"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

giovedì 28 novembre 2013

battaglie perse

Mi prende spesso la folle idea di cambiare mestiere. Ormai troppo spesso e non é un segnale confortante. Lavorare con i giovani é affascinante e suggestivo ma, ahimè, decisamente logorante. Ci sono alcuni aspetti sui quali é impossibile incidere: primo fra tutti, il cosiddetto fenomeno della tempesta ormonale, imprevedibile e incontrastabile. Non c'è nulla da fare: quando il corpo esplode, i freni inibitori vanno a farsi friggere. Non è un caso che l'età più pericolosa - ed incosciente - coincida con i primi anni dell'adolescenza o, se si preferisce, con gli ultimi della pre adolescenza. Scolasticamente parlando, terza media e prima superiore. L'organismo é come una locomotiva a piena velocità, mentre la testa é in perenne stand by. Corpo e mente sono fuori equilibrio. La percezione del rischio e delle conseguenze é limitata al minimo sindacale: infatti, gli infortuni in palestra sono all'ordine del giorno. Per non parlare dei danni provocati non solo alle persone, ma anche agli oggetti e agli ambienti. Se andate nelle curve, vi accorgerete che l'età media non supera i 16: finalmente un luogo dove non esistono regole o limitazioni. Oltre agli ormoni, esistono altre variabili, non dettate dal ciclo vitale, che possono allentare o addirittura maggiorare il livello di instabilità. Sopra tutte, la presenza o meno di adulti significativi. É risaputo che in coincidenza con la pubertà cresca naturale l'insofferenza verso ciò che rappresenta l'autorità o la legge. I genitori e gli insegnanti sono i primi bersagli. La mia impressione, ma potrei sbagliarmi - anzi, vorrei sbagliarmi - é che gli adulti, di fronte alla difficoltà del compito e alla durezza della lotta, abbiano deciso di abdicare alle proprie responsabilità educative. I ragazzi sono abbandonati a se stessi, artefici del proprio destino e in assenza di punti di riferimento. Non sono così convinto che la strategia della lontananza o del lasciar perdere sia, alla lunga, così vincente. Il mio campo di battaglia quotidiano, la cucina, non é mai disabitato. Non sono molto simpatico agli abitanti, ritengo però non si debba far passare mai nulla per scontato. Spesso si confonde ciò che é possibile fare con ciò che é giusto fare: pur di passare da bigotto, non mi rassegnerò mai a combattere questi concetti. Anche a scuola e in palestra non ho l'anda di chi potrebbe essere invitato a cena da un momento all'altro: forse dovrei allentare la presa ogni tanto, se non altro in un'ottica di conservazione della salute. Spesso colmiamo, senza presunzione, il vuoto lasciato da altri. Non é di certo conveniente fare gli sceriffi, ma forse é più utile. Nella certezza, comunque, di essere nel campo delle ipotesi e dove gli interventi sono in realtà tentativi maldestri. Una tattica di gioco, in questo campo, non esiste. Spesso, purtroppo, la nostra é una battaglia persa.

giovedì 14 novembre 2013

martiri di gioco



Ora faccio il bigotto bacchettone. Del resto mi ci trovo bene. Insegno. Alleno. Non posso fare a meno della morale. La  predica é la seguente: la violenza non é mai giustificabile. In nessun caso. Anche se la stessa offesa é violenta. Anche se le leggi sono ingiuste. Anche se sono a rischio la famiglia, il lavoro, la stessa vita. Anche se minacciati. Legittima difesa? Parliamone, l'estensione del concetto può spaventare. Guerra giusta? Due parole che non possono sposarsi. Perciò non posso accettare, nella mia mentalità ortodossa, che nelle vicende di Salerno si possa parlare di inevitabile effetto date le cause. Non mi piace nemmeno la legge restrittiva sugli stadi: infatti, ha già mostrato le sue crepe e l'inadeguatezza del caso. Non é un problema di repressione. É un problema di cultura sportiva e di cultura in generale: se vi capita di frequentare qualche adolescente, di qualsiasi estrazione si parli, vi accorgereste dell'abbandono in cui spesso si trova a vivere. Gli adulti hanno abdicato alla funzione educativa e questi sono i risultati: generazioni senza freno e controllo, che danno un senso all'esistenza esercitando la forza intesa come identità del branco. Presi da soli, sono tutti bravi ragazzi di brave famiglie: presi insieme, si trasformano in animali che devono difendere il territorio. Ha ragione Michele Serra quando dice che allo stadio ormai ci vanno solo i blindati in tribuna d'onore e i teppisti in curva: il tifoso normale ha già optato da tempo per la poltrona e l'abbonamento televisivo. Per sconfiggere la violenza ci vuole coraggio: ecco perché contesto l'atteggiamento dei giocatori. Avere coraggio non significa non avere paura: ma se nel nostro nobile passato non ci fosse stato qualche indomito, non potremmo vivere in una società libera - almeno apparentemente -. Deleterio e incomprensibile l'annuncio del dirigente di dimissioni di massa: l'arrendevolezza é l'alimento più sostanzioso per i delinquenti. La storia, non solo e non tanto calcistica, insegna che alla brutalità non si deve cedere. Non potendo rispondere alla violenza con la violenza, per il postulato espresso in alto, non c'è altra strada: fare il proprio mestiere fino in fondo. L'arma spuntata ma più efficace per i calciatori é riprendersi il campo di gioco. A volte, la risposta é più semplice della domanda. Martiri di gioco.

martedì 12 novembre 2013

alibi da parte

Se l'argomento principale di una partita di pallacanestro diventa la direzione arbitrale significa che é in corso una fase degenerativa e, per certi versi preoccupante, del nostro bellissimo sport. Ho sempre pensato agli arbitri come ad una componente essenziale ma non sostanziale del gioco. Non é richiesta perfezione: del resto, esistono giocatori o allenatori perfetti? Casomai sono richiesti serietá, impegno, rispetto. É innegabile, se manca qualcuno con il ruolo di garante delle regole, non è possibile disputare alcun incontro agonistico. Allo stesso tempo, rimango convinto che non sia l'arbitraggio a determinare l'esito di una gara. Sarebbe troppo semplice scaricare su altri le proprie incapacità. Non si capisce come, ad esempio, nessuno sia disposto ad ammettere di aver vinto per merito degli arbitri, mentre il contrario é praticamente sulla bocca e nelle cattive abitudini di tutti, allenatori di grande fama compresi. Questo malvezzo diventa insopportabile e improduttivo soprattutto se riferito a competizioni giovanili. Non mi soffermo sullo spettacolo indecente a cui spesso capita di assistere quando gli adulti presenti in tribuna, pur di proteggere gli inevitabili errori dei piccoli giocatori, danno la peggiore immagine di sé ingaggiando furiose liti con altri spettatori o gridando di tutto ai direttori di gara, spesso giovani ed inesperti. Ciò che interessa e preoccupa veramente sta invece nella cultura dell'alibi che si insinua precocemente nella mentalità delle nuove generazioni. Se un allenatore si occupa degli arbitri e non dei propri giocatori significa che non ha capito nulla: c'é talmente tanto da correggere i propri che non avanza tempo per farlo con altri. L'obiettivo non é vincere a tutti costi una partita, semmai costruire giocatori forti nell'animo e nelle convinzioni. Pensare che la vittoria non dipenda dalla nostra prestazione ma da fattori esterni vuol dire affidare ad altro o ad altri il potere di decidere sulle sorti di un incontro. Un giocatore deve essere in grado, fin dalla più tenera età, di riconoscere i propri limiti: solo adulti saggi possono aiutare i ragazzi in questo difficile e tortuoso percorso dove le responsabilità non vanno cercate altrove ma dentro se stessi. Perdere una partita per guadagnare un giocatore: una partita si può sempre vincere, un giocatore si può perdere per sempre.