"Non è il cammino impossibile, ma l'impossibile è cammino"

venerdì 24 febbraio 2017

la vita perfetta

Per quanto assurda ci sembri la vita è perfetta. Chissà cosa ne pensa il povero Ranieri della canzone della Mannoia, visto che nel giro di pochi mesi è passato da eroe trionfatore a zimbello da rottamare. Forse a Leicester si sono montati la testa o forse - purtroppo più probabile - la società ha ceduto ai capricciosi ricatti dello spogliatoio, in particolare dei senatori, gli stessi sorpresi un po' di tempo fa nel portare in trionfo il mister dei miracoli. Un giorno sei un genio, il giorno dopo un incapace. La verità è che Ranieri era bravo ancor prima di vincere l'inaspettato scudetto in terra anglosassone ed è bravo ancora adesso che lo hanno cacciato a pedate nel sedere. Semplicemente il mondo va così, la gratitudine è un valore obsoleto e i problemi vanno risolti in fretta e senza condizionamenti emotivi. Chissà che fine faranno i santini e le statuette con il volto del nostro eroe declassato e spodestato, forse un giorno, tra molti anni, diventeranno prelibatezze rare per fini collezionisti. Le trasmissioni che ne hanno fatto un gigante del mondo del football dovranno essere accantonate e rimandate in onda in momenti più opportuni: forse al prossimo titolo vinto in qualche sperduto paese ai confini della terra. Morale della favola, purtroppo a non lieto fine: nessuno può sentirsi più sicuro di nulla, nemmeno dopo aver toccato il cielo con un dito. Raggiunta la veneranda età di 65 anni, si pensa erroneamente di non aver più nulla da dimostrare: e invece, tutto quello che è stato fatto non conta nulla perché conta solo quello che succede in questo istante. La storia è cancellata, il libro è bianco, la memoria è perduta. Il presente diventa l'unico parametro decisionale, perciò non importa un fico secco se hai fatto sognare una cittadina sconosciuta al grande calcio e l'hai condotta in cima alle attenzioni mondiali, se hai fatto diventare campioni dei giocatori scartati o se hai vinto uno scudetto con un budget ridotto all'osso. Il famoso curriculum è solo un foglio di carta pronto per essere usato in emergenza igienica: si faccia avanti il prossimo, ma faccia attenzione a non innamorarsi troppo dell'ambiente. Meglio rimanere freddi: gli addii sono meno dolorosi.

giovedì 23 febbraio 2017

a fondo perduto

Mi metto dalla parte degli allenatori che spesso lamentano l'inutilità dei propri sforzi. Lavorare con la specie umana è esaltante ma terribile allo stesso tempo: non è così facile ed automatico vedere risultati concreti, se non quelli spesso fallaci che appaiono sui tabelloni elettronici appesi ai muri e che raccontano una parte, a volte molto ridotta, di verità. Come non è detto che una vittoria sia indice di miglioramento, così una sconfitta non lo è di peggioramento. Nel campo della formazione, perché di formazione umana stiamo parlando, non c'è un rapporto diretto e immediato tra causa ed effetto: se c'è un pezzo di ferro storto, posso raddrizzarlo con una martellata; se c'è invece un errore tecnico ripetuto, non è detto che l'intervento correttivo possa dare dei benefici in tempi ragionevoli. Può essere, anzi capita molto spesso, che ci siano attori diversi tra chi semina e chi raccoglie: per quanto si possa ipotizzare il futuro di un giocatore, esistono spazi enormi di incertezza nel percorso tra un prodotto allo stato grezzo e finito in tutte le sue parti. Quindi è tutto inutile? No, non è tutto inutile, ma è necessario essere pazienti e generosi. Pazienti, perché i tempi di costruzione umana non seguono le stesse regole dei materiali solidi: se il mattone è l'unità di misura di una casa, per un giocatore non abbiamo parametri scientifici certi. Generosi, perché è possibile che un giocatore diventi tale prescindendo dalle nostre fatiche e prodezze: donare un giocatore senza appropriarsene significa riconoscere che nessuno è in grado, da solo, di risolvere i problemi della pallacanestro e che tutti, già proprio tutti, abbiamo bisogno uno dell'altro. Sarà capitato anche a voi l'amletico dubbio: dobbiamo essere contenti o arrabbiati che un cestista passato anche per le nostre mani ci faccia il deretano da avversario? Contenti certo, perché abbiamo contribuito a farne un giocatore. Arrabbiati certo, perché avremmo voluto averlo dalla nostra parte. Forse così assumono significato le parole del grande Boscia ' fare il bene senza un perché, a fondo perduto '. Già, a fondo perduto, è così che un allenatore sopravvive allo scoraggiamento: dare se stessi senza aspettarsi nulla in cambio. Che vita grama.

venerdì 17 febbraio 2017

basta la parola

La voce. Per chi gioca a pallacanestro, il sesto uomo in campo, soprattutto in difesa. Collaborare, mandando e ricevendo messaggi ( non virtuali ), gratificare per un passaggio ricevuto, incoraggiare  risollevando l'umore, arrabbiarsi per dare e ottenere il massimo. Eppure la voce, soprattutto per i giovani in campo, rimane un grande tabù: nessuno parla, nessuno avvisa, pochi incitano se non in rare occasioni. La voce è la differenza tra una somma di singoli e una squadra vera: da una parte un insieme scomposto di pseudo giocatori costruito sulla sabbia, dall'altra un gruppo di cemento armato con identità e appartenenza indistruttibili. Com'è che la confusione, spesso chiassosa, degli spogliatoi non si riversa quasi mai in campo? Sembra di assistere ad una messa: l'arbitro come celebrante, i chierici al tavolo, i giocatori come fedeli osservanti del silenzio, i canestri veri altari proiettati verso il cielo. Ogni tanto si sentono le urla disperate degli allenatori e qualche sortita infelice dalla tribuna: chi dovrebbe parlare tace e chi dovrebbe tacere parla. Spesso la parola viene usata nel peggiore dei modi: per accusare gli altri, per trovare alibi al di fuori di se stessi, per lavare la coscienza con l'acqua quando servirebbe un quantitativo straordinario di sana umiltà. Questa è la cosiddetta voce distruttiva, quella che avvelena e che lascia strascichi fallimentari: di gran moda oggi, purtroppo, perché ferire assomiglia più ad un vanto che ad una colpa. In panchina invece di urlare e di gesticolare, si chiacchiera: certamente molto elegante, ma poco redditizio. Chi partecipa e vive la partita in attesa, si farà trovare sicuramente pronto quando l'attesa avrà fine ( a meno che, si spera di no, l'attesa non abbia mai fine, ma questa è un'altra faccenda ). C'è anche una voce interiore che va ascoltata, quella che dopo ogni errore ci dice di dimenticare e andare oltre e dopo ogni prodezza ci dà una bella pacca sulla spalla: imparare a parlare con se stessi è come giocare con un amico accanto che ci consola e ci premia in continuazione. Nel tentativo maldestro e infausto di correggere le mie sclerotiche abitudini, una madre coraggio un giorno mi avvicina dicendo ' ma lei non dice mai una volta bravo '. Al che ho risposto con la mia solita sgarbatezza ' signora, ma le pare che dopo un canestro, con tutto quello che succede dentro, sia necessario aggiungere qualcosa? ' . Lascio a voi la fine della storia. Ero giovane e inesperto, a quel tempo.

lunedì 13 febbraio 2017

a me gli occhi




Rubando questa splendida immagine - lo ammetto non sono del tutto imparziale - non posso fare a meno di pensare al potere degli occhi. In una recente intervista, dopo il ritiro dalle scene pubbliche ( ahimè ), Ivano Fossati ha confessato che le canzoni, prima che con le parole e la musica, si scrivono con gli occhi. Bene, anch'io sono convinto che la pallacanestro, prima di tutto, si giochi con gli occhi. Non è solo un esercizio di osservazione, è qualcosa di più profondo: è intuito, lettura delle emozioni, cattura delle intenzioni altrui. Guardare in faccia l'avversario per dare e ricevere informazioni che nessun video o scout possono fornire: non ci sono emozioni nello sport che gli occhi possano nascondere, così come captare lo stato d'animo degli avversari può essere un'arma legale per guadagnare un vantaggio incolmabile. Quante volte ci è capitato di vedere sguardi proiettati a terra come segnale inequivocabile di resa: possiamo continuare a disegnare i nostri schemi sulla lavagna, ma se i giocatori guardano in basso è tutto tempo e pennarello sprecato. Gli occhi sono la porta del cuore: un giocatore non può trattenere il fuoco che ha dentro e non servono parole migliori per comunicare agli altri la fedeltà alla bandiera. Quando l'allenatore parla in spogliatoio, i giocatori sono di fronte e gli sguardi si incrociano: non c'è solo ascolto, c'è interpretazione dei sentimenti, condivisione di emozioni, sostegno reciproco. Nella pallacanestro, gli occhi oltre a vedere, parlano, ascoltano, sorridono: in pratica, come ho già detto, hanno tutto quello che serve per vincere. In questa foto ci vedo fierezza, consapevolezza, orgoglio, sfida. Ma anche rispetto, controllo, ponderatezza, calcolo. Milioni di stati d'animo in un millesimo di secondo. Voi cosa vedete che io non vedo?

mercoledì 1 febbraio 2017

sopra la panca

Sia chiaro: nessuno prova piacere nel tenere il deretano incollato al legno; tutti vogliono giocare 40 minuti e, se necessario, anche i supplementari; guardare, applaudire, girare l'asciugamano non è la stessa cosa di prendere il cuoio in mano, stare giù sulle gambe, saltare e, per i privilegiati, schiacciare; le squadre migliori sono quelle di 5 giocatori ( a detta dei giocatori stessi ). Eppure la panchina esiste ed è spesso affollata, particolarmente di carne fresca scalpitante che non vede l'ora di alzarsi e dare il proprio obolo alla causa comune. La panchina è perfino indispensabile: in partita, se un giocatore si infortuna o esce per falli; in allenamento, per usare tutto il campo a disposizione. Anche dal medico si sta seduti, in attesa del proprio turno: in panchina, non è detto che il proprio turno arrivi, a meno che qualcuno dall'alto stabilisca con imperio - e con grande umiliazione per gli operatori - che tutti debbano entrare in campo. Si potrebbero scrivere trattati epici rispondendo ad un'unica domanda: il campo è un diritto? Cerco di dare una sola e sintetica risposta: è un diritto finché un giocatore non ha possibilità di dimostrare quanto vale. Ci sono giocatori che conoscono il valore dell'attesa e che aspettano serenamente - che non significa felicemente - in fila facendosi trovare pronti al momento opportuno: mi vengono in mente i/le freshman dei college americani oppure i vari Dada Pascolo, Fontecchio e Abass, solo per citarne alcuni tra i più conosciuti. La panchina non è una sala d'attesa, piuttosto una rampa di lancio: chi entra scarico perché offeso e - a suo parere - umiliato, non farà altro che prenotare un abbonamento con posto seduto assicurato. La panchina, per chi allena, non dovrebbe essere un peso, ma un'opportunità: quando il cliente non è soddisfatto, si tirano fuori altri prodotti. Non sono un ripiego: sono la risposta efficace ad una precisa richiesta. Con i giocatori bisogna avere cura e coraggio: cura nel farli crescere e migliorare, coraggio di metterli in campo quando serve. Non è sentimentalismo, davvero è la panchina a fare la differenza: non è un caso che le partite si vincano o si perdono quando cominciano le rotazioni, quando i cosiddetti titolari diventano panchinari e viceversa. Sapete cosa mi piace di un campione come Vasilis Spanoulis? Che quando esce e va a sedersi, ormai sempre più spesso a 35 suonati, non fa il pensionato, ma si alza, urla, applaude. E se lo fa lui, che è il numero uno, lo possiamo fare tutti.