontro ma non posso non provare compassione per i dubbi e le incognite che circondano il futuro. Hanno il tempo dalla loro parte ma non sanno che pesci pigliare. Hanno buone carte in mano ma non si fidano a giocarle. E spesso, se non sempre, non hanno colpe. Chi ci é passato prima sapeva, poteva, ma non ha fatto. Anche Melissa non aveva colpa. E aveva diritto a vedere la fine della storia. Melissa come chiunque di loro. Le bocciature, le promozioni, le vittorie, le sconfitte, i titoli, gli scudetti, le eliminazioni, i trionfi, le interrogazioni, i compiti....tutto passa e non ha senso. Nulla ha senso davanti ad una morte innocente. Ho trovato spiegazione a tutto, anche alle delusioni più grandi, ai fallimenti e alle sconfitte più cocenti: oggi, perdonatemi, di fronte a questo, non ne sono capace. La vita di una ragazza vale molto di più di tutte le nostre lamentazioni quotidiane.

giovedì 17 maggio 2012

usa e getta

Essendo un purista non ho potuto non provare vergogna. Per come vedo io le cose, la tattica serve a coprire i propri limiti: quasi mai, a livello giovanile, può avere uno scopo formativo. Ebbene sì: anch'io ho fatto zona per salvare la pelle! So di essere un sognatore, ma sarebbe bello ogni tanto avere a disposizione giocatori perfetti ai quali non servono trucchi o espedienti per superare gli avversari. Potrebbe sembrare presunzione, ma l'obiettivo andrebbe raggiunto non tanto nascondendo le proprie lacune, semmai tentando di colmarle attraverso il miglioramento dei singoli e della squadra. I giovani giocatori devono risolvere da soli i problemi che il campo pone di continuo: costruire degli automi può dare risultati immediati, ma alla lunga può creare atleti incapaci di adattamento a diverse situazioni di gioco. La flessibilità si costruisce non attraverso l'irrigidimento di ruoli e responsabilità, ma attuando formule di gioco dove tutti dovrebbero essere in grado di svolgere più cose. Non ho mai creduto che fossero le zone o gli schemi a vincere le partite; ne sono ancora più convinto ora con 30 anni di esperienza. Quando sento dire " hanno vinto ma hanno fatto 40 minuti di zona " non posso non avvertire un certo blocco allo stomaco: come se la sconfitta dipendesse dalla difesa e non dall'incapacità dell'attacco. Quest'anno ho provato a giocare senza tatticismi anche a livello senior, con la B nazionale femminile. Risultato? Siamo stati, senza far un minuto di zona, la terza difesa del campionato e, senza schemi in attacco, siamo riusciti a vincere 14 partite su 24. Abbiamo affrontato e battuto squadre che avevano attacchi organizzati e difese molto tattiche. Morale della favola? La vittoria ha altri padri: la qualità tecnica, la forza del gruppo, la voglia di battersi, il sacrificio di resistere. Le doti tecniche e morali sono certamente più determinanti di quelle tattiche. Eppure anche a me é venuta la tentazione, sebbene esclusivamente durante la fase finale, di ricorrere alle furbate pur di tentare qualcosa che spingesse la squadra a non cercare alibi e a restare in partita. Rimango più orgoglioso di aver vinto un titolo regionale senza ricorrere ad uno schema e ad un minuto di zona non essendo di certo la squadra migliore del campionato. La speranza è quella di vedere i nostri ragazzi tra qualche anno, quando arriveranno in prima squadra, capire ed interpretare il gioco. Della serie: non serve a niente imparare la poesia a memoria, semmai è necessario comprenderne il significato più profondo. Vogliamo atleti consapevoli. Di atleti superficiali non ce ne facciamo nulla: li abbiamo usati, si possono gettare.

lunedì 14 maggio 2012

un anno in blu

Vittoria platonica. Così l'hanno definita. La nostra ultima vittoria. Ma come si permettono? Quale sport hanno praticato per usare termini così irrispettosi? Pensano davvero esista una vittoria più importante di un'altra? Ci siamo lasciati così: in spogliatoio, tra sorrisi, lacrime, applausi e parole dolci per tutti. Un anno duro, intenso, emozionante. Doveva essere una stagione di mezzo, ma qualcuno, tra i ragazzi, voleva di più. Così ci siamo fatti un regalo: andare oltre le aspettative, bruciare le tappe per vivere momenti indimenticabili. Abbiamo mancato l'ultimo passo: troppo alto onestamente, anche se, come sempre, ci abbiamo provato con tutte le forze residue. Ecco cosa ci resta: la voglia di accorciare le distanze dagli altri, la consapevolezza di essere migliori di quando siamo partiti, il desiderio di poter un giorno entrare anche noi nella stanza dei bottoni. E ci resta un titolo: non platonico, ma reale! Ai ragazzi vorrei dire tre cose. Innanzitutto riconoscere la bravura, non tanto tecnica, quanto mentale di aver resistito alle mie richieste ossessive e maniacali. Non è facile allenare, ancor di più allenarsi. La seconda: nulla succede a caso e, soprattutto, nulla viene perduto. Non si riparte mai da zero: quello che é stato fatto, anche se troncato da una dolorosa eliminazione, troverà una spiegazione prima o poi nel tempo. Quello che non si capisce ora diventerà chiaro più tardi: ciascuno avrà la sua rivincita. Per ultimo, non smettere mai di sognare: non è un allenatore in apparenza burbero che può prevalere sulla voglia di arrivare. Nessuno ha il potere di fermare chi guarda dritto e fiero davanti a se. Non diamo agli allenatori un peso più grande di quello che hanno in realtà. Così, nel giro di tre giorni, si chiude un anno di pallacanestro. Un'ottima annata direbbe Russell Crowe. Già, un altro anno da ricordare.

giovedì 10 maggio 2012

un anno in rosa

È nata così per caso, inaspettatamente, questa avventura al femminile. Un mondo già esplorato, ma in gran parte sconosciuto. La scommessa? Cinismo contro sensibilità, idolatria contro ricerca, necessità contro possibilità. C'é più di un aspetto che mi piace delle ragazze e che vorrei fosse trasferito al maschile: l'orgoglio, la carica agonistica, la resistenza, la lotta contro la sopraffazione. Ma soprattutto la capacità di spegnere l'interruttore: a bocce ferme, mentre per me comincia la fase di ruminazione, per loro si apre un nuovo capitolo di argomenti e interessi. Un bel bagno purificatorio al quale non ero abituato. Onestamente è difficile immaginare adesso se la mia proverbiale ruvidezza sia riuscita nell'intento di lasciare un segno in ciascuna di loro. Giuro che le intenzioni erano buone: non c'é soddisfazione maggiore per un allenatore che vedere i propri giocatori/trici arrivare al punto più alto delle proprie possibilità. I metodi, lo riconosco, non sono sempre galanti: se c'è una scusante, una passione smisurata e spesso incontrollata verso questo mestiere. Ho riconoscenza verso tutte, nessuna esclusa. Ma non posso non citare le vecchie del gruppo - le meno giovani come preferiscono definirsi - che hanno accettato di buon grado il difficile compito di trainare e condurre per mano le under in un campionato duro e competitivo. A Marti, Polli e Fra, un grazie speciale. Se c'è una cosa che spinge un tecnico a tornare in palestra é vedere i propri giocatori allenarsi come lui vorrebbe. Non siamo professionisti, nessuno di noi, ma ci siamo comportati come tali. Siamo partiti fra mille incognite e timori, siamo arrivati con qualche certezza in più.

giovedì 3 maggio 2012

non solo diritti

Non ci sono nè alibi nè ragioni. E giustificazioni valide. Usare le mani é un gesto inqualificabile. La storia, quella grande e quella piccola, insegna che la violenza non è mai stata utile nella soluzione dei problemi. La rabbia, sebbene in alcuni casi possa raggiungere il livello di guardia se non oltre, dovrebbe trovare altri sfoghi e bersagli: lo dice uno che si è rotto l'alluce per un calcio dato ad una panca improvvisamente diventata poco morbida. Fatta la premessa, è doveroso un approfondimento. Un giocatore non può e non deve mancare di rispetto all'allenatore. Non è solo nè tanto una questione di buona educazione: è un codice a cui tutti si attengono. Non si capisce infatti perchè ciò che é permesso ad uno debba essere vietato ad altri. Un giocatore gode di diritti, allo stesso tempo è soggetto a doveri. Professionista o dilettante, pagante o meno. Quali? Rispetto per l'allenatore, i compagni, gli avversari, gli arbitri. È dovere, ad esempio, non assentarsi agli allenamenti o gare se non per motivi gravi, arrivare puntuali, impegnarsi al massimo. Riconoscere nell'allenatore l'autorità preposta affinchè l'attività possa funzionare nell'interesse generale: il modo di percepire le cose da parte di un giocatore non è lo stesso di chi deve prendersi cura di tutti. Una sostituzione potrebbe essere mal percepita da chi ne è coinvolto; l'allenatore ha comunque il compito di mettere la squadra nelle migliori condizioni per competere. Senza dimenticare che per 11 che scendono in campo ce ne sono altri 8 pronti ad entrare: uscire scrollando la testa o sbuffando è comunque un gesto scorretto e volgare nei confronti dei compagni che spesso attendono spasmodicamente il proprio turno. E chi non gioca mai cosa dovrebbe dire? Delio Rossi è andato oltre, non ha fermato il proprio istinto e ha sbagliato. Ma i suoi pugni, per quanto indegni, avevano un'origine. Non se li é inventati. Denunciamolo, processiamolo, ma il problema resta. Se i ruoli vengono ribaltati, tutto è in pericolo: le famiglie, la scuola, lo sport. È vero quello che dice Ettore Messina: l'autorità va guadagnata, non imposta. Ma non tutti siamo come lui. Ogni giocatore, alunno, figlio, deve imparare che esiste una differenza tra chi ha un compito e chi ne ha un altro. Non si tratta di differenza di valore: nessuno potrebbe crescere e migliorare senza distanza. Non tutti gli allenatori sono uguali, non tutti bravi allo stesso modo: uguale però deve essere il rispetto. Parola in disuso purtroppo, o meglio, tutti lo pretendono, ma pochi ne danno.