"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

martedì 31 luglio 2012

giochi di prestigio


Quello che è successo a Londra nella ginnastica artistica – concorso a squadre  - è sbalorditivo ed inquietante. Dalle nostre parti si direbbe “pezo  el  tacon del buso!” In estrema sintesi, dopo un pessimo ed ultimo esercizio al cavallo dei giapponesi, da secondi si ritrovano quarti. Gran Bretagna incredibilmente argento – vorrei vedere se fossimo stati altrove - , Ucraina sorprendentemente ma meritatamente terza. Ma qui si consuma la beffa olimpica: i nipponici fanno ricorso, viene accolto, tornano secondi. Gran Bretagna retrocessa, Ucraina – senza santi protettori in cielo – fuori dalle medaglie. Uno scandalo vero e proprio, un furto con scasso in pieno giorno. Il gol non convalidato a Muntari, in confronto, è una barzelletta. Perché? Perché l’esercizio era già stato attentamente valutato: c’era forse bisogno di tornarci sopra? Episodio molto simile con le italiane dei tuffi: per fortuna Cagnotto padre, vero signore, ha evitato code polemiche preservando la concentrazione della figlia per il proseguo delle gare. Nel recente passato, anche alle azzurre della ritmica è toccato in sorte – ma è proprio casuale? – lo stesso beffardo trattamento. Le discipline con valutazione sono da sempre un problema per lo sport: il potere dovrebbe essere lasciato all'atleta, non ad altri. Anche gli arbitri possono condizionare un incontro ma non possono impedire ad una squadra di fare canestro o goal. Un giudice, al contrario,  ha facoltà illimitate: è sufficiente vedere i numeri assegnati ai tuffi per capire quanto sia ampio lo spettro valutativo. E’ come un compito di italiano: gli errori di grammatica sono scientifici, ma la forma e i contenuti sono discrezionali. Senza nulla togliere alle qualità sportive degli ospitanti, anche un bambino si sta rendendo conto che le speranze dei britannici sono maggiormente legate alle discipline dovei giudici possono lavorare sui decimi. Nel basket, ad esempio, l’arbitro può non fischiare un fallo ma non può non convalidare un canestro: per questo, ma non solo, per gli inglesi non c’è speranza. Perfino nei 100 metri, nessuno può fermare Bolt se non sé stesso: difficile imbrogliare dove la variante è il tempo. I cittadini di oltre Manica hanno perso il loro abituale aplomb: poca gloria al momento. Ma non si preoccupino: da qualche parte, in qualche modo, un aiutino arriverà. Per la felicità della Regina e per l’incazzatura del resto del mondo.

lunedì 30 luglio 2012

grandangolo

Ettore Messina ha lanciato l'ennesimo sasso. Come sempre, l'uomo dimostra di essere qualche anno avanti tutti. Il campo di gioco, a suo modo di vedere, è diventato troppo piccolo. Nella pallacanestro del terzo millennio, dominata dalla fisicità e dall'esasperazione atletica, sarebbe il caso di riconsiderare le dimensioni del terreno di gioco. Siamo di fronte ad una proposta poco realizzabile: un conto è ridisegnare le linee interne, un altro é ingrandire il campo. La quasi totalità degli impianti italiani non sarebbe in grado di espandersi oltre. Eppure la provocazione è stucchevole: per ridare  centralità all'aspetto tecnico del gioco, occorrerebbe dilatare gli spazi per favorire gli attacchi e indebolire le difese. In particolare, il campo andrebbe allargato più che allungato. Con un metro in più, sarebbe possibile aumentare la distanza fra i giocatori con due benefici immediati: maggior utilizzo del gioco interno, vicino al canestro, e ridotto uso del tiro dal perimetro a favore delle penetrazioni a canestro. Meno tiro a segno e più capacità nel muovere la palla. Le nostre palestre sono quasi tutte scolastiche: impensabile  modificarne le dimensioni. Non sarebbe però assurdo fare qualche esperimento in campionati e strutture di alto livello - ad esempio l'eurolega - per verificare la bontà della proposta. La pallacanestro è uno sport in evoluzione ed occorre essere continuamente pronti a fare le modifiche necessarie per salvaguardare l'essenza del gioco. In un campo di dimensioni ridotte, è sufficiente essere grandi e grossi per cavarsela: non é un caso, quindi, se i nigeriani - per quanto meritevoli - sono riusciti ad eliminare i greci. Un campo più grande costringerebbe anche i guardiani dell'area a muoversi maggiormente. Se vogliamo che sia ancora la tecnica e il talento a prevalere, qualcosa dobbiamo inventarci. Di partite che finiscono 48-46 ne ho piene le tasche.

mal di celebrità

Federica Pellegrini rappresenta l'emblema di come sia possibile distruggere un campione nell'era post-moderna in suolo italico. Naturalmente nemmeno l'atleta è esente da colpe. Gossip, pubblicità, interviste, partecipazioni ad eventi: nessuno può convincermi che tutte queste distrazioni non incidano sul profilo agonistico della nuotatrice. Il personaggio può piacere o meno: personalmente, mi interesso molto poco dell'antipatia o della permalosità. Mi interessa il sul formidabile talento. E' però innegabile che molte avversarie abbiano spesso utilizzato la vanagloria dell'azzurra per saltarle addosso ad ogni occasione. L'esposizione è diventata, per un atleta di alto livello, la questione più importante da risolvere: è possibile proteggersi dai media e dagli sponsor? Sono drastico: ci vuole una capacità mentale fuori dal comune per rimanere isolati dalle tentazioni di successo e guadagno. Non è un caso che la Pellegrini abbia annunciato un anno di stop: dopo la Filippi - altra nuotatrice di vertice sparita dalla circolazione - siamo di fronte all'ennesima indigestione da stress agonistico. La fatica non è entrare in acqua, bensì non riuscire a trovare una nicchia dove rifugiarsi. Potrebbe chiamarsi mal di celebrità. Oppure, dovere di vincere. Federica ha i suoi torti: avrebbe dovuto difendersi e invece ha continuato ad attaccare. Ma ha i suoi alibi: il sistema è malato, spreme i nostri eroi sportivi e li stritola, spesso a loro insaputa. Castagnetti, tutto questo, non l'avrebbe permesso. Ma il buon Alberto, purtroppo, non c'è più.

mercoledì 18 luglio 2012

amore al veleno

Ho trovato un'alleata. Una certa Caroline Thompson. " Perchè facciamo tanta fatica ad accettare che la costrizione faccia parte dell'educazione? Perchè abbiamo paura che imponendogli delle regole, il bambino ci ami di meno ". Ci vuole coraggio per dire certe cose. Se non altro la sua é una teoria che ha fondamenti scientifici, la mia poggia solo sull'osservazione e su anni di tentativi ed errori. L'amore fa bene, troppo fa male. Ed è quello che vedo tutti i giorni, tra le mura di casa, tra i banchi di scuola, nei campi di basket. Per amore si é disposti a tutto, anche a perdere la testa. Amore che si trasforma nel suo opposto. Non ci sarebbe spiegazione, altrimenti, se ad una partita mini basket padri e madri sono disposti ad abbandonare il bon ton e a prendersi per i capelli. L'amore é cieco: infatti, se parlate con qualsiasi genitore, esiste esclusivamente il proprio figlio. Nei giochi di squadra, il troppo amore combina dei disastri irreparabili: lotte intestine tra giovani giocatori per impossessarsi della leadership. Risultato? Fallimento su tutti i fronti: agonistico, educativo, sociale. Stritolati da questa morsa affettiva, i ragazzi sono costretti ad accontentare i sogni degli adulti: ciò che é normale - ossia che uno su centomila ce la fa - diventa un dramma familiare dal quale é difficile, se non impossibile, rialzarsi. La frustrazione è una malattia grave dalla quale è necessario vaccinarsi prima possibile: bambini e ragazzi non devono essere infelici, delusi, falliti. La vita è già brutta di per sè: ci mancherebbe che i nostri figli debbano rovinarsela in tenera età. Così, guarda caso, i ragazzi faticano a diventare adulti e l'ingresso nel mondo reale diventa spesso traumatico. " L'amore collusivo, privo di autorevolezza, che si rifiuta di porre limiti per paura di essere rifiutato, è immaturo e infantile, non rispetta le distanze e rovescia i ruoli, idealizzando i figli invece di offrire loro un modello da seguire ". L'amore può essere velenoso. Questa è peggio di me. Impossibile.

lunedì 16 luglio 2012

alessia d'oro

Altezza e attitudine al lavoro li ha presi dal babbo Rudy, ex giocatore di basket vecchio stampo: lungo per necessità e gran faticatore del campo, giocava nei pressi del canestro tra una gomitata data e un rimbalzo preso qua e là. Pulizia gestuale e preparazione certosina, invece, sono merito dell'allenatore, ex insegnante dell'iti Kennedy, neo-pensionato, negli ultimi anni coordinatore provinciale di educazione fisica. Tutto il resto é suo, ossia di Alessia Trost, neo campionessa mondiale juniores di salto in alto. Una pordenonese ai vertici dell'atletica, probabilmente la nuova erede di Sara Simeoni e Antonietta Di Martino. Gara difficile, persa e vinta almeno un paio di volte, con tutta la squadra azzurra in piedi a tifare da stadio la propria capitana per l'ultimo atto della manifestazione. Riuscire per ben due volte al terzo tentativo, ad un passo dal fallimento, significa che questa ragazza ha attributi e grande forza d'animo. Quello che, sotto sotto, si chiede ad un atleta: essere presente nei momenti decisivi. Facile fare i fenomeni quando non conta: se sei favorita e hai tutta la pressione addosso - sapendo tra l'altro che la spedizione azzurra non si é rivelata molto soddisfacente - le possibilità di sbagliare, in una disciplina dove la soglia di attenzione é determinante, raddoppiano. Non più tardi di una settimana si trovava alle prese con un'altra asticella, quella della maturità scolastica. Esito? 88 (ottantotto)! Messaggio chiaro ai coetanei: si può essere campioni da entrambe le parti. Poco importa se 1,91 non è sufficiente per arrivare a Londra: purtroppo, le federazioni con i loro cavilli e restrizioni hanno la vista troppo corta per capire quanto sarebbe stato importante misurarsi con le migliori. Pazienza: tra quattro anni ne passa un'altra! Nel frattempo proviamo tutti per una volta, almeno per un giorno, ad essere orgogliosi e non invidiosi di un'atleta che porta in giro un'immagine vincente della nostra città. Abbiamo mille motivi per lamentarci, anche in ambito sportivo, ma questa è la dimostrazione che con mezzi e strumenti limitati si può arrivare in cima. Brava Alessia. Bravo Gianfranco (Chessa). Un oro fatto in casa.

domenica 15 luglio 2012

drìo cul

Pazzesco ed inquietante. Non trovo aggettivi migliori. La federazione italiana pallacanestro ha deciso, per l'ennesima volta, di tirarsi la zappa sui piedi. Sono scomparse dalla geografia cestistica che conta realtà importanti come Teramo per il maschile e Como - pluri scudettata e con trofei continentali - per il femminile e il consiglio federale cosa decide? Che Treviso non può iscriversi alla serie A. Una piazza storica, una terra che vive di basket e che ha costruito e dato per anni giocatori importanti alle nazionali giovanili e maggiori. Ma c'é un cavillo: la nuova società, che ha rilevato il glorioso marchio Benetton, non é affiliata - o, meglio, si è affiliata troppo tardi - perciò non si possono creare pericolosi precedenti. Tutti sanno che la nuova Treviso non ha nulla di diverso dalla vecchia, ma importante è rispettare le regole. Interessante: mentre molti club rinunciano per difficoltà economiche insormontabili, si pensa di escludere una realtà che ha fatto le capriole per reperire risorse e per farsi trovare in regola con i conti. Di questo passo, in breve tempo la serie A diventerà un circolo ristretto per pochi eletti e nel giro di pochi anni avremo bisogno di giocare in Europa per trovare squadre con cui competere. Tutti, e per prima la federazione, dobbiamo capire che sono finiti i tempi della cuccagna. Non si possono chiedere bilanci in regola alle società e poi sperperare al proprio interno: ha ancora senso vedere raduni della nazionale con otto persone al seguito? Allenatore, assistente e fisioterapista: serve altro? Spariscono squadre, meno lavoro per allenatori e giocatori: è questo quello che vogliamo? La cosa inquietante, per tornare all'inizio, é che si é disposti, per il rispetto delle norme, a chiudere baracca. Insomma, mi sembra di sentire Celentano - quello dei tempi migliori - "il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va". Anzi, drìo cul, per dirla in trevisano.

venerdì 13 luglio 2012

paris vous attend!

Che il basket femminile sia in difficoltà lo dimostrano i numeri. Squadre e praticanti in calo. Ma la qualificazione agli europei ottenuta dalla nazionale maggiore ha il dolce sapore del riscatto e della volontà ferrea di non arrendersi. A volte bisogna sapersi arrangiare: se non ci sono nomi squillanti, si lavora sul gruppo e sull'orgoglio. Questa è l'italdonne: una squadra giovane, capitanata dall'unica trentenne rimasta, Raffaella Masciadri, sostenuta dall'unico vero talento, Giorgia Sottana, e dall'entusiasmo di tutte le altre. Invece che piangersi addosso, si é scelto di lavorare duro. Il lavoro ha pagato e ha fatto la differenza. Questo risultato - inaspettato e proprio per questo più bello - indica la strada: piuttosto che rimpiangere ciò che non c'è più o non esiste, si fa con quello che c'è. È giusto impegnarsi per migliorare l'esistente, ma a volte l'esistente è già sufficiente. La carenza di talento può essere colmata dalla ricerca della solidità e della coesione. La bravura dell'allenatore é stata proprio questa: convincere le giocatrici che il sacrificio comune avrebbe portato soddisfazioni per tutte. Così è stato. Chapeau italienne: Paris vous attend!

giovedì 12 luglio 2012

piedi in fuga

Chi guadagna spropositamente - intendendo fuori ogni logica e misura - in Italia sono, in ordine alfabetico, calciatori, manager, parlamentari. Sugli ultimi due é meglio che mi astenga. Per quanto riguarda i primi, si intendono naturalmente giocatori della massima serie, anche se, da quanto mi risulta, giocare nei campionati  cosiddetti dilettantistici può essere più conveniente che lavorare in fabbrica. Sono milanista da sempre - forse da prima che nascessi - e ho gioito per le strade e mi sono bagnato nelle fontane per le coppe dei campioni vinte - così si chiamavano ed era un nome più bello e chiaro - e per i trofei intercontinentali conquistati. Tra questi eroi, Van Basten è stato il più grande di tutti: tecnica sopraffina, senso del goal, atteggiamento vincente. Oggi squadre del genere non sono più proponibili: a malincuore, frenando il mio istinto da miope tifoso, ritengo sia giusto così. Il calcio italiano - ma non solo - è andato oltre i propri limiti, si è gonfiato al punto da non essere più in grado di sopravvivere. Ha ragione Galliani, - almeno in questo - vince chi fattura di più: perciò mettiamocela in tasca, le squadre italiane in Europa non vinceranno per un bel pezzo. Forse é il momento di ripartire dai giovani e di crearsi in casa i giocatori del futuro. O forse é meglio fare come Pozzo che i gioielli li scova in ogni angolo del mondo e se li coltiva in proprio con uno staff tecnico di prim'ordine. Certamente non è più tempo per partecipare alle aste: se Ibrahimovic costa troppo, é giusto che se ne vada. E' vero che Xavi e Iniesta hanno ingaggi alti, ma almeno il Barcellona se li é costruiti in casa. Certamente c'è da riprendere in mano, in una fase di recessione mondiale, il concetto di salary cup ( tetto massimo ): che senso ha pagare 10 milioni di euro all'anno? Come si fa a dire che sono meritati? Operai, turnisti, impiegati, insegnanti, non meriterebbero di più? Eppure, viene detto, non ce ne sono. Perfetto, bisogna avere lo stesso coraggio: dire ai signori che in fondo fanno la miglior vita possibile, che non ce ne sono. Andranno altrove? Pazienza, anche i nostri migliori cervelli sono costretti ad emigrare. E se perdiamo le migliori teste, possiamo perdere i migliori piedi.

domenica 8 luglio 2012

perfezione

Mi chiedo se sia possibile stabilire una gerarchia tra atleti di discipline ed epoche diverse. Ovviamente la risposta é negativa. Come si fa a comparare uno sciatore con un giocatore di basket? O un decatleta con un golfista? Eppure tutti quanti avrebbero ottimi motivi per meritarsi il consenso planetario. Però a me piace giocare e nella mia immaginazione ci sono atleti che per risultati, atteggiamenti, virtù non solo tecniche hanno lasciato più di altri un'impronta indelebile nella storia sportiva. A dire il vero ce n'é uno che riassume il concetto di atleta perfetto e corrisponde al nome di Roger Federer. Un mix riuscito di qualità tecnica, intelligenza tattica e solidità caratteriale. Nessuna sbavatura, mai un gesto sopra le righe. Rispetto assoluto per l'avversario al quale non fa mai mancare parole di elogio e di stima. Pur avendo vinto tutto non ha ancora placato la fame. Signore nella vittoria ma soprattutto nella sconfitta. Cultore del lavoro più che dell'apparenza. Amato e rispettato da tutti malgrado abbia distribuito molta sofferenza tra gli irriducibili sfidanti. L'ultima vittoria di Wimbledon, in ordine di tempo, è stato un capolavoro di sagacia, esperienza, consapevolezza.  Persino Murray, l'idolo di casa, ha scherzato sulla presunta parabola discendente del campione che sembra non conoscere tramonto. Una bella pagina di sport: vedere i duellanti combattere senza risparmio, abbracciarsi alla fine e piangere con il microfono in mano che certamente padroneggiano molto peggio della racchetta. Confesso di essermi commosso: non c'è niente, come lo sport, che possa regalare emozioni di questa intensità. Nemmeno i vecchi film d'amore di cui mia madre era divoratrice e dove le lacrime scorrevano copiose assieme ai titoli di coda.

venerdì 6 luglio 2012

ignoti naviganti


E’ insopportabile e non più tollerabile. E’ come prendere una legnata da un tizio con il volto coperto. Anzi, peggio, molto peggio. Dietro un bastone c’è un corpo, dietro l’anonimato il vuoto, il nulla. Da questo gioco al massacro mi sono tolto ormai da un bel pezzo senza rimpianti e con una buona dose di salute in più.  Lo sputtanamento in rete è l’ultima invenzione della cattiveria umana: in realtà, quella che doveva essere una piazza virtuale in cui discutere serenamente si è trasformata in un campo di battaglia – senza spazio né tempo - dove tra elmi e corazze è impossibile distinguere sostenitori ed avversari.  Le chat e i forum sono vere e proprie discariche sulle quali rovesciare i detriti dell’animo.  Chi non ha il coraggio di mettere la faccia non dovrebbe avere diritto di parola. Ho fatto la mia battaglia, l’ho perduta, ciascuno faccia i conti con se stesso. Provo nostalgia per i vecchi dibattiti pubblici: se qualcuno voleva intervenire, si alzava, percorreva il tratto verso il palco consapevole delle centinaia di occhi puntati addosso, prendeva nervosamente il microfono ed esponeva le proprie opinioni noncurante – o forse si? – delle reazioni non sempre compiacenti. Tempi epici: per parlare ci voleva fegato. Per sparlare, come si usa oggi, ce ne vuole molto meno. Rimango fermo nell’idea che chi comanda il gioco dovrebbe dettare le regole. Se l’arbitro non fischia, autorizza le squadre a menarsi. Chi fa le carte, dovrebbe governare e non speculare. Ma qui entriamo nel campo etico, poco frequentato dall’uomo moderno e soprattutto da chi detiene responsabilità. In tutta questa vicenda, l’aspetto deteriore è la vigliaccheria: si è più preoccupati di non farsi vedere che di colpire. Poi leggo delle denuncia a De Laurentis per aver detto cafone ad un giornalista: gesto maleducato, ma non certo codardo. Non saprei dire cosa è peggio. Anzi, visti i tempi, forse non avrei dubbi.

mercoledì 4 luglio 2012

highlander

" L'ho capito a Cento, 
perchè non sentivo il fuoco dentro di me. 
L'ho capito perchè la sconfitta 
in quella ultima maledetta partita 
non aveva il sapore della disperazione 
come tante altre volte. 
Ringrazio tutti. 
Quelli che mi hanno amato
 e quelli (tantissimi) che mi hanno odiato.
 Tutti mi avete regalato emozioni. "


 Mario Boni - 49 anni - dopo l'ultima partita disputata

martedì 3 luglio 2012

colpi sinistri

Se potessi prenderei tutti mancini. Sono imprevedibili, svelti, estrosi. Non é un caso che il tennis e la scherma ne siano pieni. Il mio giocatore preferito? John Mc Enroe, senza dubbio. Un genio della racchetta. Nel tennis di oggi fatto di pallate e scambi infiniti ne sento particolarmente la mancanza. Spesso irriverente, certamente, ma capace di emozionare e di lasciare a bocca aperta gli spettatori, reali e televisivi. Per lui non era solo importante fare punto: fondamentale che fosse speciale, frutto di costante invenzione offensiva. Non c'era uno scambio uguale all'altro: una varietà di colpi impressionante. Guardare oggi una partita di tennis è come seguire il gran premio: dopo il primo giro può iniziare la siesta. Per fortuna c'è Wimbledon, che grazie alla velocità dell'erba ci risparmia noia e sbadigli. Torniamo ai mancini: un tempo erano considerati anormali, oggi sono ricercati, soprattutto nello sport. Non é più un mistero che essendo governati dall'emisfero destro possiedano maggiore creatività - un esercito gli artisti - e velocità di reazione. Manu Ginobili è la raffigurazione chiara di quali danni possa combinare un giocatore di mano sinistra ad una squadra avversaria: estro, genialità, imprevedibilità. In sintesi, immarcabilità. Altri mancini illustri? Ayrton Senna, Valentino Rossi, Pelè, Maradona, Messi: c'é bisogno di qualcun altro? Sarebbe bello poter vedere, almeno per una volta, cinque mancini in un campo di basket schierati contemporaneamente: uno spettacolo indescrivibile! E chissefrega se nessuno difende, visto che in genere i creativi sono per definizione restii alla fatica. Per una volta facciamo che il risultato non conti: il divertimento é assicurato!

lunedì 2 luglio 2012

sempreazzurro

Quello delle nazionali é un problema serio. Intendo tutte, dal calcio alla pallanuoto. Siamo bravi a vestirci d'azzurro e altrettanto a riporre magliette e trucchi fino alla prossima occasione. Chissà poi se ci sarà un'altra occasione. L'Italia del basket soffre tanto quanto se non più quella del calcio. Non si può vivere solo di fortuna e buone annate. Ci vuole programmazione, volontà, investimenti. In una parola: ci vuole coraggio. Se la Spagna domina nei giochi di squadra qualcosa deve pur significare: dobbiamo solo pensare a un fatto divino? Dobbiamo aspettare che i vari Gasol, Navarro, Iniesta e Xavi abbandonino il campo per poter sperare? I cloni sono già pronti: Rubio, eccezionale playmaker classe 90 già approdato in America, e molti altri sono già in pista a raccogliere l'eredità dei campioni. In Spagna si programma e non si lascia nulla al caso: i migliori vengono selezionati, formati in centri di alta specializzazione e lanciati quanto prima nel basket che conta. In Italia i giovani marciscono in attesa che si apra qualche porta miracolosa. Alcuni, in realtà, non fanno molto per guadagnarsi il posto. Del resto, Siena, società dominante, come azzurro ha solo Aradori con un minutaggio di circa 10 minuti a gara. La colpa non é di Siena: il suo compito è vincere e cerca di farlo con mezzi appropriati e legali. La federazione combatte da anni con i club per le quote garantite, ma é una battaglia persa. Le società hanno bisogno di vendere il prodotto, non di costruire giocatori. Così gli italiani approdano in squadre di seconda fascia per poter giocare e non fanno esperienza internazionale - vedi coppe europee - indispensabile per diventare giocatori competitivi. Occorre dare merito a Scariolo di aver fatto giocare Melli e Gentile durante la finale scudetto dando loro fiducia e presenza assidua in campo. Ma non è sufficiente: le squadre under 20 azzurre ottengono sempre buoni risultati in Europa, come mai questi giocatori non trovano ampi spazi nei grandi club? Gli allenatori, pur di non perdere il lavoro - dargli torto? - sono restii a lanciare nell'agone giovani virgulti: d'altra parte, sono giudicati sui risultati, non sulla valorizzazione del prodotto locale. La parabola discendente del basket azzurro coincise con l'argento alle Olimpiadi di Atene: non ci fu adeguato ricambio e ci si sedette sugli allori. Le nazionali abbisognano di un'attenzione continua, non solo sporadica. Solo così potremo tornare ad essere vincenti e ad esprimere un'identità sportiva frutto di una scuola inconfondibile. Perchè all'Italia, la piccola Italia, non manca nulla per vincere: genio, scaltrezza, spirito di gruppo, sono ingredienti che appartengono a questo popolo fin dall'antichità. Basta guardarsi attorno.