"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

sabato 30 marzo 2013

chel pistola de Jannacci

Si é chiuso un angolo della mia infanzia, dove la nonna, matriarca per vocazione e necessità, chiamava tutti a raccolta per il pranzo. " L'é prunt! " " É pronto! " gridava minacciosamente dalla sede del suo regno sovrano, la cucina. Così iniziavano dialoghi incomprensibili, del tipo: " ma el pulaster ( il pollo ) l'é minga bun ( mica buono ) " , l'ho cumpra' dal barbun ( barbone ) chi de sota ( qua sotto ) ". " Ma chi che l'é el pistola ( pirla ) chel canta in milanes? " " A l'é Jannacci, mama, no l'é un pistola! " . Così Vincenzo - detto Enzo - Jannacci entrò a far parte della mia vita, con audio cassette macinate giorno e notte, un po' per rallegrare l'ambiente, un po'  per arginare la nostalgia di chi si trovava improvvisamente lontano dalla Madunina, in un posto sconosciuto del nord-est dove il progresso aveva scelto di posare le prime pietre. Il pezzo più gettonato era " el purtava i scarp de tennis ", forse perché era la più allegra e spensierata del repertorio. Più tardi, quando l'uso del dialetto in casa divenne sempre più raro, apprezzai altre composizioni di questo omino sempre sorridente, come se il primo pensiero fosse l'auto appagamento, più che la necessità di comunicare. Da bambino, nativo pordenonese, odiavo mi si dicesse che in me scorreva sangue lombardo. Non mi diceva niente quella strana lingua, non avevo mai visto Milano, tifavo inevitabilmente Milan per fattore ereditario ma non provavo alcun legame con quella terra così diversa e lontana. I miei amici parlavano meneghel e Pordenone mi sembrava la città più bella del mondo. Ora che sono orfano, sebbene ad una certa età, non sono più così sicuro che non esistano contaminazioni. Altrimenti non avrei speso due lacrime per un pezzo di vita che se ne va. Assieme a Jannacci.  

giovedì 28 marzo 2013

come i treni a vapore

come i treni a vapore
come i treni a vapore
di stazione in stazione
e di porta in porta 
e di pioggia in pioggia 
di dolore in dolore
il dolore passerà

ivano fossati

martedì 26 marzo 2013

solo per noi

Con gli anni si acquisiscono virtù, ma anche debolezze. E' da un pò di tempo, ormai, che mi capita di dare peso alle frivolezze. Come, ad esempio, osservare la tribuna. Dovrei occuparmi dei miei giocatori, ma non riesco a sottrarmi alla curiosità. In fondo, chi viene al palazzetto, decide di passare il tempo insieme a noi che siamo in campo. Con qualche differenza, naturalmente. Ho provato anch'io a stare sui gradoni e la sensazione, in genere, è di maggiore tranquillità. Malgrado mi capiti quasi sempre di vedere molti posti vuoti - in maggioranza, solitamente - esistono varie specie di spettatori. Ci sono gli ultras, quelli che sono disposti, per la squadra del cuore, a rovinare la propria immagine e quella degli altri: non risparmiano invettive sugli arbitri e sono disposti, anche a costo della incolumità personale, ad affrontare le ire della tifoseria opposta. Non è necessario che siano molti, ne può bastare anche uno solo: sono riconoscibili perchè non fanno niente per nascondersi. La loro presenza è spesso giustificata dalle multe che arrivano puntualmente in società. A seguire ci sono i tifosi, coloro che sperano nella vittoria della propria squadra e che sottolineano contentezza e delusione con movimenti corporei posati: applausi sui canestri segnati, mani in faccia per quelli subiti. Le parole sono sussurrate e controllate, mai urlate. Ogni tanto fa eccezione un sostegno verbale ai giocatori perchè sentano la voce del pubblico, ma nessun insulto o provocazione. Poi ci sono quelli che stanno in silenzio. Tra questi i curiosi, una strettissima minoranza, coloro che vengono al palazzo per seguire qualche amico giocatore o perchè trascinati da altri. Sono quelli che ne capiscono di meno e, in realtà, si vedono raramente per due volte consecutive. A meno che decidano di passare velocemente a qualche altra categoria di spettatori. Infine ci sono i gufi, quelli che, pur avendo origini identiche alla squadra locale, sperano nella sua capitolazione. Un gruppo in grande espansione, soprattutto dalle nostre parti. Se la squadra di casa perde, attendono l'uscita per esternare la propria soddisfazione. Se invece vince, devono trattenersi non poco per reprimere la rabbia. Faccio fatica a capire il senso di questa presenza, che non raramente intercetto sulla mia pelle come ostile e ingiusta. Un'altra cosa invece ho capito: più gufi ci sono, più fortuna si sparge sulla squadra bersaglio. Non c'è una logica, ma ho statistiche pronte per confermare il dato. Chiudo il cannocchiale e penso: per chi stiamo giocando? Per fortuna, incrocio gli sguardi dei giocatori e mi arriva la risposta - come una borraccia di acqua gelida nel deserto: per noi! Giochiamo solo per noi!

sabato 23 marzo 2013

pasta e sudore

É giá stato detto e scritto tutto. Non é cosí necessario aggiungere che Pietro Mennea sia stato senza ombra di dubbio l'atleta italiano del secolo. Se non altro per essere stato l'unico normotipo a raggiungere risultati straordinari nelle discipline di velocità nell'era del doping di stato. Carlo Vittori, l'allenatore dei record, nel ricordo del suo allievo, ha usato una frase emblematica: in venti anni di carriera, Pietro è ingrassato di sei etti! Questo é il motivo per il quale non sia mai stato amato dai frequentatori dei palazzi e, viceversa, sia stato adorato dalla base sportiva. Il prototipo del normale che diventa eccezionale. Non certo per volere divino, ma attraverso un'etica del lavoro mai vista in circolazione. In una delle sue ultime interviste, ha confessato che, se tornasse indietro, si allenerebbe ancora di più di quanto ha fatto. Tutti coloro che l'hanno visto lavorare in pista, hanno ammesso di non essere in grado di reggere quei ritmi e quei tempi. Uno dei pochi a chiedere agli allenatori di allenarsi più di quanto stabilito: eppure, non ha mai saltato un evento e non ricordo particolari infortuni. Ha conquistato il cuore di migliaia di giovani girando per le scuole e le società sportive di tutta Italia. Il suo messaggio molto semplice e chiaro: nulla é impossibile o, meglio, tutto é possibile se ci si applica al cento per cento con passione e volontà. Parole credibili se a pronunciarle non è un superuomo, ma un signore che ha fatto la storia dell'atletica cresciuto a pasta e sudore. Deve ancora nascere uno come lui nell'universo.

martedì 12 marzo 2013

testa o croce


Superata la boa, non rimane granché. Ho due sogni nel cassetto che, prima o poi, almeno uno, spero possa diventare realtà.
Il primo: con la barca di soldi che ho preso come allenatore vorrei finalmente togliermi uno sfizio: comprare una suite panoramica a Las Vegas e darmi una volta per tutte al guadagno sfrenato. Infatti, non esiste migliore occupazione al mondo se non arricchirsi smisuratamente. Nel dubbio, ho sempre usato il denaro come criterio selettivo. Potevo andare in giro, ma mi sarei dovuto accontentare di pochi spiccioli. Perció ho preferito rimanere sempre nei dintorni, dove prebende e compensi hanno sempre soddisfatto le mie venali esigenze.
Il secondo: con il vagone di sterco che ho preso come allenatore vorrei costruirmi una capanna, come fanno da sempre i Masai, nobile popolo guerriero d'Africa. Banditi contatti elettrici e telefonici, totale isolamento dal mondo moderno e tecnologico. Nessun rumore metallico, nessuna vibrazione, forse qualche sibilo di creatura strisciante e nulla più. Facce nuove e sconosciute, probabilmente più amichevoli delle solite. Dal letame nascono i fior, dice il divin poeta. A me piacerebbe uscissero diamanti.
Entrambe prospettive allettanti, ma per ragioni di tempo una alternativa all'altra. Tirerò la moneta, come sempre, sperando nella buona sorte.

domenica 10 marzo 2013

dietro quella porta

Non è vero che le sconfitte fanno bene. Le sconfitte fanno male. Fanno invecchiare e tolgono energia. Cadere e rialzarsi: questo dovrebbe essere il messaggio subliminale e istruttivo della sconfitta. Ma non è sempre così. Non è così scontato rimettersi in piedi dopo averle prese di santa ragione. Nei film forse, dove i nostri eroi impavidi e indistruttibili, con sette vite a disposizione, ci danno certezza sul buon esito della battaglia. Nello sport non ci sono doppie vite. Non si può rigiocare. Non c'è finzione. Il pallone entra: sei un genio. Esce: sei un cretino. Una legge spietata e crudele. Chi si abbraccia e chi piange, per un maledetto pallone. Come dare un calcio al secchio del latte, come rovesciare il caffè su un'opera d'arte: tanta fatica per crollare sulla sirena. La domanda è ovvia: perché tanto accanimento? Perché tanta masochistica voglia di farsi del male mentre la gran parte delle persone corre nei fine settimana a festeggiare? Sarebbe come chiedere a un giocatore d'azzardo o a chi si lancia con il paracadute perché si ostinano a farlo. Nemmeno io ho risposte convincenti: forse perché le vittorie ci aiutano a stare a galla, ci danno un barlume del senso di ciò che stiamo facendo. Ma non è tutto: l'incertezza sull'esito crea panico emotivo ma anche piacere recondito e fatale curiosità. L'ho sempre detto: siamo fatti male. Dovremmo essere insensibili, impermeabili e impercettibili. Come dei robot che hanno testa, corpo, ma sono senza cuore. Alla fine, invece, ci caschiamo sempre: vogliamo vedere dietro quella porta, noncuranti della salute e della felicità. Amanti del brivido e, nello stesso tempo, nostalgici di pace.